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Ottobre 2014 III – Interpretazioni e rappresentanze

1 Nov 14

A cura di Luca Ribolini

OTTOBRE 1974 – OTTOBRE 2014: QUARANT’ANNI DI CLUB TERAPEUTICI IN TICINO All’inizio degli anni settanta si costituì nel nostro Cantone, all’allora Ospedale Neuropsichiatrico Cantonale di Mendrisio, un primo nucleo di attività socio-ergoterapiche, sotto la guida di Ettore Pellandini, secondo il modello della Psicoterapia Istituzionale francese che, con la stretta collaborazione degli ospiti e degli operatori, sfocerà nell’ottobre del 1974 nella costituzione di un Club Terapeutico dei Pazienti, il Club ’74
di Andrea Mazzoleni, informazione.it, 16 ottobre 2014

Nell’ambito dell’approccio organizzativo e scientifico gli anni recenti hanno probabilmente risentito dei cambiamenti economici e politici facendo perdere visibilità alla questione della psichiatria che sembra essersi rinchiusa su sè stessa. Le preoccupazioni sembrano concentrarsi essenzialmente sugli aspetti tecnici ed amministrativi, letto, della dotazione di personale, ma gli aspetti concettuali di fondo non suscitano alcun dibattito. Sembra quasi che la copertura legislativa diventi un comodo paravento per l’inattività concettuale, mentre la psichiatria non dovrebbe mai trovare soluzioni definitive, ma rivedere continuamente i suoi presupposti, i suoi rapporti con il mondo sociale, il suo concreto modo di operare. In questo contesto riveste particolare interesse l’esperienza, che compie questo mese quarant’anni, realizzata dal Club ’74 in Ticino nell’ambito della collaborazione con l’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale. All’inizio degli anni settanta si costituì infatti nel nostro Cantone, all’allora Ospedale Neuropsichiatrico Cantonale di Mendrisio, un primo nucleo di attività socio-ergoterapiche, sotto la guida di Ettore Pellandini, secondo il modello della Psicoterapia Istituzionale francese che, con la stretta collaborazione degli ospiti e degli operatori, sfocerà nell’ottobre del 1974 nella costituzione di un Club Terapeutico dei Pazienti, il Club ’74. Dal punto di vista teorico il Club è un concetto di lavoro che fa riferimento all’Altro sociale, un luogo di incontro, un’istanza reale che tramite uno statuto pubblico permette di proporre, organizzare e realizzare diversi momenti e attività inserite nel circuito della parola, di soggettivazione dell’altro, troppo spesso considerato solo “oggetto bisognoso di cure”. In questo contesto l’Assemblea dei pazienti viene riconosciuta quale istanza socioterapeutica da uno statuto che prevede pure un Comitato e un Segretariato. Il Segretariato rappresenta l’organo operativo i cui compiti sono di coordinare le attività socioculturali, di redigere il giornale, di organizzare l’accoglienza dei nuovi ospiti, di gestire un proprio budget e di sovvenzionare le attività che mensilmente ogni unità terapeutica-riabilitativa (UTR) organizza. I concetti di lavoro che fanno riferimento all’Altro sociale e ai luoghi di incontro non possono che svilupparsi in un ambiente che favorisca la relazione e che diventi esso stesso istanza terapeutica privilegiata, assumendo la connotazione di spazio terapeutico per il reinserimento, e per la presa a carico, dei vari aspetti sociali e relazionali da parte dei diversi operatori coinvolti. Le varie categorie di utenti con cui l’operatore sociale o sanitario si trova sempre più confrontato avvengono in situazioni di relazione complessa per la quale è necessario progettare e attivare programmi diversificati il cui obiettivo principale sia il ripristino e la riabilitazione della parola. Interlocutore privilegiato, il Club è così nelle condizioni di creare un circuito di relazione che rende il paziente meno folle in quanto finalmente “soggetto” e quindi non più impotente di fronte alle differenti forme di alienazione sociale che provocano effetti di estraniazione e di esclusione. C’è un concetto fondamentale che Tosquelles, il padre della Scuola di psicoterapia istituzionale, ha ripetutamente ribadito nei suoi scritti : ci sono due assi fondamentali su cui si basa questo movimento: l’asse sociologico attraverso tutta l’analisi del contesto ambientale, le situazioni culturali,la situazione socioeconomica dove si sviluppa l’esperienza da un lato, e dall’altro lato l’asse psicoanalitico, quindi con tutto quello che partendo da Freud, Lacan, Bion, Winnicot, può essere sviluppato sul piano terapeutico. Che il club debba essere adatto a coloro che sono destinati a frequentarlo sembra tanto più evidente, in quanto sono loro che gli daranno la sua fisionomia, quindi innanzitutto, se vogliamo parlarne lo possiamo considerare quale luogo di incontro. Luogo di incontro nato in un primo tempo all’interno degli ospedali psichiatrici che erano luoghi dove in pratica la parola del paziente non esisteva, o esisteva in modo del tutto formale, ma non esisteva soprattutto il diritto alla parola. Storicamente, e questo ancora oggi lo si ritrova in alcuni testi legislativi, il malato mentale è stato considerato la persona incapace di intendere e di volere. Il Club è quindi soprattutto un concetto che ha queste due caratteristiche fondamentali : da una parte creare degli spazi di incontro e dall’altra parte dare, ridare, e oggi direi conservare, il diritto alla parola di una categoria di soggetti, di persone, che per lungo tempo per ragioni storiche e per ragioni sociali sono spesso stati emarginati e quindi avevano perso questo diritto. Struttura per sua natura aperta il Club garantisce la libertà di relazioni, la nascita delle possibilità, dell’originalità e della spontaneità delle iniziative. Inoltre complessificando così la realtà, anche attraverso la prassi burocratica creata ad hoc, realizza l’istituzionalizzazione di rapporti complementari favorendo le referenze transferenziali e istituendo la dimensione gruppale tra tutte le figure dell’istituzione, pazienti compresi. In questo contesto il ruolo dell’operatore si esprime attraverso la coordinazione delle proposte del Comitato dei Pazienti delle sue commissioni, delle riunioni intersettoriali, delle assemblee generali e del suo giornale “Insieme”, intervenendo sull’ “ambiente istituzione”, comune a operatori, pazienti e visitatori, che rappresenta perciò uno dei punti focali per un recupero di una qualità di vita relazionale e affettiva. Il Club è come un’istanza di mediazione tra il paziente e l’istituzione, il terzo mediatore tra curante e curato, è un organismo associativo dotato di autonomia decisionale che organizza e gestisce una serie di attività all’interno dell’istituzione. Costruire un club terapeutico significa che ognuno vi partecipi con il proprio interesse e che ognuno prenda la sua responsabilità nei suoi confronti. Riconoscere le differenze, riproporre una ridistribuzione delle opportunità, circoscrivere le cause dei disturbi, riequilibrare gli effetti del disagio, sono compiti che la psichiatria deve affrontare tenendo presente che le risposte univoche e pragmatiche allargano spesso il fossato tra il “normale” e il “diverso” producendo effetti di alienazione e separazione e in questo senso il Club ’74 ha ancora molto da fare quale strumento privilegiato nella lotta al pregiudizio di irresponsabilità dei malati. http://www.informazione.it/c/6736A3C2-8D64-46C9-A5E7-D96A721BFE37/Ottobre-1974-ottobre-2014-quarant-anni-di-Club-terapeutici-in-Ticino

