Nel tardo pomeriggio ho passato appena un'ora sdraiato sul divano di una casa dove sono ospite. Quel divano che mi abbraccia, ma che mi ricorda costantemente che non sono a casa mia. Sopra al divano inchiodata al muro una tovaglietta di un pub di Roma sulla quale mio figlio ha disegnato un labirinto sotterraneo che deve essere un laboratorio scientifico di una pantegana localizzato, dice lui, sotto il letto del Tevere.
Su quel divano ho cercato di rilassare il corpo dopo aver staccato dal turno diurno al Centro di Salute Mentale dove generalmente passo gran parte della giornata.
Ho cercato di riposarmi perché già so che la notte che mi aspetta in SPDC non potrà andare liscia.
Ho saputo che nel pomeriggio M. si è recato in Direzione del DSM e ha interrotto un corso rivolto agli operatori sulla gestione delle emergenze psichiatriche mostrando con forza, a tutti, la portata del suo mondo psicopatologico.
Erano diversi giorni che si recava autonomamente in CSM o in SPDC, all'inizio per portare un saluto, poi aveva assunto un atteggiamento spavaldo e aggressivo.
Il giorno precedente alla sua comparsa in Direzione erano state attivate le forze dell'ordine più volte. Si sapeva che ci si sarebbe trovati presto in una situazione tale per cui sarebbe risultato necessario appellarsi allo stato di necessità oppure attivare un Trattamento Sanitario Obbligatorio. E pensare che M. di trattamenti obbligatori ne aveva già fatti almeno tre nell'ultimo anno. Ma nulla era cambiato.
M. si era quindi recato in Direzione, aveva interrotto un incontro al quale partecipavano diversi psichiatri, psicologi e infermieri e, praticamente, si era consegnato.
In sede, presente il 118 e le forze dell'ordine, erano state praticate 2 fiale di moditen depot e la tripletta i.m. entumin-largactil-en5mg. per due. Finalmente si era tranquillizzato, forse si era addormentato, ed era stato condotto al SPDC dove era stato notificato il Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Tutto questo per dire che, tagliati i capelli, sarei dovuto scendere in SPDC e prendere servizio attivamente alle 20 poiché M. si sarebbe potuto svegliare, avrebbe così appreso di essere in TSO. Alle 20 sarebbe stato il momento della terapia, alle 16 aveva fatto un prelievo che evidenziava un valore di 3000 di cpk, era stato preso un accesso venoso per somministragli liquidi, non aveva fatto pipì, non era stato fatto un tossicologico e, presumibilmente, era fortemente intossicato da cocaina.
Insomma, vado in SPDC.
Lì incontro il collega del turno pomeridiano che ha appena terminato un colloquio con la figlia di un signore ricoverato: il sig. G.
Il tizio è stato trovato in strada che non ricordava il suo nome, come sembrava non ricordasse null'altro. Una volta identificato, si narra per mezzo delle iniziali del nome ricamate sulla camicia, e dopo l'attivazione di alcuni amici d'infanzia, che avevano letto un articolo sul giornale locale, era stato trasferito presso il nostro servizio in attesa di completare l'iter diagnostico.
Si pensava a un'amnesia dissociativa ma, dopo aver conosciuto la storia di G., la simulazione non era da scartare.
La figlia che vive in Liguria, e non sa l'indirizzo di casa del padre a Trieste, vuole che l'aiutiamo a rintracciare la di lui compagna ma non vuole darci il numero con un'atteggiamento che va dall'eticamente corretto al francamente paranoico.
Alla fine della fiera riusciamo a parlare con l'affittuaria della casa di G. e la figlia si accorda con quest'ultima per entrare in casa e procurare gli effetti personali del padre che gli saranno utili durante il ricovero.
Apprendo ora che G. non stava pagando l'affitto da mesi e che la padrona di casa, con l'occasione del ricovero in psichiatria, lo lascerà fuori dall'abitazione.
Il sig.G. quindi ha perso memoria e abitazione e ha fatto il suo ingresso nel mondo della psichiatria.
Il sig. G. forse non ha perso la memoria, non ha perso la casa che non ha mai avuto, non ha perso i soldi dell'affitto che non ha mai pagato, non ha perso la figlia che forse ha maltrattato e che con questa storia ha riguadagnato, ha trovato un letto, del cibo e una sistema di welfare che si attiverà per lui.
Forse il sig. G. non ha perso nulla ma ha guadagnato qualcosa.
Finalmente la figlia del sig. G. imbocca la porta di uscita e ho tempo per guardare in faccia gli infermieri che con me passeranno la notte: c'è Federica, un tesoro di donna che con i suoi occhi azzurri, e con l'affetto che con questi riesce a comunicare, è in grado di tranquillizzare un povero cristo che varca la soglia del servizio in stato di crocifissione; poi c'è Michele, anche lui affettuoso e meticoloso, che però va tenuto a bada poiché con la sua ansia è in grado di trasformare una stupidaggine in un allarme.
Nel frattempo è giunto in SPDC il tracciato ECG di M.: sottoslivellamento ST aspecifico, tracciato nei limiti della norma, QTC 430, buono. Do quindi indicazioni di continuare a monitorizzare i parametri di M. con regolarità nel corso della notte, per il momento la frequenza cardiaca, la saturazione di Ossigeno, e la Pressione Arteriosa sono buoni e M. continua a dormire.
< Bene, direi che attiviamo l'infermiere reperibile>, dico io.
Segue un confronto tra noi tre, attivi: è pur vero che M. dorme, ma è anche vero che si sveglierà e che potrebbero arrivare altre situazioni di difficile gestione, in quel caso fare affidamento su una persona in più potrebbe tornare utile.
Federica chiama quindi Michele, l'altro Michele, il siciliano, il reperibile, che viene sorpreso, ignaro di essere reperibile, a cena. Tra poco arriverà anche lui, forse scazzato, ma operativo come sempre.
Quindi due uomini e una donna, oltre a me.
