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PARIGI 2015: TERRORE E IDENTITA’

3 Dic 15

A cura di gliargonauti.psicoanalisi

Gli eventi di Parigi lasciano senza parole, eppure di parole ne sono state dette e scritte a fiume. Perché le parole fanno luce, riducono le tenebre, fungono anche da contenitore per angosce che altrimenti rischierebbero di restare non metabolizzate. Soprattutto, si cercano spiegazioni al fine di ridurre il rischio che eventi tragici come questi si possano ripetere, si cerca di ritrovare i significati attaccati dal terrorismo, che siano questi rappresentati dalle Torri Gemelle, dalla stazione di Madrid o dai locali di Parigi. Si cerca di poter dire ancora, con Hemingway, che ci sono solo due posti al mondo dove possiamo vivere felicemente: a casa e a Parigi. Ma le parole possono anche oscurare, negare, attizzare contrapposizioni semplicistiche, schematiche e regressive. Il “noi” contro il “loro” scivola facilmente nella generica violenza che compatta i gruppi e consente proiezioni paranoidee reciproche. Sembra ovvio che posizioni come queste siano infatti frutto di una scissione che permette, in prima battuta, di mettere un apparente ordine in un clima confuso, angosciante e rabbioso contemporaneamente. Tuttavia, tali meccanismi non offrono spazio al pensiero sulla complessità della situazione globale, non aiutano né a tentare di comprendere né, alla lunga, a placare l’angoscia. L’aiuto può stare nelle spiegazioni che nascono dalla comprensione di ciò che è accaduto, superando odio (per i musulmani in genere) e sensi di colpa (dell’Occidente), assumendosi e riconoscendo  le responsabilità sia dei paesi arabi che dell’Occidente, ma anche ritrovando, ricostruendo e interpretando la storia, e soprattutto le storie di questi giovani terroristi.
Ritrovare la storia significa capire perchè dei musulmani di seconda generazione cresciuti e naturalizzati in Francia o in Belgio, siano arrivati a essere dei kamikaze in nome del radicalismo islamico. A differenza del passato, non si tratta di ragazzi nati e cresciuti in un milieu  fondamentalista, arrivati per esempio dalla Syria. Si tratta invece di giovani, spesso appena poco più che adolescenti, che avrebbero potuto trovare nella vita europea altri principi con cui identificarsi. Dunque, almeno due sembrano le caratteristiche fondamentali di questi “nuovi” kamikaze: la giovane età e l’essere di seconda generazione, figli di immigrati dai paesi arabi.
Essere adolescenti ha un significato particolare: tutti gli adolescenti hanno bisogno di avere degli ideali saldi in cui credere, questo per potere essere qualcuno, potere diventare un uomo o una donna che ha qualcosa da dire e da fare, insomma al fine di diventare dei “soggetti”, delle  “persone” in senso pieno. Questi ideali sono di solito il frutto della storia di ciascuno di noi, nascono dalle identificazioni con i valori delle famiglie e della società in cui viviamo all’interno delle numerose rielaborazioni che di esse facciamo nel corso dello sviluppo, e dalle alternative che possiamo trovare. C’è quindi da chiedersi come mai questi giovani kamikaze non siano riusciti a trovare nella società europea e nelle loro famiglie naturalizzate qui, degli ideali con cui identificarsi e abbiano invece aderito a ideali terroristici e fondamentalistici che non facevano direttamente parte della loro vita quotidiana. E’ evidente che un buco c’ è stato:  le famiglie e la società in cui sono cresciuti sono prive o meglio difettose di memoria, nel senso che non vi è stata una sufficientemente integrazione tra la cultura di origine e la nuova cultura di appartenenza di immigrati.
I genitori di questi adolescenti sono infatti immigrati di prima generazione, ma questo non fa di loro necessariamente delle persone autenticamente integrate , potrebbe fare di loro delle persone semplicemente “adattate” che hanno accettato talvolta umiliazioni e sfruttamento, consapevoli che questo potesse essere comunque preferibile alle dittature, alla povertà o addirittura al rischio di vita dei paesi di provenienza. Ma la seconda generazione, proprio perché nata in occidente, ha maggiormente assorbito la nostra cultura, la cultura del diritto al lavoro e a una vita dignitosa. Da questo vertice dobbiamo considerare  che disoccupazione e/o quartieri degradati (ora definiti con delicato eufemismo “quartieri sensibili”) non rappresentano una gratificante reificazione della cultura di adozione, per cui  delusione, rabbia e ribellismo ne sono le conseguenze.  D’altra parte non possiamo non notare che non tutti i kamikaze appartenevano a famiglie degradate, in alcuni casi i genitori, i fratelli e gli  amici non solo hanno nettamente preso le distanze dalle azioni omicide e suicide compiute, non spiegandosi come avessero potuto compiere queste azioni, ma si definiscono e li definiscono (i figli,i fratelli e gli amici..) integrati, con un lavoro e situazioni economiche non eccessivamente  disagiate.  Tutto questo, se da una parte ci mostra con evidenza il fallimento degli interventi educativi che non sono riusciti a favorire un’integrazione reale sia in situazioni favorevoli che in situazioni meno agiate, dall’altra evidenzia che la cultura dei paesi di origine, in primo luogo proprio l’ Islam pacifico, si è dispiegata nell’esperienza della seconda generazione come narrazione debole, minoritaria e contraddittoria rispetto al contesto nel quale questi giovani sono vissuti.
