“Non sono realista, perché sto dalla parte del reale”.
Nel seguito del post tento di far emergere quanto c’è di ragionevole nella provocazione, di per sé solo un espediente retorico per tenere in caldo il discorso sulla scientificità della psicanalisi, che invece il buon senso vuole congelare, spostandolo sulla psicoterapia.
Inarcando il sopracciglio destro e corrugando il sinistro, i benpensanti mi chiedono: “Ma che scienza vuoi per la psicanalisi? Non ti basta che curi?” Di solito svicolo; non rispondo alla domanda diretta, perché ormai ho imparato dove va a parare. Vogliono farmi dire qualcosa come pretesto per ribattere: “Chiaro, vuoi una scienza asservita al capitale come qualsiasi tecnica di produzione industriale. Vuoi una tecnica scientifica per adattare il soggetto alla volontà del potere: una pratica di normale conformismo”. Sapessero la mia vera risposta (ammesso che la comprendessero), non mi farebbero certe domande.[1]
Devo comunque stare al gioco. L’ambiente in cui mi muovo, prima che alla psicanalisi, è in modo pregiudiziale ostile alla scienza, perché fuorclude la soggettività, cioè l’intenzionalità della coscienza, direbbe Husserl.[2] Nel migliore dei casi il complesso delle scienze è concepito come tecnoscienza, neologismo per oggettivismo scientifico, equivalente a “scienza” tra virgolette. Il pregiudizio si nutre di cascami della fenomenologia, con la pretesa di andare alla verità delle cose stesse (“salvare i fenomeni”).[3] “La scienza non pensa”, scriveva Heidegger, che di fenomenologia ne sapeva.[4]
Giustamente, non avendo il supporto di una filosofia realista, la scienza non pensa alla verità delle cose. Minando il sostegno realistico, al padrone la scienza prospetta la rovina; lui lo sa bene e si rivale sfruttandola sul breve periodo; conscio di ciò, il servo osteggia la scienza e difende il padrone per garantirsi la sopravvivenza. Estraneo a tale dialettica, il fenomenologo si ostina a scotomizzare il fenomeno scientifico, forse perché la scienza non è una cosa ma un discorso. Husserl intitolò la summa del proprio pensiero Crisi delle scienze europee (1936), quando non erano affatto in crisi. Aveva l’idea di scienza che idealizza il reale; non poté perciò accettare, per esempio, la meccanica quantistica, sin dall’origine ambigua sulla realtà bicipite dell’onda-particella (esperimento di Young delle due fenditure). La mia posizione è netta: l’idealismo non ha molto di scientifico ma molto di servile; sdogana l’empirismo realistico e lo pone a servizio del potere. Questa è la ragione principale per diffidare della strana coppia idealismo/realismo.
Allora devo proprio dire cosa intendo per scienza psicanalitica.
La prendo larga. Premetto cosa intendo per scienza in generale e mi guardo bene dal cadere nel generico. Cosa hanno in comune biologia e fisica (classica e quantistica), linguistica e sociologia, chimica e matematica, psicanalisi e psicologia, ecc.? Non avendo tutte queste competenze ugualmente approfondite (ma alcune sì), dovrò necessariamente stare molto sulle generali.
Come primo orientamento propongo un elementare discrimine epistemologico: da una parte metto le scienze cognitive, dall’altra le non cognitive. Le prime trattano un oggetto reale indipendente dal soggetto; il soggetto ne prende le misure, come il sarto che confeziona un vestito, all’insegna dell’adeguamento dell’intelletto alla cosa; è la scienza antica, pre-galileiana, dello scire per causas, descrittiva nello spazio e storicistica nel tempo. Le seconde trattano un oggetto che si dà in sincronia insieme al soggetto, senza precederlo; in questo secondo caso esiste solo l’interazione soggetto/oggetto, ma non il soggetto né l’oggetto indipendenti l’uno dall’altro; in fisica si chiama principio di indeterminazione, in psicanalisi fantasma; è la scienza moderna, galileiana. Si capirà presto, forse si è già capito, a quale scienza vanno le mie preferenze.[5]
In questo panorama la fisica occupa una posizione singolare nel senso che occupa entrambi i versanti: oggettuale e non oggettuale. La fisica classica è realistica e localistica, a livello macroscopico; la quantistica è non realistica e non localistica, a livello microscopico; la prima è oggettuale, la seconda no.[6]
Fu la ragione del contendere tra Einstein e Bohr sul bizzarro fenomeno dell’entanglemento correlazione tra particelle (1935), per cui rilevando lo stato di una particella si sa immediatamente lo stato delle particelle entangled, comunque distanti siano. Il fenomeno non si spiega ammettendo variabili reali, nascoste nel sistema e precedenti il rilievo empirico; ancora più inspiegabile è l’azione a distanza in una sorta di telepatia tra particelle, ma senza stato interno prestabilito: non ci sono ruote dentate, in posizioni ben definite, che ingrananohic et nunccon altre ruote dentate vicine. Se il meccanicismo quantistico esiste, ha simmetrie diverse dai ruotismi.