E finalmente M. si sveglia. Ai primi segnali avevo fatto preparare una fisiologica da 250 con 15 mg. di en da somministrare lentamente per mantenere uno stato di sonno senza dover per forza ricorrere ai neurolettici, non sicuro di cosa avesse in corpo.
Ma mentre preparavamo la flebo M. si sveglia e si agita. Si strappa l'accesso venoso e tenta mettermi le mani addosso.
Siamo ancora in tre. Il reperibile non è ancora arrivato.
Provo a spiegargli dolcemente che devo somministragli la terapia.
Nel frattempo faccio preparare un'altra tripletta di entumin-largactil-en5mg. Non accetta.
La dolcezza non lo convince a farsi praticare l'iniezione ma lo fa addormentare. Lo lasciamo decantare nel frattempo chiamiamo le forze dell'ordine e attivo i colleghi della rianimazione dovesse rendersi necessario effettuare una sedazione profonda e monitorizzare seriamente i parametri di M.
Giungono sul posto due poliziotti che vengono subito raggiunti da altri due. Intanto M. dorme.
Uno dei poliziotti, appena varca la soglia del SPDC, ci tiene a mettere le cose in chiaro.
<Noi non lo tocchiamo>, dice.
Le forze dell'ordine sono ancora scottati, direi bruciati, dalla morte di un uomo avvenuta durante un loro intervento, quella volta le mani addosso le hanno messe, forse, quella volta non erano stati attivati dalla psichiatria, ma l'uomo era un paziente psichiatrico e questo è sufficiente per confondere il loro mandato con il mandato dell'altro, il medico, lo psichiatra.
<Nessuno vi ha chiamati per 'mettergli le mani addosso, ma il sig. M. è in TSO, nei giorni precedenti, e poco fa, ha manifestato comportamenti aggressivi e in fin dei conti abbiamo due diverse posizioni di garanzia, noi e voi, per cui collaboriamo in scienza e coscienza>
La posizione di garanzia è un concetto che rischia di far diventare sempre più difensiva la medicina, o che comunque può non far lavorare tranquillo il sanitario poiché in fondo questo risponde di quello che fa, di come lo fa, di quello che non fa – e fin qui ci siamo – e di quello che fanno gli altri verso se stessi e verso terzi. La distorsione del concetto di posizione di garanzia ha rubricato nuovamente la dimensione della custodia all'interno di una psichiatria che avrebbe dovuto liberarsene del tutto dal '78, dalla chiusura delle istituzioni manicomiali, dalla famosa legge Basaglia.
Il poliziotto non capisce quello che gli dico, ci tiene solo a specificare che loro non toccheranno il paziente, e nessuno glielo ha chiesto, ma se il paziente diventa aggressivo loro che fanno si limitano a guardare?
Sono arrivati anche i colleghi della rianimazione: un'infermiera piccolina che saluta affettuosamente Federica e un omone di circa due metri, bello piazzato, che subito dopo scopro essere il medico.
Ci dirigiamo alla stanza di M. Io davanti, apripista.
Mi avvicino al letto.
I poliziotti non credono a quello che vedono. Sono stati chiamati per un paziente che ora dorme. Ma non volevano non mettere le mani addosso a nessuno? Bhe direi che per ora ci siamo.
Sono le 22 e l'ultima (e unica) terapia somministrata a M. è stata alle 15. Se farmacodinamica e farmacocinetica non sono opinabili, e vogliamo tenere M. all'interno al servizio fino a domattina, dobbiamo somministrargli la terapia, ora.
Provo a svegliarlo, gli altri sono titubanti, tipo "non svegliare il can che dorme". Nel frattempo è arrivato il reperibile e attorno al letto siamo in quattro. La terapia, quella di prima, è pronta.
Apre gli occhi, ma l'atteggiamento è diverso.
<Quanta gente c'è dentro questa stanza>, dice mentre con la coda dell'occhio vede le divise, attorno a lui siamo in tutto dieci persone.
Accetta di farsi fare la terapia intramuscolo, ma sul braccio, da vero duro, o forse non è un vero duro, forse si vergogna di mostrare le natiche, in questa sua richiesta in fondo sta mostrando a noi la sua fragilità, anche lui è soggetto alla vergogna steso in un letto di un SPDC. Forse, in fin dei conti è vero che bisognava essere più custodi e obbligarlo a farsi il depot, ma è pur vero che dopo tutti questi anni la terapia se la potrebbe prendere da solo. E questa volta ha perso un lavoro e chissà quante altre cose ha perso, occasioni, incontri, forse ha perso una vita intera. Non come G. che con la psicopatologia la vita la sta recuperando, e "perdendo la memoria" ha recuperato amici, forse una figlia, forse ha dimenticato azioni, omissioni, errori, terrore, violenza e responsabilità.
Alla fine a M. gli abbiamo somministrato metà della terapia che era stata prescritta nel pomeriggio, alla fine a cosa serve tutta quella terapia? L'importante è salvaguardarlo dai suoi orrori, farlo riposare, chissà da quanto tempo non dormiva? Chissà se da qualcosa scappava? Farlo riposare per riportarlo nel solco dell'aratro, nella linea retta di un'esistenza normale, o quasi.
L'intervento è finito. I poliziotti e i colleghi della rianimazione sono andati via.
Saluto i colleghi che rimangono in SPDC raccomandando loro di monitorizzare i parametri del malcapitato al massimo ogni 45 minuti.
Mentre sto andando via chiamano dal PS. La collega mi dice che da loro c'è una ragazza seguita dalla psichiatria che si è procurata dei tagli superficiali. < Dimostrativi > dice.
Mi emoziono sempre quando un collega non psichiatra si lascia andare ad un'interpretazione di un contenuto, di una forma, di un gesto, di un comportamento. Spesso basta avere l'etichetta "psichiatrico" per finire rapidamente in SPDC, a volte senza che sia stata eseguita una valutazione medica adeguata.
La ragazza ha 2,8 di alcolemia per cui chiedo alla collega di tenerla in osservazione breve intensiva fino a risoluzione del quadro. Una volta disintossicata, se avrà bisogno, la valuteremo.
