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Perché la paura della morte ci rende schiavi? I suggerimenti di Borges e di Kohut

10 Giu 22

A cura di Sabino Nanni

        Al di fuori del “panico” come disturbo psichiatrico specifico (che merita una trattazione a parte), la causa più frequente di questa forma estrema di sconvolgimento è la minaccia di morte. Il problema è anche di rilevanza politica: se chi detiene il potere, adombrando la possibilità della morte, riesce a gettare il panico fra la gente, può poi dominarla con grande facilità: l’angoscia estrema provoca, nella maggior parte delle persone, una regressione alla dipendenza infantile che rende docili e privi di capacità critiche.
        Che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di “morte”? Credo che si tratti di un caso particolare di ciò che Borges definiva “fraudes de la palabra” (inganni della parola): siccome abbiamo assegnato un nome ad una realtà misteriosa, c’illudiamo, pronunciando quel nome, di sapere di cosa stiamo parlando. In realtà, sempre secondo Borges, la morte è un:

“misterio cuyo vacante nombre poseo y cuya realidad no abarcamos”
(un mistero di cui posseggo il vuoto nome e la cui realtà non comprendiamo, né dominiamo).

        L’angoscia della morte, in chi vive ancora, preannuncia una sofferenza ancora più grande; una sofferenza che ci risulta misteriosa perché, data la sua natura e la sua intensità, non è possibile provarla e, nello stesso tempo, mantenere quel minimo di serenità che ci è necessaria per comprenderla. Ci risulta, quindi, impensabile e, appunto, misteriosa.
        Si può considerare la morte sul versante esclusivamente biologico, come semplice e totale cessazione delle funzioni vitali. Se questo modo d’intendere la fine della vita non fosse eccessivamente riduttivo, potrebbe valere quanto sosteneva Epicuro: “Il problema della morte non mi riguarda perché finché ci sono io, non c’è la morte; e quando ci sarà la morte, non ci sarò più io”. Tuttavia, se dopo tanti secoli continuiamo ad avvertire terrore di fronte alla prospettiva di non esserci più, ciò significa che Epicuro non è mai stato convincente.
        In realtà, l’Io e la morte possono coesistere nel momento in cui si sta cominciando a morire. Si avverte la sensazione penosissima (a mio avviso, più penosa ancora di qualsiasi dolore fisico o emotivo) di un’esistenza soggettiva che sta iniziando a dissolversi nel nulla, di un Io che sta cominciando a non esserci più. La troviamo, anche quando la totale cessazione dell’esistenza biologica non c’è ancora (e non necessariamente è vicina), nell’angoscia di disintegrazione dello schizofrenico, che sente la sua vita interiore andare in pezzi. La troviamo nei rari momenti di lucidità dell’individuo affetto da Alzheimer, che sente di star perdendo la base biologica di molti aspetti della sua soggettività. La troviamo, infine, nel bambino abbandonato a lungo (e senza speranza di ritrovare qualcuno che lo ami), che sente di star cadendo nella “depressione anaclitica”; malattia che, oltre a causare un completo sfacelo del suo funzionamento mentale, comporterà un rapido coinvolgimento somatico che porrà fine alla sua esistenza.
        Non è solo nel caso della depressione anaclitica che l’individuo deve confrontarsi con l’abbandono e la solitudine. Troviamo la stessa situazione nell’Alzheimer, in cui un “difetto strumentale dell’Io” (dovuto ai processi degenerativi della base biologica delle funzioni cognitive) rende progressivamente impossibili le relazioni interpersonali. Analogo isolamento si ha nello schizofrenico, che disinveste affettivamente il mondo esterno, ed attacca i processi di pensiero che al mondo esterno potrebbero legarlo (Bion). Pur esistendo altri fattori causali concorrenti (diversi nelle malattie che ho considerato), si può dire che perdita di contatto coi propri simili e dissoluzione dell’Io procedono di pari passo. Ognuno dei due fattori è, al tempo stesso, causa ed effetto dell’altro: quanto più accentuata è la dissoluzione dell’esistenza soggettiva, tanto maggiore sarà l’isolamento, e viceversa: l’individuo, privandosi del rapporto coi propri simili, perde (in quanto “oggetti-Sé” secondo Kohut) i necessari sostegni alla sua vitalità interiore.
        Che fra solitudine e progressiva morte dell’Io esista un rapporto di “causalità circolare” (o feed back positivo) è testimoniato dalle situazioni in cui tale circolo vizioso si rompe: è il caso dell’eroe e del martire che, col loro coraggio e la loro determinazione, vincono il panico e affrontano la morte (o il rischio di morire) senza cedere a ricatti o a pressioni di alcun tipo. Eroismo e martirio sono atti estremi di altruismo: l’individuo si sacrifica in nome di un ideale che animerà l’esistenza di coloro che sopravvivono. Queste altre persone, anche se non materialmente percepibili, sono ben presenti nella mente dell’eroe e del martire; l’isolamento si rompe. Al tempo stesso, la vita interiore di tali personaggi eccezionali, pur nel momento estremo, trae la sua vitalità dall’alto valore del sacrificio: la fine incombente (o il rischio che si verifichi) segna il trionfo dell’Io e non l’inizio della sua dissoluzione.
        Tutto questo significa che, per vincere l’estrema paura della morte (e per non farci soggiogare da chi ne approfitta) dobbiamo diventare tutti eroi o martiri? In realtà, esiste una soluzione più “a portata di mano”, fondata su di una forma di saggezza che i più possono acquisire. Ce la suggerisce Kohut che dovette affrontare il problema su di un piano strettamente personale: pubblicò i suoi scritti più importanti nel periodo in cui una grave malattia aveva segnato il suo destino.
        Intorno al morente si crea, di solito, il vuoto: alcuni fuggono; altri, pur essendo materialmente presenti, iniziano già interiormente a distaccarsi da chi, fra poco, non ci sarà più. Nella maggior parte dei casi è inevitabile che questo succeda, perché mettersi nei panni di chi sta cessando di esistere è insopportabile. Viceversa è possibile che chi sta morendo si metta nei panni di coloro che dovranno sopravvivere senza di lui/lei; e questo può accadere solo se li ama. Può aver presenti i problemi che costoro dovranno affrontare in sua assenza, parlarne, suggerire possibili soluzioni. In tal modo, il legame con le persone care si mantiene, e si evita l’isolamento. Al tempo stesso, il morente può offrire a coloro che rimangono l’esempio di come affrontare la fine con serenità; ossia un modello di comportamento che costoro potranno emulare quando sarà la loro ora. La capacità d’offrire questo dono di altissimo valore ha il potere di rafforzare la vitalità interiore del morente, evitandone fino all’ultimo la dissoluzione; e questo è del tutto simile a quel che succede all’eroe e al martire.
        Purtroppo questa soluzione non sempre è attuabile: il morente può essere incapace d’amare altruisticamente e, d’altra parte, i familiari possono essere tutt’altro che amabili. Può essere che il morente sia rimasto solo al mondo, e che nessuno sia presente ad ascoltare le sue ultime parole. Tuttavia, se terremo presente che vincere il panico legato alla morte è il modo per tutelare la nostra libertà interiore (per evitare che chi detiene il potere lo strumentalizzi), allora ci convinceremo che scongiurare il più possibile il pericolo che queste circostanze sfortunate si verifichino è condizione per poter vivere pienamente, per vivere una vera vita.

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