Bohr non seppe dare a Einstein spiegazioni convincenti del rompicapo quantistico. Solo trent’anni dopo (1964) Bell dimostrò una correlazione tra particelle quantistiche superiore a quella prevista dalla fisica classica. È come se esistesse un “sapere nel reale”, agente a distanza, che l’osservatore non sa prevedere, stabilendosi al momento stesso dell’osservazione, non prima. Il teorema – formulato da Bell come disequazione – fu sperimentalmente confermato quindici anni dopo da Aspect. Oggi la non località e il non realismo della meccanica quantistica sono fatti acquisiti; la tecnologia, per altro molto realistica, sa sfruttarli molto bene in termini commerciali. E dopo gli smartphone ci aspettiamo i computer quantistici.
Dobbiamo la pregnante espressione “sapere nel reale” a uno psicanalista. Jacques Lacan la formulò nell’aprile del 1974 nella lettera agli allievi italiani, sollecitati a istituire in Italia la procedura di passe, che nell’Ecole freudienne de Pariscertificava pubblicamente come l’analista si autorizzava da solo (e con qualcun altro) a esercitare la psicanalisi su chi ne facesse domanda. La proposta cadde nel vuoto, ma l’analisi a sostegno era interessante.
Leggiamo l’intero passo; forse oggi la sua epistemologia suona meno enigmatica di 44 anni fa, almeno a me che nel 1977, sollecitato dallo stesso Lacan, mi sottoposi a Parigi al rituale della passe.
Il faut pour cela du réel tenir compte. Soit de ce qui ressort de notre expérience du savoir: il y a du savoir dans le réel. Quoique celui-là, ce ne soit pas l'analyste, mais le scientifique qui a à loger.
L’analyste loge un autre savoir, à une autre place mais qui du savoir dans le réel doit tenir compte. Le scientifique produit le savoir, du semblant de s’en faire le sujet. Condition nécessaire mais pas suffisante. S’il ne séduit pas le maître en lui voilant que c'est là sa ruine, ce savoir restera enterré comme il le fut pendant vingt siècles où le scientifique se crut sujet, mais seulement de dissertation plus ou moins éloquente.[7]
All’uomo comune è forse più noto un altro sapere nel reale: quello della biologia evoluzionista di Darwin. Individuato un secolo e mezzo fa, è tuttora un sapere inaccettabile per gran parte della collettività. Secondo Telmo Pievani in Italia esiste un’“incuria verso la scienza” biologica.[8]Non si ammette che la natura operi con un sapere contingente, mai dato una volta per tutte in qualche disegno intelligente, ma prodotto nei fatti di volta in volta in modo diverso a seconda delle diverse contingenze ecologiche. Uno dei più influenti maître à pensermoderni, Michel Foucault, allergico a considerazioni di sincronia, criticava l’evoluzionismo di Darwin, perché non storico; non prevede, infatti, entità predefinite, per esempio le specie, evolventi secondo schemi genealogici.
Tuttavia non sono le incertezze di Darwin nel definire la specie, “il mistero dei misteri”, né il suo incrollabile gradualismo a fare problema; è inammissibile che nella biologia delle popolazioni operi un sapere che non si sa prima, in sostanza imprevedibile. Se non si sa prima, non si può dirlo scientifico – così ragiona il senso comune, che ne sa poco di scienza e da tempo immemorabile identifica scienza con certezza, in particolare con previsioni sicure. Senso comune vuol dire idealistico, per cui conoscere è ricordare quel che si è appreso “altrove”, nell’Iperuranio, cioè nel mondo delle cose giuste come le vuole il padrone.