Saluto tutti e vado a casa.
A casa mi aspetta la cena che consumo verso le 23.
Finito di cenare suona di nuovo il telefono di servizio, è mezzanotte.
< Dottore mi dispiace, devo dirti una cosa terribile >, è Michele, l'ansioso, dall'altra parte.
< Dimmi…> lo dico senza riuscire ad aggiungere altro con il nodo in gola e pensando al peggio.
< Hanno chiamato dal PS. C'è A.L, dicono che lo manderanno qua, ti do il numero, chiama il collega del PS che ti spiega >
< Ok chiamo, ma tra poco scendo comunque>, rispondo.
Dopo pochi secondi squilla il telefono, dall'altra parte Michele, il siciliano, l'altro Michele.
< Dottò, non c'è bisogno che scendete, quando arriva la chiamiamo e lei viene>, mi da del voi o del lei, forse per cultura, forse me lo sono immaginato,
< Va bene, ma ascolta una cosa, non mi fare più chiamare dall'altro Michele che ogni volta mi fa prendere un colpo, ogni volta sembra sia successa una tragedia>
<Ok dottò!>
Ci facciamo una risata per smorzare questa notte che alla fine è andata a monte per entrambi, noi due, i reperibili, attivati per tutta la notte.
Chiamo in PS. Dall'altra parte un collega uomo, Mi dice che A.L. si è recato in PS autonomamente, che dice di essere depresso perché ha recentemente perso due persone, che non ha pensieri suicidari, ma che vorrebbe rimanere la notte accolto. Aggiunge, inoltre, che A.L. è tranquillo e collaborante.
Dopo una ventina di minuti esco da casa. Mi dirigo a piedi verso l'ospedale.
A.L. è un utente storicamente seguito da un Centro di Salute Mentale di periferia. In giornata si è recato al Centro e ha spaccato una chitarra e un vetro, poi si è allontanato, non è ricoverato, è a piede libero, è arrabbiato, forse sta delirando o forse non ce la fa a vivere solo.
Queste informazioni mi vengono comunicate per messaggio dalla Responsabile del SPDC che le ha avute nel corso della giornata. Mi invia anche le foto della chitarra rotta e del vetro del servizio frantumato. Mi rendo conto che forse la situazione, al di là della collaborazione del paziente in PS, potrebbe non essere di così facile gestione.
Arrivo in ospedale e prima di salire mi accendo una sigaretta. Mentre la fumo squilla il telefono.
< Dottore, A.L. è arrivato, è tranquillo, ci abbiamo parlato, rimane qua a dormire>
<Sono qua sotto, salgo e ci parlo un attimo>
<Ah… va bene!>, risponde Federica dall'altra parte del telefono.
Mentre finisco la sigaretta penso che forse Federica avrà pensato che non era necessario venissi in SPDC, forse avrà pensato che sono una persona ansiosa, non sarebbe comunque lontana dal vero. Spengo la sigaretta e salgo.
Solito percorso. Attraverso i sotterranei, timbro al piano terra e imbocco l'ascensore: primo piano.
Prendere l'ascensore mi permette di mettere un cuscinetto di tempo prima dell'incontro: rilasso i muscoli del corpo e sospendo il pensiero.
Sarà forse il modo che ho trovato per fare epoché, per sospendere il giudizio, per farlo prima di varcare la porta del servizio. Per essere pronto a non avere pregiudizi.
Busso. Mi apre l'infermiera.
A.L. è in salone assieme a Michele, vedo che ha mangiato e sta fumando una sigaretta.
Mi spiega che due persone sono scomparse e che lui sa che le hanno fatte sparire quelli del CSM. Mi dice che diventerà ricco e che si comprerà tutta l'Italia, quindi creerà una federazione di Stati e lui sarà il re, ma che Roma sarà fuori.
Mi comunica che vuole andar via dall' SPDC per andare a rubare una croce che si trova di fronte a una chiesa.
So bene che in quelle condizioni non dovrebbe lasciare il servizio.
Inizia una lunga negoziazione che lo infastidisce. Dice che vuole ucciderci in quanto saremo i capri espiatori per le malefatte del Centro di Salute Mentale. Dice che andrà a Strasburgo e che non pagherà per gli omicidi ma che sarà perdonato. Mi dice che devo leggere le ultime quindici pagine di "Io uccido" di Giorgio Faletti.
Mi racconta della stanza 40, una stanza dell'ospedale che in passato sostituiva l' SPDC. Mi racconta che in stanza 40 è stato torturato.
Mi racconta di un rituale woodoo che si fa con un limone e mi spiega tutto il procedimento.
Mi racconta di una donna che aveva la fobia delle aquile alla quale era stata fatta l'ipnosi regressiva e che in quell'occasione si era scoperto che la sua paura derivava dal simbolo dell'Aquila del Terzo Reich. Si diceva, nel documentario, fosse stata questa l'ultima immagine che la donna aveva visto prima di morire, nella sua vita precedente.
Mi dice che vuole delle riviste porno poiché senza quelle non riesce a dormire.
Dice che non è matto e che quindi non prende la Clozapina.
Fissiamo alcuni punti di accordo in modo che possa rimanere accolto al servizio, in fin dei conti è l'una di notte e tante persone "normali" a quest'ora dormono.
Primo, la mattina seguente ci occuperemo di rintracciare le persone scomparse.
Secondo, rimedieremo delle riviste porno da mettere a disposizione delle persone che ne fanno richiesta per rendere il ricovero in SPDC più confortevole.
Terzo, gli fabbricherò io, con le mie mani, un crocifisso di carta e la mattina potrà recarsi alla chiesa che mi diceva.
Ultimo punto: negoziamo sulla terapia. Alla fine decide di prenderla purché io, esperto in molecole, gliene dia una che lo fa sognare. Gli somministro quindi tutta la terapia, talofen140mg, clozapina250mg, lansoprazolo, prescritto, perché dice che ha dolore allo stomaco, valdorm30mg e, per sognare, tavor2,5mg.
