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Prendimi l’anima: un film alla memoria di Sabina Spielrein

8 Feb 13

A cura di Rossella Valdre'

Conoscevo Sabina Spielrein sia per avere letto, alcuni anni fa, il carteggio e il diario che Aldo Carotenuto pubblico' per Bompiani con il titolo di "Diario di una segreta simmetria", sia per la tesi di laurea su un caso di schizofrenia — lavoro assai giovanile della Spielrein — quando ero ancora studentessa. Ho sempre provato un certo fastidio all'idea che questa donna, in fondo, viene ricordata solo in quanto abbinata alla storia d'amore con Jung, quasi non le spettasse un merito ed una vita propria, quasi non fosse stata lei stessa una professionista acuta e coraggiosa, ma destinata e marchiata per sempre dalla vicenda amorosa con il suo analista.

Per questi motivi, devo dire di avere provato una certa irritazione, a caldo, alla notizia del nuovo film di Faenza, "Prendimi l'anima". Nel momento in cui uscira' questo mio scritto, si sara' gia' detto e scritto sul film tutto il possibile. Ho temuto cioe' un'altra devastazione, questa volta mediatica e cinematografica, sulla memoria di questa tragica figura di donna del Novecento, relativamente poco conosciuta ai piu' e, se conosciuta, appunto solo in funzione della peccaminosa vicenda umana e transferale che la vide protagonista insieme al giovane Carl Gustav Jung, analista brillante, ribelle al padre Freud, e alle prime armi. A peggiorare i miei timori, l'orribile locandina — a parer mio – in cui i due amanti sono avvinghiati nudi in un amplesso che esalta la bellezza del corpo dell'uomo, e che lascia presagire un amour fou da fotoromanzo.

Il film di Faenza, invece, lascia sullo sfondo le diatribe psicoanalitiche per concentrarsi sull'evoluzione di Sabine dai tempi giovanili della malattia fino all'epilogo in Russia, esaltandone le qualita' migliori e restituendoci cosi' un ritratto di lei denso di amoroso rispetto tanto da costituire, infine, un omaggio alla sua memoria.

Chi era, Sabina Spielrein?

Nata a Rostov, in Russia, nel 1885 da una ricca e colta famiglia di ebrei ortodossi, la sua storia per noi — e nel film — inizia nel 1904 quando i genitori, non sapendo piu' come trattare le sue ripetute crisi nervose, la conducono in Svizzera, nella famosa clinica diretta dal prof. Bleuler, il Burgholzli. Questi, la affida all'allora giovane e fascinoso Dr. Jung, il quale inizia (sembra proprio su di lei) a praticare il metodo di cura delle nevrosi inventato da Freud, la psicoanalisi. Ad un mondo di doccie gelate, camicie di forza e urla risonanti per i corridoi, Jung contrappone l'utilizzo del mezzo umano per eccellenza: la parola. Con la parola si avvicina alla ragazzina spaventata e persa nei suoi fantasmi, con la parola la conduce alla riappropriazione del senso di Se' e la reimmette nella pensabilita' umana, con la parola le dona confidenze e aspetti di se' fino ad allora custoditi in privato, con la parola la calma, la rassicura, e la seduce.

Molto si e' detto e scritto, ovviamente, circa i confini di questa relazione. Come sostiene Bettelheim (che nell'83 dedico' un articolo all'argomento), non si sapra' mai l'intera verita' dato che gli eredi di Jung hanno sempre vietato la pubblicazione delle lettere — forse 46 — che questi invio' a Sabina (mancanza, questa, che oltre a rendere unilaterale l'epistolario fino ad oggi pubblicato, sembra chiaramente voler nascondere la natura amorosa della relazione). Ma possiamo essere d'accordo con Bettelheim nel ritenere che conoscere l'esatta cronaca dei fatti, in queste "relazioni psicologiche complesse", non e' poi cosi' importante. Certamente si sono amati, certamenti sono stati l'uno per l'altra di estrema importanza sia durante la relazione in se', sia negli influssi che questa sembra avere avuto per entrambi lungo tutto il corso della vita. E' sempre questo Autore a scrivere che "…cio' di cui disponiamo non lascia alcun dubbio sul fatto che Jung trovo' in Sabine la sua ‘anima', l'immagine dell'anima, della donna nell'inconscio dell'uomo. In tal modo egli concepi' la sua idea sull'importantissimo ruolo che l'anima ha nella vita di un uomo". Importanza di un legame, dunque, che va ben oltre i limiti e le bassezze – da cui Jung non fu esente – del contesto amoroso umano sempre imbrigliato, ieri come oggi, nelle paure e nei divieti interni ed esterni, che rifiutano ad Eros il diritto di esistere alla luce del giorno. Qui sembrano porsi in nuce, nell'elaborazione che ne fara' Jung, i concetti cardine del suo pensiero: l'Anima e l'Ombra.

