Suman Fernando, psichiatra, originario dello Sri Lanka, Visiting Professor presso il Department of Applied Social Sciences della London Metropolitan University, Senior lecturer presso lo European Centre for Migration and Social Care dell’Università del Kent, si occupa da tempo del “razzismo istituzionale” nei servizi di assistenza psichiatrica inglesi e ha pubblicato testi importanti e di rilevante interesse sulle culture professionali nel National Health Service e sulle relazioni fra le stesse e il potere politico-istituzionale-professionale.
Del suo pensiero ho già riportato alcune citazioni in questa rubrica il 1 novembre 2018 e il 1 febbraio scorso tratte da Mental health, race and culture, un libro riccamente documentato e argomentato che passa in rassegna numerosi testi in lingua inglese di autori britannici e statunitensi.
Proseguo con le citazioni dal capitolo 4 Razzismo in psichiatria (pp. 64- 69, passim).
Robert Bean (1906) studiò i cervelli di 103 afroamericani e di 49 bianchi per concludere che il negro avrebbe ben sviluppate le facoltà mentali “inferiori” (gusto, vista, abilità manuali, senso del corpo e della musica), mentre il caucasico possiederebbe in grado maggiore quelle più “alte”, quali self-control, volontà, senso etico ed estetico, raziocinio.
Per Francis Galton (1865), solo le razze di civiltà europea possiederebbero la spinta a tenere la continuità di un lavoro mentre i “selvaggi” non-europei mostrerebbero una innata, incontenibile irrequietezza.
Stanley Hall, fondatore dell’ American Journal of Psychology, pubblicò nel 1904 un testo intitolato “Razze adolescenti” in cui ipotizzava che le caratteristiche psicologiche di Indiani, Africani e Nativi Americani fossero simili a quelle di quegli adolescenti immaturi bianchi che vivono di sensazioni, emozioni, impulsi.
Secondo Mc Dougall (1921) i nordici avrebbero avuto predisposizione per la ricerca scientifica, i Mediterranei per l’architettura e l’oratoria, mentre i Negri avrebbero posseduto l’istinto della sottomissione.
Sigmund Freud in Totem e tabù colse analogie fra la vita mentale dei selvaggi e quella degli europei nevrotici e scrisse delle “grandi nazioni di razza bianca che dominano il mondo e sulle cui spalle è caduta la guida della specie umana.
In questa rubrica ho già riportato nell’aprile 2018 alcune riflessioni di Carl Gustav Jung dopo il suo viaggio negli USA, così come il 1 dicembre 2017 quelle di J. C. Carothers sulle popolazioni del Kenia (1947). Secondo Carothers, la rarità della follia fra i “primitivi” sarebbe stata dovuta al fatto che le loro culture non avrebbero preteso responsabilità personale, spirito di iniziativa; egli parla addirittura di una straordinaria somiglianza fra i negri e i bianchi leucotomizzati, somiglianza che imputa allo scarso uso dei lobi frontali da parte degli africani.
Negli anni della prima Guerra Mondiale, i test di intelligenza applicati ai militari USA aprirono la discussione sull’interpretazione da dare ai punteggi inferiori ottenuti dagli afroamericani, una discussione che decadde dopo la scoperta degli orrori del nazifascismo, per essere ripresa da Arthur Jensen (1969) professore dell’Università di California che sostenne le basi genetiche del QI, tesi ripresa poi da Eysenk. Anche il premio Nobel James Watson ha sostenuto che i neri sarebbero meno intelligenti dei bianchi.
Ciò detto, Fernando va a documentare 4 vicende “esemplari” della psichiatria bianca occidentale che mostrano alcuni modi con cui è avvenuta la “costruzione sociale” delle diagnosi:
Del suo pensiero ho già riportato alcune citazioni in questa rubrica il 1 novembre 2018 e il 1 febbraio scorso tratte da Mental health, race and culture, un libro riccamente documentato e argomentato che passa in rassegna numerosi testi in lingua inglese di autori britannici e statunitensi.
Proseguo con le citazioni dal capitolo 4 Razzismo in psichiatria (pp. 64- 69, passim).
Robert Bean (1906) studiò i cervelli di 103 afroamericani e di 49 bianchi per concludere che il negro avrebbe ben sviluppate le facoltà mentali “inferiori” (gusto, vista, abilità manuali, senso del corpo e della musica), mentre il caucasico possiederebbe in grado maggiore quelle più “alte”, quali self-control, volontà, senso etico ed estetico, raziocinio.
Per Francis Galton (1865), solo le razze di civiltà europea possiederebbero la spinta a tenere la continuità di un lavoro mentre i “selvaggi” non-europei mostrerebbero una innata, incontenibile irrequietezza.