Si ammorbidisce, continuiamo a parlare ancora per circa un'ora, mi dice che abbiamo tanti interessi in comune, la lettura, la scrittura, le sigarette, la cucina, il sesso, alla fine si sono fatte le due di notte.
Scopriamo che siamo nati entrambi prematuri, entrambi abbiamo iniziato la vita in un'incubatrice, ma poi evidentemente le nostre vite hanno preso due traiettorie diverse. Chissà perché è nato prematuro lui. Chissà se la madre o il padre lo hanno amato. Chissà se ce l'ha un padre e una madre presenti, viventi, pulsanti.
Questa sera sono stato io per lui figura affettiva. Alterità a portata di mano. Usabile. E mi ha usato per tranquillizzarsi, mi ha divorato.
Lo invito ad andare a dormire, mi ascolta, ma in cambio devo lasciargli le ultime due sigarette che mi rimangono.
Poco dopo torna indietro e dice di voler approfittare della mia "intelligenza" e mi porta in una stanzetta.
Mi dice che sono quindici anni che vuole diventare una "donna di una bellezza soddisfacente". Mi dice che sa che "ci sono bombardamenti di estrogeni" che possono causare il tumore alla mammella, me lo dice pinzandosi l'area del capezzolo. Mi dice che si è tagliato la barba per vedere come sta. Dice che ha un "viso femmineo", lo dice con tenerezza, mi suscita tenerezza. Dice che porta i capelli lunghi per quello.
È qui che sta la sua rabbia. Questa è l'origine. Ha un corpo sgraziato, è obeso, mi chiede consigli su cosa fare.
< Prenditi cura del tuo corpo > gli dico io.
< Comincia a dimagrire >, aggiungo.
Poi mi comunica che vorrebbe farsi costruire una vagina al posto dell'ombelico e trapiantarsi un fallo di un cavallo. Dice che una volta uno lo ha fatto ed era funzionante. Poi mi dice che potrebbe farsi togliere una costola per riuscire a fare sesso orale da solo.
< Come D'Annunzio > aggiunge.
Non ho mai saputo se questa storia di D'Annunzio fosse vera o meno.
Finalmente ci salutiamo e va a dormire.
Scrivo le cartelle. Chiudo anche questa situazione. Sto per andare.
Il telefono del SPDC squilla di nuovo. Una collega donna sempre dal PS mi dice che da loro è arrivato un uomo pakistano, richiedente asilo politico, accompagnato da un operatore della comunità dove è accolto. Avevo già sentito qualche ora prima l'operatore il quale mi riferiva che O., il pakistano, aveva avuto una crisi pantoclastica in comunità e aveva minacciato il suicidio.
Al momento dell'osservazione, dice la collega, O. è tranquillo però non vuole dimetterlo, non vuole prendersi la responsabilità e quindi, che io accetti o no, chiama l'ambulanza e lo trasferisce in SPDC.
Ok a questo punto la notte è andata. Aspettare i tempi tecnici del trasferimento dall'Ospedale (l'altro ospedale) all'SPDC significa non avere la minima possibilità di poter stimare l'intervallo di tempo al quale ci si riferisce.
Chiedo a Michele, l'ansioso, delle lenzuola. Me le procura e mi accompagna allo spogliatoio; lì, noi medici, abbiamo una branda sulla quale possiamo stenderci.
La apro, butto sopra il lenzuolo, non ho nemmeno un cuscino, tolgo le scarpe e mi sdraio.
Come sottofondo il rumore costante forse dell'areazione e il rumore fotografico prodotto dalla luce a neon che dal corridoio penetra attraverso la finestra a vetri. Tutt'attorno il silenzio angosciante di un'ala dell'ospedale vecchio (ora in parte rinnovato) che di notte ospita solo l'SPDC, i matti e noi operatori psichiatrici, soli con loro, insieme, Noi.
Mi appisolo una mezz'ora, forse quarantacinque minuti.
Vengo svegliato da Michele, l'ansioso, che apre la porta.
<E' arrivato il pakistano>, mi dice.
Gli occhi bruciano, sono quasi ventiquattr'ore che sono praticamente più o meno sveglio e con le lenti a contatto addosso.
Mi metto le scarpe. Esco dallo spogliatoio, chiudo la porta e vado in SPDC.
Ad accogliermi un uomo, vestito con una tunica bianca, la barba nera, la carnagione scura, i capelli e l'aspetto curati: il pakistano, tranquillo.
Iniziamo a parlare. Mi racconta una storia, la stessa storia che ho sentito raccontare da un altro pakistano qualche notte prima, sempre in SPDC. Inoltre i due pakistani vivono nella stessa comunità. Tutti che mi parlano che non riescono a dormire, che stavano meglio nella comunità precedente, forse non gli hanno accordato lo status di rifugiato politico, tutti che si arrabbiano e diventano aggressivi verso sé stessi o verso gli altri, tutti che non mostrano alcun segno evidente di psicopatologia in atto.
Mi infastidisco. L'SPDC è diventato il contenitore della devianza. Questa notte mi trovo a fare il custode. Di nuovo. Non è prevedibile il momento in cui i fantasmi della psichiatria custodialistica vengono riproposti dalle istituzioni. Sono rimasto altre due ore in SPDC per parlare con un tizio che di "psichiatrico" non ha niente. Oramai sono le cinque passate. La notte è quasi finita. Tra poco il sole tornerà da questa parte di mondo e la luna che ci ha accompagnato per tutta la notte se ne andrà dall'altra. Forse è già andata o forse rimarrà nel cielo ancora qualche ora a fare compagnia al sole. A costituire a modo loro, i due corpi celesti, una dualità.
Non posso saperlo perché sono ancora chiuso in SPDC.
Al pakistano gli do un tavor2,5mg e lo faccio dormire da noi con la promessa che al sorgere del sole se ne tornerà in comunità da dove è venuto.
Sono esausto.
Saluto tutti e vado a casa a riposare.
Una mattina di riposo che mi separa dal pomeriggio.
