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Professioni di aiuto e relazione di aiuto

29 Set 13

A cura di ciofi

Ieri, 28 settembre 2013, ho avuto l'onore di partecipare come relatore al congresso fondativo del Cipra – Coordinamento Italiano Professionisti della Relazione di Aiuto

Si è trattato di un evento di grande rilevanza nel mondo delle professioni di ambito psicologico e più in generale di aiuto. Il mio auspicio è che nei prossimi mesi e nei prossimi anni sempre più si affermi, in questi ambiti, la logica del confronto, dell'integrazione, della valorizzazione delle diversità formative e professionali.

In linea con tali intenti propongo oggi un pezzo "unificante" che assume un punto di vista "generalista" scritto qualche anno fa dall'imico e collega Paolo Giovanni Monformoso.

Di seguito il testo

Le parole relazione d'aiuto sembrano raggiungere tutti con un significato chiaro, così chiaro che sembrerebbe pleonastico considerarle un'altra volta. Proviamo allora a riconsiderare, semplicemente e insieme, entrambi i termini, perché tutti possano condividere o confutare cos’è una relazione e cos’è un aiuto. La relazione presume un qualche contatto, che già si aveva, o un nuovo entrare in contatto. E l’aiuto presume che qualcuno abbia bisogno, e altri possa fornire una risposta a quel bisogno. Questa semplicità è per fortuna reale, ed è in molte delle nostre azioni quotidiane.

Immaginiamo qualcuno di noi che, trovandosi con una gomma sgonfia in una notte invernale, in periferia di una grande città, si sia sentito in grande difficoltà non avendo nessuna attitudine, né abitudine, a cambiare la ruota della macchina. E mentre perplesso studiava la situazione ha avuto l’aiuto di qualcuno che si è fermato con la macchina: era un immigrato del Nord Africa. Con molta semplicità e disinvoltura aveva capito le sue difficoltà, gli aveva cambiato la ruota e si era allontanato senza pretendere nulla di particolare. Una relazione d’aiuto svolta, chiusa e senza seguito, ma che ha permesso a una persona in difficoltà di ritrovarsi fuori di quella difficoltà. Potremmo sciupare un piccolo episodio caricandolo di molta riflessione, e questo è sempre il rischio delle riflessioni minimaliste che partono da piccole cose, episodi, piccoli racconti di vita quotidiana su cui tentiamo di fare delle riflessioni più ampie.

Val la pena immaginare qualche cosa per capire di più come abbia trovato l’energia, quell’immigrato nordafricano, per fermarsi ed aiutare; come abbia dovuto vincere una possibile immagine, certamente stereotipata e che può essergli arrivata dai grandi mezzi di informazione, per cui un nordafricano che si ferma in macchina in una zona deserta e periferica di notte non è rassicurante, e può provocare delle reazioni di panico anziché delle rassicurazioni di aiuto! Potremmo semplicemente immaginare che quell’immigrato, sapendo come si sostituiva un pneumatico, abbia semplicemente desiderato aiutare un suo simile umano in una situazione, per l’altro, difficile. Oppure potremmo anche immaginare che forse proprio per altri motivi quell’individuo abbia desiderato fermarsi, aiutare e smentire così lo stereotipo di pericolo che l’immagine del nordafricano, nelle nostre periferie, si porta dietro.

Quindi possiamo immaginare che chi aiuta possa avere almeno due serie di spinte: una quasi interamente etero-centrata, un’altra soprattutto auto-centrata:, in questo caso, desideri fare qualcosa per essere a sua volta aiutato, per uscire da uno stereotipo negativo nel caso dell’immigrato, per stare meglio in generale nella vita per qualcun altro, per sentire che si ha un valore…. Questa situazione raccontata potrebbe essere motivo di riflessione per capire alcune delle dinamiche della relazione di aiuto; dinamiche che non esauriscono il tema, ma che sicuramente possono aiutare a capire qualcosa.

Chi aiuta può (anche/spesso) trovare, nell’aiuto che dà, un aiuto. E non sembri un imbroglio di parole.