Per le stesse ragioni si biasima la psicanalisi, che dichiara di operare sul sapere inconscio, cioè su una forma di sapere che originariamente non si sa di sapere (un-bewusst, letteralmente “non saputo”), ma si configura di volta in volta in modo imprevisto nella singola seduta. Diciamola tutta: il comune buon senso idealistico non ammette che la scienza, quella psicanalitica compresa, operi nell’incertezza, senza un oggetto preciso su cui ragionare in modo deterministico, codificato a priori, per esempio secondo canoni cognitivisti, graditi al potere. Ovviamente, se non c’è determinismo, non ci sono possibilità di controllo sociale, in particolare di terapia. E questo non piace né al potere né ai suoi soggetti.
La spaccatura tra componente cognitiva e non cognitiva si presenta in modo paradigmatico, forse ancora più chiaro che in fisica, nella disciplina che prediligo: la matematica. Meditarla può tornare utile anche allo psicanalista, per chiarirsi le idee sulla propria scienza – ammesso che lo voglia. Forse la psicanalisi ha con la matematica addentellati più stretti di quelli immaginati dalla fantasia metapsicologica. Provo a dirne qualcosa senza entrare in eccessivi tecnicismi. È per me una storia più avvincente di molti romanzi, eccetto quelli di Rabelais, Cervantes o Ariosto, scritti proprio all’inizio dell’epoca scientifica.
In Occidente la vera matematica, quella ipotetico-deduttiva, che deduce teoremi da assiomi, esordì più di 23 secoli fa in Grecia; era una geometria, ossia misura (metria) dello spazio. I 13 libri degli Elementi di Euclide presentano l’oggetto, lo spazio tridimensionale, e indicano il metodo per conoscerlo in modo assolutamente certo con due soli strumenti tecnici: una riga senza tacche, cioè senza unità di misura predefinita, e un compasso monouso. Le cinque richieste formali iniziali: gli aitématao assiomi euclidei sono tassativi, tanto da portare un Kant a concepire la spazialità e la temporalità come categorie trascendentali di ogni possibile esperienza empirica della realtà. Quello kantiano fu un perfetto cognitivismo, di stretta osservanza euclidea, tuttora insuperato nel suo genere.
Nel 1948 un grande epistemologo e storico della scienza, Alexandre Koyré, scrisse un saggio intitolato “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”.[9]I grandi fanno talvolta grandi errori, ma istruttivi. È vero l’esatto contrario: l’antico fu il mondo della precisione, il moderno dell’approssimazione. Nel mondo pitagorico-euclideo esistevano solo i numeri interi e i loro rapporti razionali (logoi), tipicamente quelli musicali, sempre esattamente definiti e “semplici”: ½, 3/2, 4/3… ottava, quinta, quarta…. Euclide non approssimò pi greco, come farà poi Archimede, un genio anomalo ai suoi tempi. Come modo per trattare l’incertezza – il famigerato dubbio cartesiano – l’approssimazione è un’acquisizione della scienza moderna, che si avvale di due risorse concettuali ignote agli antichi: la topologia e il calcolo delle probabilità. Qui mi dedico solo alla prima. Per la seconda rimando al post del 29 aprile 2018 Sulla probabilità (http://www.psychiatryonline.it/node/7313). Affronto l’argomento con timore e tremore, ben sapendo che il paradigma del sapere certo, dominante da Euclide a Kant, è tuttora vigoroso. Di incertezza non si vuole certamente sapere.
Introducendo al III volume degli Éléments de mathématique (titolo che è un programma euclideo), dedicato alla topologia generale, Bourbaki scrive: “A partire dal concetto fisico di approssimazione, viene naturale dire che la parte Adell’insiemeEè un intorno dell’elemento adiAse, sostituendo ad aun elemento vicino, il nuovo elemento appartiene ancora ad A; in altri termini, tutti gli elementi di E ‘sufficientemente vicini’ ad aappartengono ancora ad A”.[10]
Come si vede, a è l’elemento reale da approssimare, che esiste a prescindere dal soggetto; il topologo gli si avvicina a piacere, ammesso che avvicinarsi al reale faccia piacere e non sia troppo traumatico. I casi sono due: il reale può essere raggiunto – allora l’approssimazione è una funzione continua – o può essere solo il limite di un procedimento infinito. Nel primo caso siamo nella scienza antica, madre di tutti i cognitivismi, in particolare storicisti, nel secondo siamo nella scienza moderna, che indebolisce i riferimenti realistici.