IL SAGGIO CHE ECHEGGIA FREUD E RIDÀ RICCHEZZA ALLA PSICOANALISI
di Corrado Augias, Venerdì di Repubblica, 17 ottobre 2014

Che cosa ci fa soffrire di più, una piccola fobia o un’imponente ossessione? Caso pratico: contare tutte le pietre del selciato – o tutte le righe del marciapiede – da casa a ufficio: ossessione notevole. Essere angosciati dall’incontro possibile con un millepiedi, un ragno, un topo: piccola fobia. La risposta che dà Antonio Alberto Semi è quella intuitiva: il millepiedi ci spaventa, ovvero ci fa soffrire di più. Trovo questo caso nel libro del professor Semi dal titolo Psicoanalisi della vita quotidiana che echeggia scopertamente quello analogo di Freud. Mi sembra però che le finalità di Semi siano diverse da quelle del maestro. L’autore (dirige la Rivista di psicoanalisi) punta sul riconoscimento delle nostre nevrosi come potenziale fattore di uguaglianza. Volgarizzo: siamo tutti fatti della stessa pasta, anche se poi ovviamente ognuno la sviluppa a modo suo. «Parlo, egli scrive, non solo dell’esperienza particolare che si può compiere in qualsiasi analisi ma dell’avventura umana che tutti compiono». Con notevoli capacità divulgative, l’autore ricostruisce per prima cosa il complicato rapporto che si istaura tra terapeuta e paziente, dove ognuno dei due soggetti recupera con la libertà la propria diversità: «In questo sente di potersi davvero considerare uguale all’altro». L’esposizione si sviluppa in capitoli che si rifanno a esperienze cliniche ma anche (inevitabilmente) a eventi personali. Nel capitolo Riflessioni su una fotografia è interessante il percorso dall’immagine, al «ritorno al passato», alle parole. Un’altra domanda è: «Che cosa c’è di nostro nella realtà intorno a noi? Nostro, ovvero comunemente condiviso». Qui Semi accoppia la teoria monistica dell’individuo con il monoteismo, domanda cruciale in un’epoca nella quale lo sviluppo delle «neuroscienze» elabora teorie che rischiano di creare un’immagine meccanica, neurologica, dell’individuo. Semi restituisce invece alla psicoanalisi la sua ricchezza interpretativa, anche se non ne nasconde pericoli e punti deboli. Lo studio e la scansione del cervello può individuare aree e funzioni relative di quest’organo. Ma è all’analisi che bisogna ricorrere per rispondere alla vecchia domanda: «ma come sono fatto?»: «Penso che questa riflessione per quanto repressa nella società attuale ci faccia essere umani». Lo sapeva anche l’oracolo a Delfi: «Conosci te stesso». http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5158&catid=726&Itemid=353