Alle 14 dovrò di nuovo prender servizio in SPDC, ci sarà M. ad aspettarmi e sarà il suo secondo giorno di Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Vado a riposare per sopravvivere perché quando sono stanco sento la paura.
Su quel divano ho cercato di rilassare il corpo dopo aver staccato dal turno diurno al Centro di Salute Mentale dove generalmente passo gran parte della giornata.
Ho cercato di riposarmi perché già so che la notte che mi aspetta in SPDC non potrà andare liscia.
Ho saputo che nel pomeriggio M. si è recato in Direzione del DSM e ha interrotto un corso rivolto agli operatori sulla gestione delle emergenze psichiatriche mostrando con forza, a tutti, la portata del suo mondo psicopatologico.
Erano diversi giorni che si recava autonomamente in CSM o in SPDC, all'inizio per portare un saluto, poi aveva assunto un atteggiamento spavaldo e aggressivo.
Il giorno precedente alla sua comparsa in Direzione erano state attivate le forze dell'ordine più volte. Si sapeva che ci si sarebbe trovati presto in una situazione tale per cui sarebbe risultato necessario appellarsi allo stato di necessità oppure attivare un Trattamento Sanitario Obbligatorio. E pensare che M. di trattamenti obbligatori ne aveva già fatti almeno tre nell'ultimo anno. Ma nulla era cambiato.
M. si era quindi recato in Direzione, aveva interrotto un incontro al quale partecipavano diversi psichiatri, psicologi e infermieri e, praticamente, si era consegnato.
In sede, presente il 118 e le forze dell'ordine, erano state praticate 2 fiale di moditen depot e la tripletta i.m. entumin-largactil-en5mg. per due. Finalmente si era tranquillizzato, forse si era addormentato, ed era stato condotto al SPDC dove era stato notificato il Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Tutto questo per dire che, tagliati i capelli, sarei dovuto scendere in SPDC e prendere servizio attivamente alle 20 poiché M. si sarebbe potuto svegliare, avrebbe così appreso di essere in TSO. Alle 20 sarebbe stato il momento della terapia, alle 16 aveva fatto un prelievo che evidenziava un valore di 3000 di cpk, era stato preso un accesso venoso per somministragli liquidi, non aveva fatto pipì, non era stato fatto un tossicologico e, presumibilmente, era fortemente intossicato da cocaina.
Insomma, vado in SPDC.
Lì incontro il collega del turno pomeridiano che ha appena terminato un colloquio con la figlia di un signore ricoverato: il sig. G.
Il tizio è stato trovato in strada che non ricordava il suo nome, come sembrava non ricordasse null'altro. Una volta identificato, si narra per mezzo delle iniziali del nome ricamate sulla camicia, e dopo l'attivazione di alcuni amici d'infanzia, che avevano letto un articolo sul giornale locale, era stato trasferito presso il nostro servizio in attesa di completare l'iter diagnostico.
Si pensava a un'amnesia dissociativa ma, dopo aver conosciuto la storia di G., la simulazione non era da scartare.
La figlia che vive in Liguria, e non sa l'indirizzo di casa del padre a Trieste, vuole che l'aiutiamo a rintracciare la di lui compagna ma non vuole darci il numero con un'atteggiamento che va dall'eticamente corretto al francamente paranoico.
Alla fine della fiera riusciamo a parlare con l'affittuaria della casa di G. e la figlia si accorda con quest'ultima per entrare in casa e procurare gli effetti personali del padre che gli saranno utili durante il ricovero.
Apprendo ora che G. non stava pagando l'affitto da mesi e che la padrona di casa, con l'occasione del ricovero in psichiatria, lo lascerà fuori dall'abitazione.
Il sig.G. quindi ha perso memoria e abitazione e ha fatto il suo ingresso nel mondo della psichiatria.
Il sig. G. forse non ha perso la memoria, non ha perso la casa che non ha mai avuto, non ha perso i soldi dell'affitto che non ha mai pagato, non ha perso la figlia che forse ha maltrattato e che con questa storia ha riguadagnato, ha trovato un letto, del cibo e una sistema di welfare che si attiverà per lui.
Forse il sig. G. non ha perso nulla ma ha guadagnato qualcosa.
Finalmente la figlia del sig. G. imbocca la porta di uscita e ho tempo per guardare in faccia gli infermieri che con me passeranno la notte: c'è Federica, un tesoro di donna che con i suoi occhi azzurri, e con l'affetto che con questi riesce a comunicare, è in grado di tranquillizzare un povero cristo che varca la soglia del servizio in stato di crocifissione; poi c'è Michele, anche lui affettuoso e meticoloso, che però va tenuto a bada poiché con la sua ansia è in grado di trasformare una stupidaggine in un allarme.
Nel frattempo è giunto in SPDC il tracciato ECG di M.: sottoslivellamento ST aspecifico, tracciato nei limiti della norma, QTC 430, buono. Do quindi indicazioni di continuare a monitorizzare i parametri di M. con regolarità nel corso della notte, per il momento la frequenza cardiaca, la saturazione di Ossigeno, e la Pressione Arteriosa sono buoni e M. continua a dormire.
< Bene, direi che attiviamo l'infermiere reperibile>, dico io.
Segue un confronto tra noi tre, attivi: è pur vero che M. dorme, ma è anche vero che si sveglierà e che potrebbero arrivare altre situazioni di difficile gestione, in quel caso fare affidamento su una persona in più potrebbe tornare utile.
Federica chiama quindi Michele, l'altro Michele, il siciliano, il reperibile, che viene sorpreso, ignaro di essere reperibile, a cena. Tra poco arriverà anche lui, forse scazzato, ma operativo come sempre.
Quindi due uomini e una donna, oltre a me.
E finalmente M. si sveglia. Ai primi segnali avevo fatto preparare una fisiologica da 250 con 15 mg. di en da somministrare lentamente per mantenere uno stato di sonno senza dover per forza ricorrere ai neurolettici, non sicuro di cosa avesse in corpo.