La prima parte del film e' interamente dedicata all'iniziale rapporto analitico tra i due, alla successiva dimissione di Sabina, un anno dopo, dalla clinica e allo scoppio della passione. Una passione che mentre anima il cuore di Sabina al punto da farle desiderare un figlio da Jung (il piccolo Sigfrido che restera' sempre nelle sue fantasie), porta Jung a prendere contatto con emozioni che lo devastano, irrompono nell'ordine della sua vita matrimoniale e professionale come una forza travolgente, gli fanno temere di perdere il senno. Benche' attratto da Sabina, sappiamo che Jung fu sempre ambivalente ( "Quando l'amore per una donna si sveglia in me — le scrive in una lettera del 1908 — allora il mio primo sentimento e' la commiserazione, la compassione per la povera donna che sogna la fedelta' eterna e altre cose impossibili, ed e' destinata ad un risveglio doloroso").

L'intervento attivo della moglie Emma — che tramite una missiva anonima informa i genitori di Sabina — e le ansie crescenti in Jung, pongono drasticamente fine agli incontri e alle speranze di Sabine. Anche su spinta di Jung, si iscrive a medicina e otterra' la laurea nel 1911. Due anni dopo, sposa un medico svizzero dal quale avra' una bimba, Renata.

La seconda parte del film, che a mio parere e' la meno nota e la piu' interessante, ci porta sulle traccie — assai poche, per la verita' — che Sabina lascio' a Mosca, una volta tornata in Russia per praticarvi la professione di psicoanalista (tra i suoi analizzati, il giovane Piaget per un breve periodo) e prendere parte attiva ai moti rivoluzionari.

Le notizie sono poche ma forse, in vicende umane del genere, i fatti non sono davvero cosi' importanti. Il film sceglie l'idea di farci seguire il percorso di un'anima, l'anima inquieta e travagliata di Sabine, attraverso l'espediente narrativo delle ricerche della studentessa con cui lo spettatore si identifica. Fu proprio quest'inquietudine, oltre forse al desiderio di allontanarsi dal ricordo di Jung, a spingere Sabine a tornare in Russia per prendere parti ai moti rivoluzionari, proprio in quella patria dove anni prima aveva giurato non sarebbe piu' tornata.

Ugualmente sullo sfondo e' la cornice psicoanalitica, il travaglio tra Jung e Freud, cosi' come gli stessi lavori psicoanalitici della Spielrein. Per fortuna.

Personalmente, trovo che questa sia essenzialmente una storia d'amore.

Potremmo addentrarci nei meandri dell'amore di transfert, nelle trappole dell'idealizzazione, nella seduzione, nei germi del controtransfert non ancora scoperto ed indagato, e avremmo fatto un altro film. Potremmo prendere vie diverse ed approfondire all'infinito, ma nulla aggiungeremmo alla storia d'amore, di passione e di abbandono tra due esseri umani. Cercando di identificarmi col personaggio di Sabine, credo che Faenza non poteva rispettarla meglio di cosi', estraniandola dal contesto di un'epoca di pionieri che tutto sacrificavano alle loro scoperte, e raccontando in se' la storia di un incontro di quelli destinati a lasciare il segno, dove lo strumento psicoanalitico e' stato il terreno favorente e forse essenziale, ma non sappiamo se non si sarebbero amati anche in condizioni diverse.

Sabina ci appare qui come una donna dalla sensualita' esplosiva e ribelle ai condizionamenti, e non come una pazza da curare; mentre Jung e' piu' umano che mai, con tutta la fragilita' dell'uomo di fronte al potere devastante dell'innamoramento, con la vigliacca fuga verso la sicurezza, con le meschinita' delle prime lettere a Freud ("…una mia paziente vuole un figlio da me…."), con l'investimento esclusivo sulla carriera, con la confusione e la mescolanza di rimorsi e paure che attraversano tutti noi quando ci gettiamo in una passione, e ne perdiamo il controllo.