«GUARDATE I DISEGNI DEI VOSTRI FIGLI». Non è sempre facile capire se un bambino ha subito abusi, come nel caso di Domenica Guardato e di sua figlia Fortuna. Alcuni comportamenti, però, possono metterci in guardia, come ci spiega Giuseppe Maiolo, psicoanalista
di Monica Coviello, vanityfair.it 17 ottobre 2014

C’è qualcosa di peggiore della morte di un figlio: è sapere che, prima di andarsene, il bambino ha sofferto, che qualcuno gli ha fatto del male. Domenica Guardato, giovane mamma napoletana, ha avuto la conferma dell’autopsia che Fortuna, la sua bambina di 6 anni, che a giugno era precipitata dal balcone di un palazzo di Caivano, ha subito abusi sessuali. Il sospetto della Procura, condiviso anche da mamma Mimma (così la chiamano tutti) è che la piccola fosse rimasta coinvolta in un giro di pedofilia, e che a farle del male sia stato qualcuno che lei conosceva e di cui si fidava. Ma esistono indizi che possano aiutare un genitore a capire che il figlio sta manifestando il suo disagio perché qualcuno sta abusando di lui o sta cercando di farlo? «I segnali, in gergo tecnico, vengono chiamati “indicatori” – spiega Giuseppe Maiolo, psicoanalista, docente di Educazione alla sessualità alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bolzano e autore del libro Attenti al lupo cattivo – Riconoscere l’abuso e proteggere i bambini (Edizioni Erickson) –. Questo vuol dire che non esistono prove certe, ma solo indicazioni, da interpretare sempre con molta attenzione e con l’aiuto di uno specialista. Nessuno di questi, se svincolato dal contesto, ha una validità assoluta». Maiolo, che il 24 ottobre, a Rimini, aprirà il convegno «Supereroi Fragili», sui disagi dei ragazzi, elenca dieci «indicatori». 1) Un bambino vittima di abusi è un bambino confuso, che non conosce le parole per raccontare quello che sta vivendo. Più è piccolo e più è privo di strumenti per capire quello che gli accade. Però ogni bambino ha un codice personale per esprimere il suo dramma: prima di tutto il cambiamento, improvviso. 2) Questo cambiamento può riguardare le sue funzioni biologiche più ordinarie: può iniziare a avere difficoltà a dormire in modo regolare o rifiutare il cibo. O, ancora, può cominciare ad avere strane paure. 3) Alcuni bambini mostrano cambiamenti di umore: passano da essere allegri e sereni a taciturni e depressi. Quelli più grandi, anche se fanno parte di un gruppetto di amici, possono cominciare a isolarsi e a rifiutare di vedere i compagni. 4) Possono dare segni di regressione alle fasi di sviluppo precedenti: ad esempio, possono tornare a bagnare il letto. 5) Alcuni bambini diventando o troppo aggressivi, in modo improvviso, oppure troppo buoni e remissivi. 6) Occhio ai disegni e al gioco: i piccoli che non esprimono a parole la loro rabbia possono avere l’impulso di disegnarla oppure raccontarla con giochi violenti sulle loro bambole e sui pupazzi. 7) Il disagio si può esprime anche seviziando gli animali domestici e provando un sottile piacere di fronte alla loro sofferenza. 8) A scuola possono essere meno concentrati e disinteressati a tutto. E peggiorare il rendimento. 9) Qualcuno mostra atteggiamenti seduttivi con gli adulti, oppure fa in modo di dimostrare di avere conoscenze precoci sulla sessualità degli adulti. 10) La violenza fisica lascia anche tracce visibili: il corpo racconta, ma gli adulti mettono in atto una specie di rimozione incredibile per nascondere a se stessi e agli altri ciò che sembra impossibile. Perché sembra impossibile che un bambino di pochi mesi, ad esempio, possa essere stato picchiato. Eppure è nel primo anno di vita che si compiono i gesti più violenti. Nessuno di questi comportamenti indica con certezza che il bambino ha subito abusi. Altri disagi possono originare comportamenti simili che vanno sempre condivisi con uno specialista. http://www.vanityfair.it/news/societ%C3%A0/14/10/16/bambina-napoli-fortuna-stupro-mamma PADRI