Ma mentre preparavamo la flebo M. si sveglia e si agita. Si strappa l'accesso venoso e tenta mettermi le mani addosso.
Siamo ancora in tre. Il reperibile non è ancora arrivato.
Provo a spiegargli dolcemente che devo somministragli la terapia.
Nel frattempo faccio preparare un'altra tripletta di entumin-largactil-en5mg. Non accetta.
La dolcezza non lo convince a farsi praticare l'iniezione ma lo fa addormentare. Lo lasciamo decantare nel frattempo chiamiamo le forze dell'ordine e attivo i colleghi della rianimazione dovesse rendersi necessario effettuare una sedazione profonda e monitorizzare seriamente i parametri di M.
Giungono sul posto due poliziotti che vengono subito raggiunti da altri due. Intanto M. dorme.
Uno dei poliziotti, appena varca la soglia del SPDC, ci tiene a mettere le cose in chiaro.
<Noi non lo tocchiamo>, dice.
Le forze dell'ordine sono ancora scottati, direi bruciati, dalla morte di un uomo avvenuta durante un loro intervento, quella volta le mani addosso le hanno messe, forse, quella volta non erano stati attivati dalla psichiatria, ma l'uomo era un paziente psichiatrico e questo è sufficiente per confondere il loro mandato con il mandato dell'altro, il medico, lo psichiatra.
<Nessuno vi ha chiamati per 'mettergli le mani addosso, ma il sig. M. è in TSO, nei giorni precedenti, e poco fa, ha manifestato comportamenti aggressivi e in fin dei conti abbiamo due diverse posizioni di garanzia, noi e voi, per cui collaboriamo in scienza e coscienza>
La posizione di garanzia è un concetto che rischia di far diventare sempre più difensiva la medicina, o che comunque può non far lavorare tranquillo il sanitario poiché in fondo questo risponde di quello che fa, di come lo fa, di quello che non fa – e fin qui ci siamo – e di quello che fanno gli altri verso se stessi e verso terzi. La distorsione del concetto di posizione di garanzia ha rubricato nuovamente la dimensione della custodia all'interno di una psichiatria che avrebbe dovuto liberarsene del tutto dal '78, dalla chiusura delle istituzioni manicomiali, dalla famosa legge Basaglia.
Il poliziotto non capisce quello che gli dico, ci tiene solo a specificare che loro non toccheranno il paziente, e nessuno glielo ha chiesto, ma se il paziente diventa aggressivo loro che fanno si limitano a guardare?
Sono arrivati anche i colleghi della rianimazione: un'infermiera piccolina che saluta affettuosamente Federica e un omone di circa due metri, bello piazzato, che subito dopo scopro essere il medico.
Ci dirigiamo alla stanza di M. Io davanti, apripista.
Mi avvicino al letto.
I poliziotti non credono a quello che vedono. Sono stati chiamati per un paziente che ora dorme. Ma non volevano non mettere le mani addosso a nessuno? Bhe direi che per ora ci siamo.
Sono le 22 e l'ultima (e unica) terapia somministrata a M. è stata alle 15. Se farmacodinamica e farmacocinetica non sono opinabili, e vogliamo tenere M. all'interno al servizio fino a domattina, dobbiamo somministrargli la terapia, ora.
Provo a svegliarlo, gli altri sono titubanti, tipo "non svegliare il can che dorme". Nel frattempo è arrivato il reperibile e attorno al letto siamo in quattro. La terapia, quella di prima, è pronta.
Apre gli occhi, ma l'atteggiamento è diverso.
<Quanta gente c'è dentro questa stanza>, dice mentre con la coda dell'occhio vede le divise, attorno a lui siamo in tutto dieci persone.
Accetta di farsi fare la terapia intramuscolo, ma sul braccio, da vero duro, o forse non è un vero duro, forse si vergogna di mostrare le natiche, in questa sua richiesta in fondo sta mostrando a noi la sua fragilità, anche lui è soggetto alla vergogna steso in un letto di un SPDC. Forse, in fin dei conti è vero che bisognava essere più custodi e obbligarlo a farsi il depot, ma è pur vero che dopo tutti questi anni la terapia se la potrebbe prendere da solo. E questa volta ha perso un lavoro e chissà quante altre cose ha perso, occasioni, incontri, forse ha perso una vita intera. Non come G. che con la psicopatologia la vita la sta recuperando, e "perdendo la memoria" ha recuperato amici, forse una figlia, forse ha dimenticato azioni, omissioni, errori, terrore, violenza e responsabilità.
Alla fine a M. gli abbiamo somministrato metà della terapia che era stata prescritta nel pomeriggio, alla fine a cosa serve tutta quella terapia? L'importante è salvaguardarlo dai suoi orrori, farlo riposare, chissà da quanto tempo non dormiva? Chissà se da qualcosa scappava? Farlo riposare per riportarlo nel solco dell'aratro, nella linea retta di un'esistenza normale, o quasi.
L'intervento è finito. I poliziotti e i colleghi della rianimazione sono andati via.
Saluto i colleghi che rimangono in SPDC raccomandando loro di monitorizzare i parametri del malcapitato al massimo ogni 45 minuti.
Mentre sto andando via chiamano dal PS. La collega mi dice che da loro c'è una ragazza seguita dalla psichiatria che si è procurata dei tagli superficiali. < Dimostrativi > dice.
Mi emoziono sempre quando un collega non psichiatra si lascia andare ad un'interpretazione di un contenuto, di una forma, di un gesto, di un comportamento. Spesso basta avere l'etichetta "psichiatrico" per finire rapidamente in SPDC, a volte senza che sia stata eseguita una valutazione medica adeguata.
La ragazza ha 2,8 di alcolemia per cui chiedo alla collega di tenerla in osservazione breve intensiva fino a risoluzione del quadro. Una volta disintossicata, se avrà bisogno, la valuteremo.
Saluto tutti e vado a casa.
A casa mi aspetta la cena che consumo verso le 23.
Finito di cenare suona di nuovo il telefono di servizio, è mezzanotte.