Vi è poi la possibilità che chi aiuta abbia una storia di vita da riscattare, qualcosa di personale; non solo dunque per rompere la gabbia di uno stereotipo, ma anche per poter finalmente esprimere una propria statura diversa. Come si suole dire: crescere attraverso un’azione che non è abituale. Tra queste vi sono le relazioni di aiuto straordinarie, quelle più vistose nella quotidianità; ma anche al di là della quotidianità, nel panorama che coinvolge la grande informazione. E diventano così a tal punto straordinarie da creare dei piccoli miti…

Tante volte si parla di “logica dell’emergenza”, che è anche la logica dell’eccezionalità. Ma è nelle relazioni d’aiuto quotidiane che ci si può anche consentire di tutto. Chi vede qualcuno che sta affogando non si domanda: “Sono il bagnino autorizzato a fare l’opera di salvataggio?”, ma se sa nuotare si butta e salva. Così se vede delle persone che hanno ferite e devono essere curate non si domanda: “Sono abilitato a curare? Sono infermiere? Sono dottore?”, ma cerca di fare il possibile per dare aiuto. E negli incidenti l’emergenza va oltre quelle che sono le competenze stabilite. Tutti possono diventare protagonisti di relazioni d’aiuto.

Protagonisti, parola importante; ma protagonisti tutti lo possono diventare ad una condizione: le relazioni di aiuto, per essere vissute nella quotidianità, hanno bisogno di un tessuto consolidato. Prendiamo due situazioni che hanno in comune un elemento per il quale c’è bisogno di aiuto. Due persone di età adulta che si trovano a vivere un’esperienza di sofferenza a causa di un tumore. Una vive in una rete sociale molto solida in cui gli elementi della vita quali il lavoro, il vicinato, le parentele, sono molto solidamente intrecciati e sfumati l’uno nell’altro: per questa persona il periodo del tumore può diventare un’occasione per rinsaldare vincoli già presenti, e vivere intense relazioni di aiuto che si appoggiano su relazioni già precedentemente molto solide. L’altra persona ha invece avuto in precedenza un lungo periodo di lavoro che l’ha portata fuori dal contesto usuale; per la malattia si ritrova poi a tornare nel proprio contesto, solo che ora è meno protettivo: egli è meno conosciuto dal vicinato e dai parenti che pure ha, e proprio per il periodo di lontananza per lavoro vissuto prima.

Nel momento che vive il tumore riprende delle relazioni, e queste si intensificano proprio per via del tumore. E’ facile capire che nella prima situazione le relazioni di aiuto sono molto più vitali e più capaci a rapportarsi all’interezza della persona. Nella seconda situazione, invece, è facile intuire che le relazioni di aiuto si orientano a prendere in considerazione soprattutto la persona con la malattia che ha, non collegando la sua vita precedente di persona sana con la presenza del tumore.

L’irruzione di una malattia grave, o di altri eventi, nella vita di una persona, fanno cambiare quella stessa persona, ma non c’è una metamorfosi completa, bensì una dimensione nuova in qualcosa di già presente. Se la persona è conosciuta, se la rete di amicizia e sociale era già viva, la malattia favorisce l’intensificazione di legami già presenti. Diversamente c’è qualche rischio in più. Ed è lì che c’è il bisogno di una riflessione di tipo più profondo.

C’è bisogno che gli attori dell’aiuto, ed anche i professionisti della medicina, della psicologia, del counseling e della terapia in senso ampio del termine, tengano conto delle differenze esistenti ed evitino di trattare neutralmente le situazioni di sofferenza senza rendersi conto del contesto in cui queste “situazioni” vivono, della storia del contesto, e ancora di più. Questi sono gli elementi su cui bisogna cominciare a riflettere in rapporto a qualità metodologiche professionali, e non più alla sola buona volontà; perché non basta, ci vuole qualcosa di più. Occorre uscire dalla sola buona volontà portandosi dietro tutto quello che la buona volontà ha di positivo, ma andando oltre e considerando ora quegli aspetti che l’uso di una parola dovrebbe richiamare: è il termine clinico.