ASSENTI, FIGLI DISORIENTATI
di Giuseppe Culicchia, stampa.it, 19 ottobre 2014

Viviamo in un’epoca in cui, non solo in Italia, non solo in Europa, non solo in Occidente, le città sono sempre più pensate alla stregua di luoghi d’intrattenimento: come scriveva all’alba del nuovo millennio Bruce Bégout in Zeropoli. Las Vegas, città del nulla (Bollati Boringhieri 2002), l’urbe nel deserto del Nevada è organizzata in funzione del divertimento e dello shopping, e prevede un’animazione che non conosce soste, come usa dire h24, con architetture va da sé assai kitsch capaci di mixare seduzione commerciale e immaginario infantile, «offerta rituale al dio Divertimento e cimitero di insegne, trasfigurazione del banale e infinita variazione sul tema, sublimazione del grottesco al di là del bello e del brutto, Sogno Americano». Ed è proprio a questo modello di città non più fortezza o polo commerciale o industriale ma vero e proprio parco giochi in stile Disneyland, nel frattempo esportato nel resto del globo con la complicità di costruttori e «archistar», che fa pensare La fatica di diventare grandi, sottotitolo La scomparsa dei riti di passaggio, volume scritto per Einaudi dall’antropologo torinese Marco Aime e dallo psicanalista e psichiatra veneziano Gustavo Pietropolli Charmet. Il tema ricorre ormai da lustri non solo tra gli specialisti delle summenzionate discipline ma anche tra ordinarie pierre all’ora dell’apericena e casalinghe più o meno disperate: ormai gli adulti vivono come adolescenti, e gli adolescenti sembrano già adulti. Basta farsi un giro su Facebook o al più vicino centro commerciale, gli esempi non si contano. Al punto che non di rado ormai non pochi figli si preoccupano dei rispettivi genitori, ovviamente separati o in via di. Non perché questi ultimi abbiano superato l’ottantina o siano invalidi, ma perché dall’alto dei loro, anzi dei nostri quaranta o cinquant’anni non ci limitiamo a vestirci e acconciarci da ragazzini, ma ci comportiamo davvero come tali. Di modo che la prole, magari neppure maggiorenne, si rivela capace di dispensarci consigli non richiesti, tipo: «Papà, ma non lo vedi che quella che tu chiami la tua nuova fidanzata è una ragazzina narcisista che ti sta solo usando?». Ecco. Marco Aime, che prende le mosse dal concetto stesso di tempo, rileva come rispetto a qualche decennio fa, quando lo status degli anziani era ridimensionato dalla loro espulsione dal ciclo produttivo, le cose siano cambiate – gli ultra-sessantenni oggi sono ancora attivi, e detengono la maggior parte del patrimonio – e sottolinea come in realtà sia sempre stato importante evidenziare le differenze tra giovani e adulti. Non a caso, in ogni epoca e in ogni società sono nati riti di passaggio che segnavano la fine di un’età e l’inizio della successiva, e che erano allo stesso tempo una frattura e un segno di continuità all’interno di un quadro sociale condiviso. Da qui le prove iniziatiche a cui da sempre sono stati sottoposti gli adolescenti. Ma come sostiene l’antropologo africanista Max Gluckman, più le società diventano complesse, meno sono ritualizzate. E dunque, in casa nostra, ecco l’eclissarsi di riti di passaggio quali il servizio militare, il fidanzamento e il matrimonio. Preceduti dalla comparsa di una nuova categoria sociale: i «giovani». Buoni per fare la guerra – vedi la nascita di organizzazioni quali la Hitlerjugend o i Balilla negli anni Trenta del Novecento – oppure per fare shopping, così come vuole fin dagli anni Sessanta la cosiddetta civiltà dei consumi. Con i jeans e la minigonna, per la prima volta nella storia dell’Umanità i giovani marcavano una differenza rispetto al mondo degli adulti. Poi la mutazione, colta già da Giorgio Gaber. Vedi I padri tuoi: «Che sembrano studenti un po’ invecchiati non hanno mai creduto nel mito del mestiere del padre e nella loro autorità». Compare così sulla scena il personaggio del genitore «amico» dei figli, all’insegna di un’indulgenza programmatica che arriva al «facciamoci una canna assieme» e prevede che il padre o la madre si precipitino a scuola per aggredire gli insegnanti rei di aver dato un brutto voto o di aver punito il figlio/amico. Intanto, la tivù ha del tutto abdicato al ruolo pedagogico per diventare pura fonte d’intrattenimento. Quanto alle moderne tecnologie, quanti sono gli adulti che dipendono dai figli, quando si tratta di usarle? «Meno regole e meno punizioni»: ecco il motto dei nuovi genitori secondo Pietropolli Charmet. Dal padre etico, che aveva funzioni educative e di controllo, si è passati al padre che accudisce: salvo poi constatare come il figlio soffra non poco a causa dell’assenza o dell’evanescenza del padre medesimo. E se da un lato la pubertà arriva in anticipo rispetto a un tempo, abbreviando l’infanzia e dando luogo alla cosiddetta «adultizzazione precoce», dall’altro si assiste al rinvio del matrimonio e della procreazione. Con l’affermarsi della dipendenza nei confronti dei prodotti di consumo: «Può capitare di imbattersi in adolescenti che, animati da un desiderio ingordo di merce, cerchino disperatamente di mitigare i bisogni affettivi profondi spostandoli sulla raccolta frenetica e compulsiva di cose inanimate». Tutte cose che non sfuggono alle menti raffinate che stanno dietro i loghi delle varie corporation. Insomma: viene altresì in mente, inoltrandosi tra queste generazioni confuse, Alexis de Tocqueville, quando scriveva a proposito del tipo di oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici: «Al di sopra della massa, si erge un potere immenso e tutelare, che si fa carico solo di assicurare i divertimenti collettivi […] E’ un potere assoluto, dettagliato, regolare, preveggente e dolce. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare gli uomini all’età virile; ma, al contrario, non vuole che fissarli irrevocabilmente nell’infanzia». http://www.lastampa.it/2014/10/19/cultura/padri-assenti-figli-disorientati-la-fatica-di-diventare-grandi-hYMUejkegMvcmNuXYwHlkI/pagina.html