Stanley Hall, fondatore dell’ American Journal of Psychology, pubblicò nel 1904 un testo intitolato “Razze adolescenti” in cui ipotizzava che le caratteristiche psicologiche di Indiani, Africani e Nativi Americani fossero simili a quelle di quegli adolescenti immaturi bianchi che vivono di sensazioni, emozioni, impulsi.
Secondo Mc Dougall (1921) i nordici avrebbero avuto predisposizione per la ricerca scientifica, i Mediterranei per l’architettura e l’oratoria, mentre i Negri avrebbero posseduto l’istinto della sottomissione.
Sigmund Freud in Totem e tabù colse analogie fra la vita mentale dei selvaggi e quella degli europei nevrotici e scrisse delle “grandi nazioni di razza bianca che dominano il mondo e sulle cui spalle è caduta la guida della specie umana.
In questa rubrica ho già riportato nell’aprile 2018 alcune riflessioni di Carl Gustav Jung dopo il suo viaggio negli USA, così come il 1 dicembre 2017 quelle di J. C. Carothers sulle popolazioni del Kenia (1947). Secondo Carothers, la rarità della follia fra i “primitivi” sarebbe stata dovuta al fatto che le loro culture non avrebbero preteso responsabilità personale, spirito di iniziativa; egli parla addirittura di una straordinaria somiglianza fra i negri e i bianchi leucotomizzati, somiglianza che imputa allo scarso uso dei lobi frontali da parte degli africani.
Negli anni della prima Guerra Mondiale, i test di intelligenza applicati ai militari USA aprirono la discussione sull’interpretazione da dare ai punteggi inferiori ottenuti dagli afroamericani, una discussione che decadde dopo la scoperta degli orrori del nazifascismo, per essere ripresa da Arthur Jensen (1969) professore dell’Università di California che sostenne le basi genetiche del QI, tesi ripresa poi da Eysenk. Anche il premio Nobel James Watson ha sostenuto che i neri sarebbero meno intelligenti dei bianchi.
Ciò detto, Fernando va a documentare 4 vicende “esemplari” della psichiatria bianca occidentale che mostrano alcuni modi con cui è avvenuta la “costruzione sociale” delle diagnosi:
- Gli abusi psichiatrici a carico dei dissidenti politici nell’URSS, abusi che costarono l’espulsione degli psichiatri sovietici dall’Associazione mondiale degli psichiatri
- La dichiarazione nel 1973 dell’American Psychiatric Association con la quale si affermava che l’omosessualità non era più da considerarsi una malattia
- La diagnosi di Drapetomania secondo Samuel Cartwright (1793-1863), medico chirurgo e psicologo statunitense che pubblicò nel 1851 sue riflessioni sul tema Diseases and peculiarities of the negro race[1], descrivendo un disturbo mentale che sarebbe stato tipico dei neri, quelli in condizione di schiavitù in particolare: la drapetomania che portava lo schiavo a fuggire
- La Dysaesthesia Aethiopis, sempre secondo Cartwright, caratterizzata da “insensibilità” della pelle e da “ebetudine” della mente, più comune fra gli schiavi liberati che fra quelli rimasti nelle piantagioni. Gli ex-schiavi “rompono, scialacquano, distruggono tutto quello che capita loro in mano; maltrattano cavalli e bestiame, strappano, bruciano, lacerano i propri abiti; senza alcun rispetto per la proprietà, si rubano le cose l’un l’altro per rimpiazzare quello che hanno distrutto; sollevano senza ragione tumulti contro i loro sovrintendenti e gli stessi loro compagni e sembrano insensibili al dolore quando vengono puniti”.
Questi esempi risultano eclatanti. Ma nella maggior parte delle situazioni è meno facile evidenziare l’influenza di un pregiudizio razzista nella costruzione sociale delle malattie mentali. A tale riguardo Suman Fernando cita il gran numero di diagnosi di schizofrenia fra gli afroamericani e di diagnosi di “psicosi da cannabis”, nel Regno Unito negli anni ’80 del secolo scorso, a carico degli Antillani di colore immigrati. A proposito di quest’ultimo caso, da una parte i media e la polizia spingevano ad associare l’assunzione di droghe illegali a specifiche “razze”, dall’altra attribuivano i comportamenti aggressivi degli Antillani a loro uso abituale di droghe illegali.
Un’altra vicenda è quella della rarità delle diagnosi di depressione a carico degli afroamericani negli Stati del Sud degli USA: il “negro”, irriflessivo, irresponsabile, fanciullesco non sarebbe stato in grado di provare sensi di colpa anche in circostanze in cui un bianco ne sarebbe stato travolto. La notazione fu confermata da Carothers per i Kenioti. Raymond Prince ha osservato nel 1968 un deciso aumento delle diagnosi di depressione fra gli abitanti del Ghana, dopo la conquista dell’indipendenza avvenuta nel 1957, ma, a suo parere, a tale aumento avrebbe contribuito anche la promozione dell’uso dell’assunzione degli antidepressivi da parte dell’industria farmaceutica.
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