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Prigionieri della tecnica?

21 Ago 22

A cura di sarantis.thanopulos

Cento, centocinquanta anni fa molti grandi ricchi investivano nelle arti: le arti figurative, il teatro, la musica, l’architettura. Era una restituzione alla collettività di parte della ricchezza comune di cui si erano appropriati, ma anche un riscatto nei confronti della nobiltà che per secoli aveva legittimato il suo potere sul popolo attraverso una superiorità culturale che, prendeva, la elevasse sul piano morale. La rivalità della grande borghesia nei confronti della nobiltà ha dato una grande spinta allo sviluppo della cultura umanistica e il sorgere della classe operaia come coscienza collettiva politica e culturale, che ha messo in discussione i luoghi comuni della legittimazione del potere, ha creato un fiorire diffuso, libero del pensiero critico capace di rivoluzionare la nostra concezione del mondo. E’ così che è nato il movimento di emancipazione delle donne che, insieme al movimento di emancipazione dei lavoratori, rappresenta il punto più elevato della storia umana.  

Lo sviluppo delle scienze naturali ha ricevuto un impulso enorme e altrettanto è successo con le scienze umane. Fecero la loro apparizione la psicoanalisi, la psicologia, la sociologia, l’antropologia. Questo sviluppo non era ancora minato alle sue fondamenta dalla pretesa di una parte, oggi dominante, degli scienziati naturali di costituirsi come garanti di un paradigma conoscitivo totalitario. Einstein si rivolse a Freud e non a qualche biologista fanatico per dialogare sulle cause della guerra e dell’aggressività umana. Scienze naturali, scienze umane, letteratura e l’arte in tutte le sue forme appartenevano a un unico complesso sistema di cultura conoscitiva, attraversato da conflitti e contraddizioni, ma proprio per questo aperto alle differenze e al dialogo, luogo fecondo della creatività umana. La “società civile” contemporanea, pilastro della democrazia regge su ciò che tuttora resiste di questo patrimonio. 

Lo spazio comune di sapere multidisciplinare e di espressività creativa covava dentro di sé il contrasto tra due prospettive inconciliabili tra di loro: lo sviluppo paritario delle differenze (la forza propulsiva della civiltà) e l’uso delle conquiste conoscitive per rendere più efficace e potente il dominio dei pochi sulla grande moltitudine degli esseri umani. Il contrasto minò silenziosamente l’equilibrio politico in Occidente e la pace ed è esploso nella prima guerra mondiale (solo una lettura tradizionale inadeguata della storia la può attribuire ai nazionalismi, effetto collaterale, in realtà, di domande di emancipazione rimaste senza sbocco). L’avvento del nazismo (il fascismo ne fu una variante tanto patetica quanto devastante) mostrò tutto il potenziale disumanizzante del sapere al servizio del totalitarismo, del processo di assoggettamento collettivo a una forza costrittiva impersonale a cui i popoli si prestano volontariamente (esiste una volontà, slegata dal desiderio, che è sempre sottoposta a una forma di padrone). Dal nazismo, una pandemia psichica mortale, ne siamo usciti in modo raffazzonato, senza sufficienti anticorpi. Il paradigma totalitario è oggi diffuso in grandissima parte del mondo (non solo nei regimi dittatoriali ma anche nel funzionamento economico delle democrazie). Le scienze naturali si sono divise nel loro interno (in modo largamente inconsapevole) tra il lavoro al servizio della conoscenza che rende più accogliente e abitabile il nostro mondo e più sano e resistente alle malattie il nostro corpo e la manipolazione della realtà (dell’essere umano e della natura), la riduzione della scienza in pura applicazione tecnica che costruisce prigioni artificiali e nessuna conoscenza vera. 

Gli Stati e i grandi oligarchi dell’economia (che non si confrontano più con la nobiltà e con gli operai, ma con la volontà di potere, la volontà del nulla) distruggono la cultura e la scienza, in nome della tecnica, la macchina come paradigma dell’essere umano.

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