< Dottore mi dispiace, devo dirti una cosa terribile >, è Michele, l'ansioso, dall'altra parte.
< Dimmi…> lo dico senza riuscire ad aggiungere altro con il nodo in gola e pensando al peggio.
< Hanno chiamato dal PS. C'è A.L, dicono che lo manderanno qua, ti do il numero, chiama il collega del PS che ti spiega >
< Ok chiamo, ma tra poco scendo comunque>, rispondo.
Dopo pochi secondi squilla il telefono, dall'altra parte Michele, il siciliano, l'altro Michele.
< Dottò, non c'è bisogno che scendete, quando arriva la chiamiamo e lei viene>, mi da del voi o del lei, forse per cultura, forse me lo sono immaginato,
< Va bene, ma ascolta una cosa, non mi fare più chiamare dall'altro Michele che ogni volta mi fa prendere un colpo, ogni volta sembra sia successa una tragedia>
<Ok dottò!>
Ci facciamo una risata per smorzare questa notte che alla fine è andata a monte per entrambi, noi due, i reperibili, attivati per tutta la notte.
Chiamo in PS. Dall'altra parte un collega uomo, Mi dice che A.L. si è recato in PS autonomamente, che dice di essere depresso perché ha recentemente perso due persone, che non ha pensieri suicidari, ma che vorrebbe rimanere la notte accolto. Aggiunge, inoltre, che A.L. è tranquillo e collaborante.
Dopo una ventina di minuti esco da casa. Mi dirigo a piedi verso l'ospedale.
A.L. è un utente storicamente seguito da un Centro di Salute Mentale di periferia. In giornata si è recato al Centro e ha spaccato una chitarra e un vetro, poi si è allontanato, non è ricoverato, è a piede libero, è arrabbiato, forse sta delirando o forse non ce la fa a vivere solo.
Queste informazioni mi vengono comunicate per messaggio dalla Responsabile del SPDC che le ha avute nel corso della giornata. Mi invia anche le foto della chitarra rotta e del vetro del servizio frantumato. Mi rendo conto che forse la situazione, al di là della collaborazione del paziente in PS, potrebbe non essere di così facile gestione.
Arrivo in ospedale e prima di salire mi accendo una sigaretta. Mentre la fumo squilla il telefono.
< Dottore, A.L. è arrivato, è tranquillo, ci abbiamo parlato, rimane qua a dormire>
<Sono qua sotto, salgo e ci parlo un attimo>
<Ah… va bene!>, risponde Federica dall'altra parte del telefono.
Mentre finisco la sigaretta penso che forse Federica avrà pensato che non era necessario venissi in SPDC, forse avrà pensato che sono una persona ansiosa, non sarebbe comunque lontana dal vero. Spengo la sigaretta e salgo.
Solito percorso. Attraverso i sotterranei, timbro al piano terra e imbocco l'ascensore: primo piano.
Prendere l'ascensore mi permette di mettere un cuscinetto di tempo prima dell'incontro: rilasso i muscoli del corpo e sospendo il pensiero.
Sarà forse il modo che ho trovato per fare epoché, per sospendere il giudizio, per farlo prima di varcare la porta del servizio. Per essere pronto a non avere pregiudizi.
Busso. Mi apre l'infermiera.
A.L. è in salone assieme a Michele, vedo che ha mangiato e sta fumando una sigaretta.
Mi spiega che due persone sono scomparse e che lui sa che le hanno fatte sparire quelli del CSM. Mi dice che diventerà ricco e che si comprerà tutta l'Italia, quindi creerà una federazione di Stati e lui sarà il re, ma che Roma sarà fuori.
Mi comunica che vuole andar via dall' SPDC per andare a rubare una croce che si trova di fronte a una chiesa.
So bene che in quelle condizioni non dovrebbe lasciare il servizio.
Inizia una lunga negoziazione che lo infastidisce. Dice che vuole ucciderci in quanto saremo i capri espiatori per le malefatte del Centro di Salute Mentale. Dice che andrà a Strasburgo e che non pagherà per gli omicidi ma che sarà perdonato. Mi dice che devo leggere le ultime quindici pagine di "Io uccido" di Giorgio Faletti.
Mi racconta della stanza 40, una stanza dell'ospedale che in passato sostituiva l' SPDC. Mi racconta che in stanza 40 è stato torturato.
Mi racconta di un rituale woodoo che si fa con un limone e mi spiega tutto il procedimento.
Mi racconta di una donna che aveva la fobia delle aquile alla quale era stata fatta l'ipnosi regressiva e che in quell'occasione si era scoperto che la sua paura derivava dal simbolo dell'Aquila del Terzo Reich. Si diceva, nel documentario, fosse stata questa l'ultima immagine che la donna aveva visto prima di morire, nella sua vita precedente.
Mi dice che vuole delle riviste porno poiché senza quelle non riesce a dormire.
Dice che non è matto e che quindi non prende la Clozapina.
Fissiamo alcuni punti di accordo in modo che possa rimanere accolto al servizio, in fin dei conti è l'una di notte e tante persone "normali" a quest'ora dormono.
Primo, la mattina seguente ci occuperemo di rintracciare le persone scomparse.
Secondo, rimedieremo delle riviste porno da mettere a disposizione delle persone che ne fanno richiesta per rendere il ricovero in SPDC più confortevole.
Terzo, gli fabbricherò io, con le mie mani, un crocifisso di carta e la mattina potrà recarsi alla chiesa che mi diceva.
Ultimo punto: negoziamo sulla terapia. Alla fine decide di prenderla purché io, esperto in molecole, gliene dia una che lo fa sognare. Gli somministro quindi tutta la terapia, talofen140mg, clozapina250mg, lansoprazolo, prescritto, perché dice che ha dolore allo stomaco, valdorm30mg e, per sognare, tavor2,5mg.
Si ammorbidisce, continuiamo a parlare ancora per circa un'ora, mi dice che abbiamo tanti interessi in comune, la lettura, la scrittura, le sigarette, la cucina, il sesso, alla fine si sono fatte le due di notte.