Molte volte il termine clinico è stato usato per indicare un “luogo specialistico” in cui ricoverare, ma la sua etimologia ci porta invece a parlare del “luogo in cui vive un individuo”, e del contesto in cui la sua vita si svolge. Un’attività clinica dovrebbe allora essere l’attività che si svolge andando verso il contesto in cui vive l’individuo di cui ci si prende cura. Per qualche misteriosa trasformazione paradossale, invece, il termine clinico è diventato proprio il contrario: trasportare da un contesto e ricoverare in una clinica. Questa paradossalità va esplorata per capire cosa ha voluto dire e perché si è verificato questo.

Per certi versi le intenzioni possono essere anche riportate a una visione positiva, e che era quella di sottrarre alla disattenzione chi aveva bisogno di cure particolari facendo sì che le esigenze di una situazione potessero essere tenute in considerazione in un luogo organizzato, e non lasciate in un luogo famigliare ma che aveva anche rischi di disattenzione, di incapacità. Quindi le intenzioni che inizialmente avevano trasformato il senso del termine clinico in un altro così diverso erano buone. Ma oggi il rischio è quello di far prevalere l’organizzazione del luogo rispetto ai bisogni dell’individuo, e quindi a far diventare la clinica un luogo organizzato, ma a prescindere da chi vi arriva, e che anzi deve conformarsi, stare agli orari, all’organizzazione, all’alimentazione, ecc. Questo è giusto da un lato, mi sembra ovvio, ma è anche il rischio delle attività di aiuto. Le professioni che si fondano sulla relazione d’aiuto hanno la necessità di essere professioni, e specializzarsi come tali, ma corrono il rischio di non saper più ascoltare, permettendosi anzi una disinvoltura che proprio la professione rende possibile.

E vi è anche il rischio opposto nelle professioni e azioni di aiuto, ed è quello dell’eccesso di ascolto. E’ il bisogno dell’ascoltatore di avere qualcuno da ascoltare e aiutare, così da creare dipendenze invece che autonomie. Quanto si sa che ciò dipende dalla maturità umana e professionale del professionista della relazione di aiuto! L’atteggiamento giusto è allora quello di porre dei traguardi e dei limiti all’azione, magari anche molto avanzati, ma traguardi e limiti che delineino gradini di quanto deve essere grande il “po’” di aiuto che occorre attuare. Non: fare niente; né: fare troppo, ma: “fare un po’”.

Nell’ambito della relazione di aiuto un altro punto delicato si trova nel rischio di essere degli invasori dello spazio privato dell’altro. E’ necessario mantenere una riservatezza e anche, in qualche modo, proteggere l’altro da una troppo rapida messa a nudo di tutto quello che è il suo spazio intimo. Per essere aiutato uno può a volte veramente sacrificare tutto; è chi aiuta che deve sapersi fermare, saper rispettare o sapere che anche quell’invasione che è stato costretto a fare dell’intimità dell’altro deve essere poi, in qualche modo, cancellata e ritenuta eccezionale, e riprendere e far riprendere una vita propria. Mentre le “terapie” sono un fatto del tutto privato che nessuno conosce, gli aiuti evocati da questa riflessione sono a volte veramente sotto gli occhi di tutti. E qui vi è l’altra ben nota deriva possibile, che è quella verso la spettacolarizzazione dell’attivismo d’aiuto; una spettacolarizzazione che non consente più molta riflessione, per cui chi aiuta ha una sorta di frenesia di aiutare, senza più avere una possibilità di riprendere dimensioni di riflessione, per capire come sia possibile uscire dall’aiuto e dall’emergenza.

Invece proprio la capacità di mantenere l’attenzione a che l’obiettivo della massima autonomizzazione possibile sia raggiunto o perseguito, e senza i rischi dell’invadenza per i bisogni dell’operatore o volontario di fare, risulta essere la carta vincente della dimensione educativa dell’aiuto; senza questa considerazione si avrebbe solo un’imposizione d’aiuto, e non una relazione d’aiuto. Ecco, per concludere, le riflessioni che un mio Maestro, Victor Frankl, spesso (ci) faceva (fare): siate come volontari in una spontanea Relazione di Aiuto quando aiutate, ma poi togliete l’aspetto pubblico e spettacolare dell’intervento e fate sempre come se foste nello spazio privato e proprio della casa della persona che aiutate: lo spazio clinico per prendersi cura con professionalità, ma che mai perde l’entusiasmo di chi lo fa per il semplice e disinteressato amore e benessere dell’altro.

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