DAVVERO L’EMPATIA PUÒ FAR MALE ALLA DEMOCRAZIA?
di Gianfranco Sabattini, avantionline.it, 20 ottobre 2014

Paul Bloom, psicologo di Yale, in un articolo apparso sulla “Boston Review”, ha dato il là ad un dibattito ispirato dall’originaria pubblicazione del saggio “Empaty”, di Roman Krznaric. Il dibattito è ridondato anche in Italia, come testimoniano i recenti articoli di Massimo Recalcati e di Giancarlo Bosetti, apparsi su “la Repubblica” di domenica 5 ottobre. Malgrado il diverso orientamento culturale dei due autori, i due articoli mettono in dubbio le virtù dell’empatia: più critico Recalcati, in “Critica della ragione empatica”; più possibilista e meno tranchant Bosetti, in “I rischi politici dell’altruismo non razionale”. Ciò che delle posizioni di Recalcati e Bosetti, rispetto all’empatia, è poco condivisibile è il fatto che le loro valutazioni sono formulate senza la necessaria distinzione della sfera dei rapporti intersoggettivi, cui le valutazioni devono essere correttamente ricondotte; i loro giudizi sull’empatia sono espressi in termini così astratti da non consentire di capire se sono riferiti alla “sfera del sociale”, oppure alla “sfera del privato” dei rapporti umani. La mancata distinzione delle coordinate dei rapporti consente a Recalcati di considerare l’empatia come un sentimento esprimente “la capacità di una persona di comprendere e di far risuonare dentro di sé i pensieri e i processi psichici di un’altra persona”; e a Bosetti di considerarla un sentimento che spinge emotivamente l’uomo ad “avvicinarsi ai propri simili, a preferire persone di bell’aspetto, a sviluppare forme di altruismo che si rivolgono superficialmente a quello che di più colpisce attraverso i media”, o, in altre parole, al significato che all’empatia viene attribuito e propagandato da un’opinione pubblica plasmata e strutturata dai mass-media. Se ha senso parlare dell’empatia come di un sentimento emotivo che spinge l’uomo a identificarsi con l’altro nell’ambito della “sfera dei rapporti privati”, è fuorviante, se non errato, estenderlo anche alla “sfera dei rapporti pubblici”. All’interno di quest’ultima area dei rapporti interindividuali, l’empatia cessa di essere un sentimento più o meno emotivo, sino a risultare ridotto, spesso, a ideologia vincolante sul piano etico del comportamento umano; ciò perché, all’interno dell’area dei rapporti pubblici, l’empatia ha un fondamento obiettivo, in quanto consente di percepire stati di bisogno che, pur avvertiti a livello soggettivo, hanno un fondamento reale ed intersoggettivo. Nell’ambito della sfera pubblica, infatti, l’empatia prefigura una “condizione minima comune” che, se si pretende di proiettarla nell’ambito dei rapporti privati, può trasformarsi in un sentimento irrazionale, con molti “rischi politici”. La natura oggettiva e intersoggettiva dell’empatia nell’ambito della sfera pubblica non deriva tanto dalla pretesa di un soggetto di identificarsi negli stati esistenziali di un altro, ma dalla presenza di rapporti diretti di reciprocità tra soggetti che si trovano a vivere la loro esistenza privata all’interno di un “contenitore istituzionale comune”, rapporti, questi, che attengono alle modalità con cui sono percepiti gli stati di bisogno comuni o sociali, quali quelli connessi, ad esempio, al bisogno di equità distributiva, alla formazione educativo-professionale o alla cura della salute individuale. Questi stati di bisogno se non soddisfatti in termini empatici, ridondano negativamente all’interno della sfera dei rapporti privati, a causa del fatto che i singoli, tutti i singoli, non sono messi su un piano di parità nello sviluppare le loro specificità personali, rispetto alle quali un eccesso di comportamento simpatetico sarebbe disfunzionale. Per rendersi conto