Scopriamo che siamo nati entrambi prematuri, entrambi abbiamo iniziato la vita in un'incubatrice, ma poi evidentemente le nostre vite hanno preso due traiettorie diverse. Chissà perché è nato prematuro lui. Chissà se la madre o il padre lo hanno amato. Chissà se ce l'ha un padre e una madre presenti, viventi, pulsanti.
Questa sera sono stato io per lui figura affettiva. Alterità a portata di mano. Usabile. E mi ha usato per tranquillizzarsi, mi ha divorato.
Lo invito ad andare a dormire, mi ascolta, ma in cambio devo lasciargli le ultime due sigarette che mi rimangono.
Poco dopo torna indietro e dice di voler approfittare della mia "intelligenza" e mi porta in una stanzetta.
Mi dice che sono quindici anni che vuole diventare una "donna di una bellezza soddisfacente". Mi dice che sa che "ci sono bombardamenti di estrogeni" che possono causare il tumore alla mammella, me lo dice pinzandosi l'area del capezzolo. Mi dice che si è tagliato la barba per vedere come sta. Dice che ha un "viso femmineo", lo dice con tenerezza, mi suscita tenerezza. Dice che porta i capelli lunghi per quello.
È qui che sta la sua rabbia. Questa è l'origine. Ha un corpo sgraziato, è obeso, mi chiede consigli su cosa fare.
< Prenditi cura del tuo corpo > gli dico io.
< Comincia a dimagrire >, aggiungo.
Poi mi comunica che vorrebbe farsi costruire una vagina al posto dell'ombelico e trapiantarsi un fallo di un cavallo. Dice che una volta uno lo ha fatto ed era funzionante. Poi mi dice che potrebbe farsi togliere una costola per riuscire a fare sesso orale da solo.
< Come D'Annunzio > aggiunge.
Non ho mai saputo se questa storia di D'Annunzio fosse vera o meno.
Finalmente ci salutiamo e va a dormire.
Scrivo le cartelle. Chiudo anche questa situazione. Sto per andare.
Il telefono del SPDC squilla di nuovo. Una collega donna sempre dal PS mi dice che da loro è arrivato un uomo pakistano, richiedente asilo politico, accompagnato da un operatore della comunità dove è accolto. Avevo già sentito qualche ora prima l'operatore il quale mi riferiva che O., il pakistano, aveva avuto una crisi pantoclastica in comunità e aveva minacciato il suicidio.
Al momento dell'osservazione, dice la collega, O. è tranquillo però non vuole dimetterlo, non vuole prendersi la responsabilità e quindi, che io accetti o no, chiama l'ambulanza e lo trasferisce in SPDC.
Ok a questo punto la notte è andata. Aspettare i tempi tecnici del trasferimento dall'Ospedale (l'altro ospedale) all'SPDC significa non avere la minima possibilità di poter stimare l'intervallo di tempo al quale ci si riferisce.
Chiedo a Michele, l'ansioso, delle lenzuola. Me le procura e mi accompagna allo spogliatoio; lì, noi medici, abbiamo una branda sulla quale possiamo stenderci.
La apro, butto sopra il lenzuolo, non ho nemmeno un cuscino, tolgo le scarpe e mi sdraio.
Come sottofondo il rumore costante forse dell'areazione e il rumore fotografico prodotto dalla luce a neon che dal corridoio penetra attraverso la finestra a vetri. Tutt'attorno il silenzio angosciante di un'ala dell'ospedale vecchio (ora in parte rinnovato) che di notte ospita solo l'SPDC, i matti e noi operatori psichiatrici, soli con loro, insieme, Noi.
Mi appisolo una mezz'ora, forse quarantacinque minuti.
Vengo svegliato da Michele, l'ansioso, che apre la porta.
<E' arrivato il pakistano>, mi dice.
Gli occhi bruciano, sono quasi ventiquattr'ore che sono praticamente più o meno sveglio e con le lenti a contatto addosso.
Mi metto le scarpe. Esco dallo spogliatoio, chiudo la porta e vado in SPDC.
Ad accogliermi un uomo, vestito con una tunica bianca, la barba nera, la carnagione scura, i capelli e l'aspetto curati: il pakistano, tranquillo.
Iniziamo a parlare. Mi racconta una storia, la stessa storia che ho sentito raccontare da un altro pakistano qualche notte prima, sempre in SPDC. Inoltre i due pakistani vivono nella stessa comunità. Tutti che mi parlano che non riescono a dormire, che stavano meglio nella comunità precedente, forse non gli hanno accordato lo status di rifugiato politico, tutti che si arrabbiano e diventano aggressivi verso sé stessi o verso gli altri, tutti che non mostrano alcun segno evidente di psicopatologia in atto.
Mi infastidisco. L'SPDC è diventato il contenitore della devianza. Questa notte mi trovo a fare il custode. Di nuovo. Non è prevedibile il momento in cui i fantasmi della psichiatria custodialistica vengono riproposti dalle istituzioni. Sono rimasto altre due ore in SPDC per parlare con un tizio che di "psichiatrico" non ha niente. Oramai sono le cinque passate. La notte è quasi finita. Tra poco il sole tornerà da questa parte di mondo e la luna che ci ha accompagnato per tutta la notte se ne andrà dall'altra. Forse è già andata o forse rimarrà nel cielo ancora qualche ora a fare compagnia al sole. A costituire a modo loro, i due corpi celesti, una dualità.
Non posso saperlo perché sono ancora chiuso in SPDC.
Al pakistano gli do un tavor2,5mg e lo faccio dormire da noi con la promessa che al sorgere del sole se ne tornerà in comunità da dove è venuto.
Sono esausto.
Saluto tutti e vado a casa a riposare.
Una mattina di riposo che mi separa dal pomeriggio.
Alle 14 dovrò di nuovo prender servizio in SPDC, ci sarà M. ad aspettarmi e sarà il suo secondo giorno di Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Vado a riposare per sopravvivere perché quando sono stanco sento la paura.
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