Esiste un problema di vocabolario che è anche un problema di concetti; problema di grande attualità, data la crescente censura dei termini “politically incorrect”. Esso riguarda non solo l’attività clinica, ma anche, in generale, la cultura. Abbiamo eliminato, dal vocabolario medico, ogni parola che contenga una connotazione moralistica, e ciò è condivisibile: giudicare non rientra fra i compiti del medico; egli deve limitarsi a capire e ad aiutare con le sue cure. Tuttavia, cassando certe parole, è andata persa anche una connotazione descrittiva, che esisteva accanto a quella moralistica. Un esempio: la parola “perversione”. La vecchia espressione “perversione” sessuale è stata sostituita dapprima dal più neutro “deviazione”, ed infine dal termine completamente asettico “parafilia”. Il vantaggio di questa sostituzione è che il medico, quando ha a che fare con un “parafilico”, non è più portato a ritenere di trovarsi di fronte a una persona riprovevole, ma ad un malato esposto al rischio di soffrire, sia per le caratteristiche intrinseche del suo orientamento sessuale, sia per la difficoltà o l’impossibilità di convivere pacificamente coi propri simili. Tuttavia, la parola “parafilico” ha perso quella connotazione descrittiva, contenuta in “perverso”, che consentiva al curante di comprendere, già implicita nel temine stesso, la natura del male da curare. “Perversione” deriva dal latino “per-vertere”, ossia “sovvertire”. Il perverso “sovverte” l’ordine culturale e naturale cui la persona più sana si adegua. Egli sovverte l’ordine logico, ignorando il principio di non contraddizione: il sadico ama e, al tempo stesso distrugge; sovverte l’ordine naturale che ha posto una barriera invalicabile tra i sessi (quelli capaci di procreare) e le generazioni: il pedofilo ignora l’immaturità sessuale del bambino; il perverso ignora, in casi estremi, il limite invalicabile tra vita e morte: il necrofilo erotizza il rapporto coi cadaveri. Questa persona non si arrende neppure di fronte a ciò che è palesemente impossibile, non si ferma di fronte a nulla: non per niente, il perverso Svidrigajlov di “Delitto e castigo” (pedofilo e sadico) compie la sua estrema trasgressione suicidandosi di fronte ad una guardia che tenta malamente di fermarlo. Che ragione ha questa necessità compulsiva di sovvertire? Il motivo è una tenace idea di “onnipotenza” che non tollera alcuna limitazione. Come sempre succede per queste persone, l’onnipotenza è l’unica alternativa ad un’impotenza totale e annientante: per loro, è l’unico modo per sopravvivere. Da un punto di vista terapeutico (dopo aver posto questi pazienti nell’impossibilità di nuocere, e questo va sottolineato), la strategia di una cura razionale deve mirare a rafforzare la vita interiore nelle sue componenti sane, aiutando il paziente a superare un insopportabile sentimento d’impotenza. Ciò non è facile, ma è l'unica vera cura che meriti questo nome. Non sono da considerarsi razionali né propriamente curativi, i “trattamenti” volti a condizionare il paziente con mezzi esclusivamente chimici, o chirurgici, o “educativi”: se il paziente è da "tenere fermo", meglio la reclusione (come intervento ben distinto dalla cura) piuttosto che far passare per "cure" interventi che, in realtà, sono puramente costrittivi. Dal punto di vista della cultura più generale, occorre notare che l’atteggiamento “perverso” va al di là dei limiti della sessualità e della patologia conclamata: chiunque “sovverta” l’ordine costituito, senza preoccuparsi seriamente di proporne uno nuovo (e questo solo per affermare la propria “onnipotenza”) è da considerarsi come persona pericolosa, tanto più se assume le mentite spoglie del fautore del “progresso” o, attraverso una mistificazione, dello “ordine” stesso.
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