della diversa natura del ruolo dell’empatia all’interno delle due “sfere” dei rapporti intersoggettivi, occorre considerare che ogni soggetto, in quanto facente parte di un insieme più ampio, si trova nella condizione di percepire stati di bisogno soggettivi identici a quelli dei restanti componenti del gruppo. In questo caso si ha perciò la percezione di uno “stato di bisogno indivisibile”, comune a una collettività di soggetti, percepito e dunque soddisfatto col comune concorso di tutti, in quanto ciascuno avverte non solo il proprio stato di bisogno, ma anche quello degli altri, in quanto stato di bisogno comune percepito da tutti. L’intercognizione degli stati di bisogno di tutti i componenti la collettività origina, infatti, una “comunione di stati di bisogno”, la quale trova il suo fondamento nei rapporti diretti e di reciprocità tra tutti i componenti la comunità. Quanto sin qui detto, con riferimento alla sfera pubblica dei rapporti intersoggettivi, non può essere riferito anche alla sfera dei rapporti privati, poiché all’interno di quest’ultima il sentimento empatico può “oscurare” del tutto l’autonomia valutativa di ogni soggetto, riguardo alla libertà di soddisfare incondizionatamente i propri stati di bisogno. Perché ciò non avvenga, occorre che le modalità con cui gli stati di bisogno soggettivi sono soddisfatti non siano totalmente estranee ai componenti, in quanto singoli, la comunità, perché unici interessati ad orientare ed a controllare le decisioni riguardanti la soddisfazione dei propri stati di bisogno privati; pena l’omologazione di tutti ad un “unum” che corrisponde, come avviene nei regimi autoritari, alla cancellazione di ogni specifica differenza esistente tra i singoli soggetti. La democrazia, perciò, non è “anti-empatica per definizione”, come afferma Recalcati; tutto dipende dal tipo dei rapporti intersoggettivi che si considerano. Solo nella sfera dei rapporti privati le differenze, per definizione, non sono abolite; anzi, esse sono presidiate dal fatto che, invece, per definizione, le differenze sono abolite nella sfera dei rapporti sociali, in quanto è la soddisfazione dei comuni stati di bisogno a preservare le differenze “come dato inassimilabile” nella sfera dei rapporti privati; in questo modo, all’interno di quest’ultima sfera, “l’altro resta l’altro”, evitando così che si realizzi tra i soggetti l’intimità alienante della quale parla Recalcati. Le differenze individuali, perciò, nella sfera del privato possono essere garantite e presidiate, solo se sono assicurate dalla realizzazione delle condizioni necessarie: ovvero, la soddisfazione omogenea di tutti gli stati di bisogno sociali avvertiti empaticamente dai componenti l’intera comunità. L’empatia, intesa correttamente, può peggiorare, come afferma Bosetti, il funzionamento delle democrazie; non tanto perché a chi governa la brevità del mandato elettorale impedisce “di occuparsi dei consensi che una scelta di oggi avrà in un futuro lontano”; quanto, piuttosto, perché chi governa pretende di soddisfare gli stati di bisogno privati mancando di valutare empaticamente ciò che sarebbe necessario realizzare a livello della sfera dei rapporti pubblici. Nel caso dell’esempio di Bosetti, chi governa spesso sbaglia, non perché compie le sue scelte in funzione della cattura del consenso elettorale espresso sulla base di valutazioni soggettive, quanto perché, mancando di distinguere le due sfere dei rapporti intersoggettivi, non valuta empaticamente gli stati di bisogno connessi all’esigenza di assicurare condizioni di equità intragenerazionale ed intergenerazionale, strumentali alla salvaguardia delle differenze individuali nella sfera del privato. http://www.avantionline.it/2014/10/davvero-lempatia-fa-male-alla-democrazia/#.VEcW0fmsXw8

