Di Francesca Spinozzi, psicologa psicoterapeuta, C.S.M. Sant’Egidio alla Vibrata (TE), Associazione Rete Italiana Noi e le Voci
Dopo la rigenerazione delle ferie, il 21 agosto il gruppo Noi Due ha ripreso la sua attività.
Il lavoro di studio e ricerca riguarda sempre più l’identificazione, attraverso la mappatura delle voci, soprattutto con i nuovi arrivati ma anche con chi partecipa già da tempo, ma, poiché sente tantissime voci, non se l’è ancora sentita di mettere per iscritto almeno le principali.
Questo lavoro di solito si fa attraverso una tabella e consiste nell’identificare ciascuna voce, con il nome proprio se ce l’ha, specificare se si tratta di una voce maschile, femminile o neutra, definirne l’età e le caratteristiche e quindi spiegare se è positiva o negativa, quali sono i contenuti della voce e che tipo di influenza ha sull’uditore.
Ciò che poi è fondamentale è raggiungere la consapevolezza che, anche se la voce appartiene ad una persona a noi nota, viva o morta, non è realmente quella persona che ci parla, ma la sua voce che la nostra mente produce, e che è profondamente legata a nostri vissuti, a nostre paure ed emozioni. Il nostro inconscio non sceglie casualmente una voce o l‘altra per comunicarci dei contenuti specifici, ed è nostro compito, mettendoci in ascolto della nostra interiorità, scoprire quale significato si cela dietro determinate espressioni. Una volta acquisito questo, la voce non risulterà più minacciosa e s’integrerà sempre di più, restituendo all’uditore il potere su di essa.
Inoltre andrebbe indicato a che età si è sentita per la prima volta la voce e quali sono le emozioni connesse ad essa: “Come la voce ti fa sentire”.
Nel processo di conoscenza e nel lavoro di studio e ricerca, che ciascun uditore fa all’interno del gruppo, un ruolo fondamentale e imprescindibile è svolto dalle emozioni, dal sentire, dalle passioni. I membri del gruppo, come osservatori appassionati e partecipi riescono ad attingere alla conoscenza.
Abbiamo parlato già in precedenza di Paolo e della sua riferita totale assenza di emozioni; nel corso dei suoi due anni di partecipazione costante al gruppo, Paolo è riuscito a raggiungere grandi progressi, anche attraverso cambiamenti di stile di vita. Ora la voce non lo disturba più durante il sonno, ma la sua consapevolezza è incompleta, perché manca ancora in lui la considerazione della componente emotiva, che lo renderebbe davvero padrone della sua vita in ogni suo aspetto e gli permetterebbe di reintegrare in se stesso quella violenza, da sempre presente nella sua esistenza, che tanto lo spaventa. Paolo basa tutto sul pensiero razionale, non considerando e non manifestando mai gli affetti, ciononostante riesce ad intervenire sempre in maniera puntuale, quando ascolta un altro membro del gruppo, e a dare ai partecipanti gli input giusti, attivando processi di riflessione, candidandosi così a poter diventare tra qualche tempo un facilitatore esperto per esperienza. La sua parte intuitiva, irrazionale si prende dunque comunque il suo spazio, se non per lui stesso, mettendosi al servizio degli altri.
Anche per i facilitatori l’elemento emotivo è parte integrante dell’intervento nel gruppo, come già detto nel primo articolo. Per quel che riguarda me, il mio orientamento è psicoanalitico, quindi il mio assetto mentale è quello dell’attenzione fluttuante, come diceva Freud, o meglio del terapeuta senza memoria e senza desiderio, come espresso da Bion: “Lo psicoanalista dovrebbe ripromettersi di raggiungere uno stato mentale tale da sentire, ad ogni seduta, di non aver mai visto prima quel paziente. Se sente di averlo già visto, sta trattando il paziente sbagliato” (W. R. Bion, Cogitations). Bion aggiungeva “senza comprensione”, perché non deve esserci la ricerca di spiegazioni ragionevoli. Inoltre vanno abbandonati tutti i giudizi moralistici o comunque astratti.
Il facilitatore, poi, dovrebbe cercare continuamente di mettere in luce la possibile complementarità tra passioni e pensieri.
Questo particolare assetto mentale favorisce un particolare funzionamento del gruppo, in cui, durante gli incontri, si verificano oscillazioni tra momenti di maggiore partecipazione emotiva e passionale e momenti di riflessione, che sono la premessa per un’integrazione tra passioni e pensieri.
Ciò è ancor di più favorito dalla tendenza dei facilitatori ad interpretare il meno possibile, per tenere aperti spazi di elaborazione, nel permettere che il gruppo si muova tra ragione ed emozione, senza “saturare” subito il campo con un’interpretazione che disveli i significati nascosti. L’interpretazione, infatti, dovrebbe essere insatura: essa dà solo una precisa indicazione che orienta il gruppo, ma non si sostituisce al suo lavoro di elaborazione e trasformazione.
Talvolta, e l’abbiamo sperimentato anche noi, accadono situazioni di blocco: qualcuno può preferire non parlare, perché il clima acceso e passionale del gruppo impedisce di condividere pensieri e affetti più intimi, e la posizione di osservatori silenziosi dà maggiore tranquillità. In questo caso occorre che i facilitatori introducano toni più “pacati”, affinché questi membri si sentano “autorizzati” ad esprimersi. Altre volte, il blocco è dovuto all’impossibilità di partecipare e di conoscere un determinato sentimento, che assume la forma di una condizione mentale della maggior parte dei membri e che si manifesta quando il gruppo si riunisce. Nel nostro caso, ad esempio, si è trattato del sentimento di perdita, che è comune a molti partecipanti e che è stato difficile da affrontare.
Può poi succedere che il blocco sia dovuto ad un aggregato affettivo-cognitivo, difensivo, il quale si struttura ed agisce di nascosto, bloccando il gruppo. Qualche volta è successo anche a noi, ad esempio in un periodo in cui l’aggressività prendeva il sopravvento e lo scambio comunicativo ne risentiva. Bisogna, in questi casi, agire destrutturando tale assetto cautelativo del gruppo, in modo da smantellare le strategie difensive.
S’invitano i partecipanti al brain storming, al confronto continuo, alle associazioni ed alle interpretazioni, per permettere che i pensieri si inscrivano in contesti emotivi emergenti, e non più rigidamente in quelli difensivi, aiutando anche i partecipanti silenziosi ad abbondonare l’isola protetta di “non partecipazione”, che impedisce loro di dare il proprio contributo e di fruire del pensiero di gruppo. Destrutturare è un momento doloroso, l’assetto mentale preesistente, che di solito è pieno di disagio (ma comunque conosciuto e protettivo) viene messo in crisi. La fase di destrutturazione di un assetto preesistente di un gruppo implica sentimenti di perdita e confusione. Tali sentimenti vanno tollerati sufficientemente a lungo, continuando ad associare e a pensare, con lo stimolo dei facilitatori. Ciò permetterà l’emersione nel gruppo di una nuova direzione e di un nuovo senso.
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