Quindi la delusione rispetto ai valori occidentali (fatto che vediamo anche negli adolescenti europei) unita  alla debolezza dei valori della cultura islamica pacifica, talvolta forse addirittura in parte rigettata dagli immigrati di prima generazione al fine di tentare invano una maggiore integrazione,  ha lasciato spazio all’ISIS, che proponendosi con una narrazione forte, è diventato garante di una identità e di una appartenenza totale ed esclusiva che con la religione ha molto poco a che fare, e che anzi distorce, notoriamente ormai,  il significato originario dell’islam (“Not in my name”). L’idolo in questione evidentemente non è Allah, non sono le 7 vergini che accoglieranno i kamikaze in paradiso,  ma il riscatto che questi ragazzi, traumatizzati anche senza saperlo, hanno depositato nel senso di una appartenenza trionfante, senza se e senza ma. Il trauma di cui stiamo parlando ricorda molto da vicino la teoria del trauma scelto di Volkan: in una dinamica fortemente improntata al narcisismo ferito, la seconda generazione di immigrati è sensibile alla manipolazione che riprende un trauma, quello dell’immigrazione, mai del tutto superato. Un trauma transgenerazionale, passato silenziosamente dai genitori ai figli,  e ancora ai figli dei figli che fa sì che l’odio nasca proprio qui, qui da noi.
L’ISIS, come tutte le ideologie rigide, autarchiche e antidemocratiche, non permette conflitti, non permette negoziazioni, non permette altro che la cieca credenza in un idolo, fino a uccidere e morire per esso: un ottimo simulacro che permette, anzi legittima e idealizza, l’agire dell’odio, della frustrazione, della rabbia. La sua potenza sta proprio paradossalmente nella sua  rigidità, che risolve le fatiche e il dolore della scelta tra una cultura di appartenenza ed un’altra, tra un’identificazione e un’altra, tra oggetti interni diversi e contradditori, amorfi e deludenti presenti nel mondo interno di questi ragazzi. Infatti, quali motivi possono essere così potenti da spingere un ventenne a uccidere e uccidersi se non il bisogno di riscatto, se non l’appartenenza a un gruppo totalizzante primitivo che permette il baratto della propria vita biologica con la prosecuzione della propria verità (Beebe Tarantelli), se non il bisogno di incutere paura a chi ha fatto paura a propria volta?
In un clima del genere, la manipolazione dei giovani che l’ISIS propone è facile, anzi facilissima. L’ISIS, insieme ad altri paesi potenti, riescono a fare credere che il problema sia esclusivamente l’impossibile integrazione tra due religioni, fino a offuscare il fatto che, in quegli stessi paesi da cui i terroristi provengono, la compresenza di religioni diverse è sempre esistita. In tutti i paesi del Nord Africa, che adesso sono una polveriera,  cristiani e musulmani nella vita quotidiana hanno sempre convissuto, basta visitarli per vedere Moschee e Chiese le une vicine alle altre, ed opere che contenevano entrambe le culture (visitarli purtroppo per quanto possibile dopo gli scempi distruttivi a opera dell’ISIS e delle guerre)
La manipolazione sta dunque anche nella trasformazione delle motivazioni: chi ha interesse a creare il caos, a mettere in ginocchio l’economia di interi paese ha come interesse reale il prendere il potere, dominare e asservire intere popolazioni e, come da sempre nella storia, sfrutta il disagio dei giovani per mandarli a morire. Tutto questo non ci è estraneo come vorremmo: cosa fecero nazismo e fascismo se non qualcosa di molto simile?
La crisi occidentale delle grandi narrazioni , garanti metasociali e metapsichici, ne ha lasciata in vita una sola: quella del mercato dato ideologicamente come naturale  e neutrale (Tramma).  Da questo vertice si potrebbe dire che lo sviluppo capitalistico dominante e poco lungimirante rispetto alle fasce più vulnerabili, insieme a una globalizzazione molto rapida e quindi non facile ad essere metabolizzata, sono fattori che finiscono per generare forti incertezze identitarie e sanciscono l’evoluzione moderna antagonista (Cono Aldo Barnà, Lombardozzi) dal momento che hanno privato questa seconda generazione di immigrati di un contenimento solido e non hanno fornito il tessuto di un sogno che potesse essere condiviso e sognato con convinzione: si sono trovati in balìa di una grande narrazione pseudoreligiosa, di una manipolazione violenta e eccitante. In assenza di un sogno di vita, sono diventati preda di un sogno di morte.

 
Gabriella Mariotti, Valeria Pezzani


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