TANTI NESSI FRA ARTE E PATOLOGIA, FISICA E MENTALE
da trevisotoday.it, 20 ottobre 2014*

Vincent Van Gogh, Luciano Ligabue, Francisco Goya, ma anche Evard Munch ed il grande Michelangelo Buonarroti, seppure in modo diverso per tipologia ed intensità, soffrirono tutti di disturbo mentale e psichico. Così come il violinista e compositore Arturo (sic) Paganini era affetto da una malattia rara, la sindrome di Marfan, che grazie a mani lunghe e sproporzionate, con una straordinaria elasticità delle articolazioni, gli consentì di raggiungere gli incomparabili livelli di virtuosismo riconosciutigli a livello mondiale. Se ne è discusso sabato mattina a Monastier nel corso di un convegno interdisciplinare su “Arte e Patologia” promosso dal centro studi psicosociali Calvani dr. Antonio ed organizzato in collaborazione con l’Ordine dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri di Treviso, della Fondazione Oderzo Cultura onlus, del Centro studi sociopsicogiuridici di Trieste, quest’ultimo alla sua prima uscita pubblica dopo la recente costituzione, con il patrocinio del Comune di Monastier. Attraverso un approccio multidisciplinare – che ha messo a confronto tra loro esponenti di psicanalisi, psicologia, medicina, criminologia, architettura, storici dell’arte e della musica – si è cercato di esplorare il nesso esistente fra l’espressione artistica e la malattia, sia mentale che fisica. “L’arte, come espressione di sé, consente di superare tutti i limiti, – hanno commentato Emanuela Calvani e Pierluigi Granata, rispettivamente presidente e responsabile dell’organizzazione scientifica del centro studi Calvani – poiché l’arte parla un linguaggio universale, che può arrivare ed essere compreso ovunque. Da qui, il nostro desiderio di approfondire una tematica che mette al centro la persona ed il suo benessere, prima ancora che il paziente e la sua malattia”. Giuseppe Guido Pullia (già direttore del Dipartimento Salute mentale di Treviso) e Rita Corsa (psichiatra e psicanalista) hanno spiegato come la frequenza all’autoritratto in pittori affetti da grave sofferenza psichica, ci parla dell’atto artistico come gesto riparativo. Dopo l’ingresso in manicomio, in quasi tutti gli internati si osserva un impoverimento del gesto artistico; privati praticamente di tutto, in quanto “in manicomio non potevano scegliere nulla di quello che facevano, ecco che gli individui finivano per assomigliarsi tutti, anche nei comportamenti e nel modo di porsi, che poi venivano letti come sintomi di patologia. Ad esempio, molti tendevano ad accumulare oggetti, a riempirsi le tasche di quello che trovavano in giro, come lo stesso Gino Rossi che fu ricoverato al Sant’Artemio di Treviso”. Francesca Valentina Salcioli (arteterapeuta e naturopata) ha invece approfondito l’importanza che l’arte riveste come aspetto terapeutico, intesa come un ‘prendersi cura’, anziché una ‘cura’ vera e propria della persona. Franco Basaglia, psichiatra e neurologo, compì una rivoluzione nella concezione moderna della salute mentale. “Si passò dall’arte come diagnosi, all’arte come espressione artistica, di per sé, a misura di persona, non di paziente”. Che differenza esiste fra allucinazioni ed estasi? “A noi non interessa – ha ribadito Salcioli – a noi interesse il benessere della singola persona”. Raffaele Rizzardi (dottore in conservazione e gestione delle Belle Arti) ha trattato della dissociazione spazio-temporale in architettura analizzando il caso di Ludwig, re di Baviera, che fu deposto nel 1886 poiché dichiarato pazzo. Infine, i relatori del convegno hanno più volte fatto riferimento alla musica e alla poesia come ulteriori espressioni artistiche in cui è impossibile tracciare un confine fra creatività, genio e follia. Ricordando, come diceva Proust, che: “Le opere, come nei pozzi artesiani, salgono più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore”. http://www.centrostudicalvani.it * Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di TrevisoToday http://www.trevisotoday.it/cronaca/i-tanti-nessi-fra-arte-e-patologia-fisica-e-mentale-2250347.html

“CONFUSI E FELICI” COME I PAZIENTI CHE CURANO LO PSICANALISTA DEPRESSO BISIO di Redazione Tiscali, spettacoli.tiscali.it, 20 ottobre 2014
Psicanalisti, sessuologi, psicologi. Non c’è tema che ispiri meglio Massimiliano Bruno, uno degli sceneggiatori e registi di maggior talento della commedia italiana recente. Era lui a prendersi cura dei problemi di impotenza di Alessandro Graziosi in Maschi contro femmine. Ed è lui il regista di Confusi e felici, dal 30 ottobre in tutte le sale, storia di uno psicanalista cialtrone e piuttosto cinico che va a sua volta in depressione. Nei panni di Marcello, questo il nome del personaggio, c’è Claudio Bisio. Chiuso in casa – Quando Marcello crolla e decide di negarsi al mondo esterno, barricandosi in casa come un uomo senza speranza, a muoversi in suo soccorso è l’intero staff che lavora con lui. A cominciare da Silvia (Anna Foglietta), sua segretaria che parte al contrattacco e decide di coinvolgere non solo i colleghi ma perfino i pazienti per cercare di dare uno scossone a Marcello e farlo uscire dalla crisi. Pazienti che curano il medico? Le ricadute sono imprevedibili, ed esilaranti. Lo spacciatore, il mammone e gli altri – A soccorrere lo psicanalista depresso saranno dunque uno spacciatore affetto da attacchi di panico, Nazareno (Marco Giallini), un quarantenne mammome cronico, Pasquale (Massimiliano Bruno), una ninfomane Doc, Vitaliana (Paola Minaccioni), una coppia in crisi sessuale, Enrico e Betta (Pietro Sermonti e Caterina Guzzanti) e Michelangelo, telecronista in crisi per il tradimento della moglie. Pronti a fare del loro meglio pur di riprendersi in piena efficienza il dottore che teneva insieme le loro vite.
http://spettacoli.tiscali.it/articoli/cinema/14/10/20/confusi-e-felici.html?cinema