Coraggiosamente Bourbaki dedica ben 8 capitoli su 10 della sua topologia a indebolire il linguaggio metrico quantitativo, tratto dalla nozione di distanza euclidea e posto a fondamento di ogni operazione realistica di conferma (Bestätigung, termine caro a Freud). Rispetto alla matematica antica la topologia apporta una profonda novità, potenzialmente gradita al filosofo; abbandona la misura come nozione guida (quella che fa dire che la matematica è solo calcolo), o meglio, inserisce le considerazioni metriche in un ambito qualitativo riccamente articolato. La matematica moderna non si limita a manipolare grandezze (die Größe), attraverso la ratio, cioè il loro rapporto con l’unità di misura, ma diventa una teoria delle relazioni possibili (non solo reali) tra variabili. Non sviluppo l’argomento; mi limito a rammentare che gli antichi ignoravano la nozione di variabile, tuttora ostica agli umanisti che li imitano.
Mi fermo qui, sulla soglia della teoria delle funzioni, o delle applicazioni univoche (a destra) tra variabili, per non entrare in tecnicismi. Tanto mi basta per dire che la matematica moderna, in particolare la topologia, è letteralmente una scienza “locale” dei luoghi. L’analysis situs, termine avanzato da Leibniz (1679), ripreso da Poincaré (1895), si contrappone alla geometria “globale” dello spazio; come “geometria di posizione”, termine proposto da Lazare N.M. Carnot (1803) e da Staudt (1847) nell’ambito della geometria proiettiva (non metrica), la topologia è una disciplina realistica, che regola i processi locali di avvicinamento al reale, sfruttando simmetrie qualitative.[11]
Ma la topologia è anche una disciplina non realistica, non cognitiva, senza oggetto. Qui usciamo dalla tradizione classica.
Cosa è in gioco?
Fate la prova. Siete in libreria, per esempio a Milano da Hoepli, in via Hoepli al 5, terzo piano, reparto di matematica. Aprite gli Elementidi Euclide, per esempio nell’edizione curata da Fabio Acerbi con testo greco a fronte per Bompiani (2007), e poi un qualunque altro testo di geometria, edito in questo secolo e fate il confronto. Io ho fatto la prova con la Geometria differenzialedi Abate e Tovena (Springer, Milano 2011). Qual è la differenza? 23 secoli fa i libri di geometria avevano disegni geometrici di figure piane o solide; oggi si “scrivono” libri di geometria senza figure, cioè senza rappresentazioni di quel reale che c’è là fuori dalla finestra. Possibile? Gli spazi vettoriali e le trasformazioni multilineari vengono da Marte?
Il vezzo di scrivere libri di matematica senza figure fu inaugurato nel 1788 da Lagrange, che si vantava di aver scritto un trattato di meccanica analitica senza disegni. Insomma, nella matematica moderna non esistono rappresentazioni o disegni del reale. Esistono solo formule, le esecrate formule, cioè scritture.[12]Il fatto indisponente è che la scrittura matematica non è quella del romanzo; non si legge come b, afa ba; non è lineare ma ideografica, quasi geroglifica, con indici, pedici e altri simboli su più livelli grafici, che non hanno corrispondenti fonetici, ma sono da interpretare secondo certe convenzioni. Insomma, la scrittura matematica è paradossalmente illeggibile; non ti racconta storie, ma ti squaderna una sincronia di relazioni tra variabili.
Cosa ci sta sotto?
Una parolaccia, regolarmente rinfacciata alla scienza: l’“astrazione”. La scienza è astratta perché non fa riferimento né al soggetto concreto, “all’uomo” che la esercita, né all’oggetto concreto cui si rivolge. La scienza è astratta perché non rappresenta nessun oggetto per nessun soggetto. Questa è la sua forza che l’artista può capire meglio del filosofo. In cosa propriamente consiste, allora, l’astrazione matematica? A questa domanda la storia della matematica ha già risposto: l’astrazione matematica generalizza; passa dai casi particolari alla struttura generale comune a tutti. Questo è tipico della matematica moderna. Euclide non generalizzava; nei suoi teoremi quasi mai usava il quantificatore universale. A cominciare dal primo teorema del primo libro – come costruire un triangolo equilatero, dato il lato – le sue erano regolarmente particolari costruzioni ad hoc per il singolo problema.
Il passaggio epocale fu passare dallo spazio agli spazi, dalla geometria dello spazio piatto alle geometrie degli spazi curvi. La non breve transizione fu sostenuta dalla pratica della scrittura algebrica, che oggi ha colonizzato gran parte del territorio topologico. Euclide non praticava l’algebra; non disponendo dello zero, non poteva scrivere equazioni.