Il film omette cosi', preservando la vicenda amorosa, tutta una parte di grande interesse storico. L'appartenenza di Sabina alla societa' psicoanalitica viennese, i suoi sempre buoni rapporti con Freud (dopo un difficile inizio, Freud avra' grande stima e senso di protezione per lei, "la piccola e' davvero brava…comincio a capire" ), il suo strano isolamento rispetto alle sollecitazioni del maestro ( "non capisco perche' Lei si isoli tanto" le scrive paternamente Freud), i suoi scritti che furono germi cosi' importanti per la successiva elaborazione dell'istinto di morte nel pensiero di Freud (in particolare "La distruzione come causa della nascita").

Pur restando innamorata o comunque affezzionata a Jung, Sabina aderi' alle concezioni psicoanalitiche freudiane e comprese in pieno, con vera intuizione femminile, che il distacco di Jung da Freud era una perdita per entrambi, in seguito a cui Jung aveva delle "confusioni".

La nostalgia per Jung non la lascio' mai. Benevolmente Freud la rimproverava, nelle lettere, e sperava di cuore che trovasse nel matrimonio e nella maternita' "almeno una soluzione per meta', invitandola a sublimare in opere creative il dolore subito e, secondo la sua concettualizzazione, la spinta lidibica rimasta vacante e inappagata. "Niente — le dira' — e' piu' forte di una passione controllata e deviata".

Mancando la parte delle lettere di Jung, il carteggio pubblicato da Carotenuto si limita a quelle tra Sabine e Freud, e al diario di Sabine che data fino al 1912. Emerge qui, a mio parere, un Freud come di consueto affettuoso e paterno verso l'anima femminile e verso l'allieva (si pensi ad un altro epistolario, quello con Lou Salome'), desideroso di vederla sistemata e placata, forse incapace di comprendere tanto tormento quando le scrive "Ora, dunque, Lei e' sposata e cio' significa per me una mezza guarigione dal Suo attcacamento nevrotico a Jung. Altrimenti non si sarebbe decisa al matrimonio. Rimane ancora l'altra meta', e il problema e' che cosa accadra' di essa".

Nessuno sa, in verita', cosa sia accaduto dell'altra meta' di Sabine, quella che non riusci' mai a liberarsi del fantasma di Jung.

Vorrei concludere riportando un brano dal diario di Sabine, scritto durante i giorni della relazione con Jung. Mi piace pensarla anche cosi', come una donna dai molti volti e dalle molte ombre, non appiattita sul solo ruolo dell'amante o dell'analizzanda abbandonata. Sabine con una sua vita propria, una sua autonomia interna, un suo pensiero originale ed una sua modernita' in tema di rapporti uomo-donna.

La sua fantasia e' fervida, e' vero, la sua sensualita' straripante come ci ha mostrato il film, ma Sabine doveva essere una donna complessa, evoluta, dai bisogni non facilmente codificabili, capace anche di concretezza, consapevole delle sue stesse ambivalenze e delle sue stesse ambiguita', quando scrive a se stessa:

"Ma poi: lo voglio veramente? Potremmo essere felici? Nessuno di noi due, credo, perche' il pensiero di sua moglie e dei suoi figli non ci darebbe pace. Non sono affatto nemica di sua moglie, posso capire fin troppo bene la sua posizione nei miei confronti. Anche se la conosco poco, credo sia una brava persona, visto che il mio amico l'ha scelta. Quante volte ho dovuto soffrire per lei, quante volte nel pensiero le ho chiesto perdono per il dolore che ho portato nella sua casa tranquilla. Del resto anche a me questo amore non ha portato altro che dolore. Erano pochi gli attimi in cui, riposando sul suo petto, potevo dimenticare tutto e nemmeno pensare alla tragedia della nostra situazione poteva turbare il mio sentimento di gioia profonda; neanche la derisione del critico dentro di me — l'essere umano e' uno strano meccanismo — poteva distogliermi.

E ora? Egli mi si avvicina di nuovo. …….."(1910).

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