SAVONA :“DONNE, CORPO, SCRITTURA” INIZIO DI UN CICLO DI TRE CONFERENZE A CURA DEL PSICOANALISTA SILVANA POSILLIPO Presso la libreria Ubik domani mercoledì 22 ottobre di Redazione, savonanews.it, 21 ottobre 2014
Mercoledì 22 ottobre alle ore 18 presso la Libreria Ubik a Savona si terrà l’incontro “Donne, corpo, scrittura” Le istanze femminili e i risvolti psicoanalitici negli scritti di alcune grandi donne della storia. Sarà l’inizio di un ciclo di tre conferenze a cura di SILVANO POSILLIPO Psicoanalista membro della SLP – Scuola Lacaniana di Psicoanalisi Nietzsche e Balzac nei loro scritti hanno anticipato la caduta del ‘nome del padre’ e della famiglia patriarcale: ideali svalorizzati dall’ascesa dell’oggetto di consumo e dalla disseminazione globale dell’ideale del godimento senza limiti, così come già mostrato da Lacan. Allo stesso tempo la scrittura di alcune donne ha indicato altri versanti che si andavano delineando: la soggettività delle donne, la loro domanda di accoglienza di un modo specifico, differente, di prendere parola, di costruire forme culturali e, in particolare, del rapporto al corpo e ai suoi saperi. La psicoanalisi, a partire da Freud, ha dato voce e spessore a queste nuove interpretazioni e alle istanze femminili sottraendole alla banalizzazione della finzione e della patologia. Nel ciclo di interventi discuteremo di alcune straordinarie esponenti del lavoro di scrittura, della messa in questione del corpo e della differenza sessuale: Marguerite Duras e il rapporto con il corpo e il suo “rapimento”; Teresa d’Avila e l’amore mistico; Hannah Arendt per la forza dell’intelligenza; Lou Andreas von Salomé con le colleghe analiste nell’interrogarsi sull’erotica. E di altre ancora… http://www.savonanews.it/it/2014/10/21/leggi-notizia/argomenti/eventi-spettacoli/articolo/savona-donne-corpo-scrittura-inizio-di-un-ciclo-di-tre-conferenze-a-cura-del-psicoanalista.html

ADOLESCENZA E DINTORNI L’adolescenza è la fase della vita in cui forse avvengono le maggiori trasformazioni. Cambia il corpo, la psiche. Muta il pensiero che diviene capace di astrazioni di Giuseppe Maiolo, vallesabbianews.it, 22 ottobre 2014
Durante l’adolescenza si trasformano le relazioni e la visone del mondo. Cambia il modo di percepire la realtà e gli altri. È l’epoca che precede l’età adulta e segue l’infanzia. Qualcuno l’ha chiamata l’età incerta, qualche altro la “bell’età”. Donald Winnicott, uno psicoanalista inglese l’ha definita il “tempo della bonaccia” intendendo, come metafora, il luogo delle calme equatoriali in cui l’adolescente, afflitto da confusione e dubbi su tutto, si arresta per un tempo indefinito prima di riprendere il suo cammino verso l’autonomia. Sta di fatto che l’adolescenza è una traversata, un percorso lungo e complesso perché si tratta di attraversare il guado che porta alla maturità. Quella di crescere e diventare grandi, oggi forse ancora più di ieri, è un’avventura che costituisce una vera e propria fatica. Per tutti. Per il diretto interessato, l’adolescente, e per chi sta negli immediati dintorni. Si tratta di un delicato processo di cambiamento che comporta un lavoro lento e complesso alle volte interminabile. Perché il cosiddetto tempo delle mele, cioè il tempo dell’attesa cui alludevano alcuni anni fa una serie di film dedicati all’adolescenza, è ora uno spazio di frenetico di attività. Qualche decennio fa, infatti, l’adolescenza era un lungo viaggio di attesa: il tempo appariva come uno spazio vuoto da riempire. Oggi le giornate degli adolescenti sono piene di impegni, fitti di attività da compiere con i ritmi velocissimi che caratterizza la vita quotidiana nevrotizzante degli adulti. I messaggi sono contraddittori, le indicazioni vaghe ed imprecise. Anche in famiglia il tempo è contratto. Questa nostra epoca è un tempo di grandi metamorfosi, di alchimie complesse, dove non sembra accadere nulla e dove invece ogni cosa, cambia rapidamente e senza apparire, oppure si manifesta in modo rumoroso, soprattutto quando attorno all’adolescente ci sono solo silenzio e solitudine. Il rischio più grande è quello di non riuscire a comunicare e la fatica sta nell’orientarsi e nel sapere da che parte andare. Così anche per l’adolescente mancano i tempi della riflessione e dell’ascolto. Il gran frastuono degli infiniti messaggi spesso contraddittori che accompagna la nostra esistenza e ci rende incerti e dubbiosi di tutto, avvolge e confonde soprattutto i giovani. http://www.vallesabbianews.it/notizie-it/(Valsabbia)-Adolescenza-e-dintorni-30238.html

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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