L’equazione f(x) = 0 definisce un insieme di soluzioni, le radici, che sono diverse ma anche equivalenti, perché rappresentano il nucleo caratteristico della funzione f. Le due possibilità di identità e di diversità definiscono uno spazio astratto. (Vado di fretta per sorvolare sui tecnicismi). Ci sono tanti spazi differenti quante sono le possibilità di identità e diversità tra gli elementi che li compongono. Nell’insieme definito dalla proprietà caratteristica P(x) = 0 si danno tante topologie, cioè tanti modi per gli elementi dell’insieme di stare insieme, cioè di approssimarsi l’uno all’altro, più all’uno, meno all’altro. I modi della vicinanza non si disegnano ma si scrivono. La matematica moderna, perfino l’approssimazione topologica, è diventata scrittura algebrica; ha cessato di essere rappresentazione dell’oggetto nel “mondo della vita” (Lebenswelt), cioè ha preso le distanze dalla cosa.[13]
Cosa è diventata la cosa?
La cosa è sempre stata lì, in agguato, anche se i filosofi sornioni finsero di non vederla. La cosa algebrica è l’infinito, per millenni concepito come indefinito (apeiron), senza confini, concettualmente indeterminato, quindi inesistente.[14]Non senza ragione; infatti la pratica moderna ha stabilito che la cosa infinita, se esiste, non è determinabile in modo categorico, nel senso che dell’infinito si possono dare modelli non equivalenti. Dopo Cantor, c’è l’infinito numerabile dei numeri interi o frazionari, diverso e “meno infinito” dell’infinito continuo dei numeri reali dei rapporti “irrazionali”, per esempio pi greco o radice di due, che si possono solo approssimare;[15]per non parlare delle infinite applicazioni di applicazioni, che risultano transfinite.
Come la matematica, anche la psicanalisi ruota attorno all’assenza della cosa infinita; è un’assenza singolare, che si diffrange nella pluralità “sfuggente” delle cose infinite, ognuna costituendo un singolare oggetto del desiderio nel momento stesso dell’emergere del desiderio, non prima, non dopo: cibo, escremento, sguardo, voce, niente. È chiaro che la metapsicologia pulsionale non arriva a teorizzare una situazione più delicata che complessa. Noi psicanalisti dovremmo escogitare teorie meno rozze – meno mediche – di quelle che per ogni effetto presuppongono una causa ben determinata, quasi sempre individuale, trascurando le molteplici interazioni collettive.
Qui mi limito ad aprire una strada. È la strada verso il reale che si sottrae alla presa del concetto. “Quel che va pensato si distoglie dall’uomo”,[16] dice Heidegger; “non cessa di non scriversi”, scrive Lacan; [17] rimane originariamente un-bewusst, dire “inconscio” è dire poco. La formula lacaniana è preferibile per due ragioni: semantica e sintattica. La ragione semantica è il riferimento al sapere, che sfugge al saputo; non è solo l’essere, che si distoglie dall’ente; all’origine c’è un manque-à-être, correlativo al manque-à-savoirdell’inconscio. La ragione sintattica è il riferimento alla scrittura, che predispone all’algebra, la pointeastratta che anche Lacan cercava nella matematica. La scrittura algebrica affronta in concreto l’impossibilità di esaurire tutti gli spazi possibili. Come videro bene Russell e Bateson, la verità della cosa infinita si può dire solo per paradosso. Nell’insiemistica non esiste estremo superiore. Non c’è l’insieme universale che contenga tutti gli insiemi, ossia tutte le proprietà predicabili. Torna qui evidente un tratto caratteristico del sapere scientifico moderno: l’incompletezza. Ma è proprio con tale inesistenza “reale”, con tale sottrarsi (Entzug) tuttavia incombente dell’essere e del sapere, che l’analisi, come la matematica, ha a che fare. È il “non tutto” del godimento femminile extra-fallico, per Lacan, o è l’invidia del pene, per Freud (che era più antropomorfo di Lacan, addirittura maschio-centrico). Chiamalo, se vuoi, “reale”; io preferisco “infinito”, giusto perché non sono né realista né razionalista.[18]
Poscritto per accademici
Dal punto di vista accademico questo post non è molto ortodosso. Per l’opportuna correzione del rapporto tra idealismo e realismo, storicamente considerati antitetici – si pensi alla Scuola d’Atene di Raffaello – ma qui presentati come ideologismi isomorfi a servizio della classe dominante, rimando a Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, vol. III, De Agostini, Novara 2013, in particolare al cap. X: “Realismo, evoluzionismo e naturalismo”.
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