e mentre tutto svaniva dai miei occhi ed il cuore si faceva gonfio di malinconia,
tornavo a mescolarmi al brusio del mondo senza tuttavia obliare quei momenti di felicità.
Soreen Kierkegaard
L’ultima questione è di vedere se dal fondo del buio un essere può brillare.
Karl Jaspers
Il mio “repartino” è chiuso da giorni. Dopo che ad ottobre cedemmo il nostro spazioso SPDC al COVID, abbiamo vissuto quattro mesi accalcati nello spazio ristretto di un corridoio con poche stanze, al quarto piano dell’Ospedale, blindati dalle grate. Le pareti di cartongesso si sono tutte aperte come scatole di tonno sotto i colpi delle crisi più violente, le porte di truciolato degli armadietti sono state disarticolate; le plastiche sui neon alle testate dei letti divelte. Tutti insieme, pazienti, medici e infermieri, abbiamo vissuto la gabbia. Le albe e i tramonti avvolti nei ragni di acciaio. E la rabbia. Poi è arrivato il cantiere. La necessità di impiantare le lampade scialitiche al blocco operatorio sottostante al nostro “repartino”. Dunque siamo noi, pazienti psichiatrici e psichiatri, l’ultimo prato. Quello che rimane senz’acqua quando il flusso si riduce. Blocco dei ricoveri, pazienti dimessi o trasferiti. Non si è trovato altro posto in ospedale dove potessimo rimanere di presidio un medico e due infermieri H24, per espletare consulenze negli altri reparti ed in PS. Pertanto ci hanno lasciato tre stanzini, uno per gli infermieri, uno per il caposala e uno per noi medici, protetti da una parete di cartone saldata dal soffitto al pavimento, che noi chiamiamo il “muro del pianto”, e sul quale scriviamo poesie. Di notte e di giorno trasferiamo i pazienti che necessitano di ricovero negli SPDC (sopravvissuti della regione) che hanno (ancora) un posto disponibile. Nel tempo che rimane ognuno di noi durante il suo turno si accampa come può. Lo spazio è coartato, come il corridoio di una trincea, le finestre non si aprono per le grate: una garitta, sospesa tra il cielo e la terra. Una torretta di guardia medievale. Di giorno i trapani forano incessantemente il pavimento delle stanze controlaterali per installare le placche di fissaggio delle scialitiche. Di notte il silenzio è tanto più profondo, quanto è ristretto la spazio. Intanto il COVID infuria con la terza ondata. Ora che scrivo siamo rossi, ancora fa un po’ freddo, e adesso sono solo. In questo clima, certo non salubre per la mia malinconia, ci è arrivata la provvista di es-ketamina che avevamo richiesto, con procedura speciale, nominalmente per Nicodemo, il nostro “paziente zero”. Egli avrebbe dovuto essere il nostro primo paziente arruolato ne “protocollo speranza”. E’ diventato, invece, l’ultimo paziente a calcare le macerie del nostro reparto. Non potevo dirgli di aspettare la riapertura. A chi muore di sete, non puoi dire “domani”. Ho allestito, così, un setting improvvisato nel piccolo ingrsso fuori alla porta del reparto, condiviso con l’urologia, con una misera sedia. Poiché non ho stanze dove farlo entrare. Una sedia imbottita ed una parete di cartongesso, questo è tutto quello resta. Egli è docile. E’ spento. Da quattro anni è pietrificato da una malinconia che, come la “malattia mortale” di Kierkegaard, gli ha tolto la possibilità di provare qualunque sentimento, se non ventate di angoscia, soprattutto portate dall’alba, al risveglio, quando, nella sua mente si forma, ricorrente, l’idea del suicidio. Nicodemo è un uomo mite, sopraffatto dalla vita, alla quale ha guardato sempre con un certo stupore, misto alla convinzione che, nonostante le apparenze, la vita non fosse una cosa per lui. La vita, una cosa fondamentalmente vissuta dagli altri. Il suo tempo vissuto sempre più declinato al passato. La sua solitudine sempre più isolamento. La sua laurea, la sua specializzazione, un insieme di progetti falliti. Come il suo anno come ricercatore negli States. Vive di rendite familiari. Ci incontriamo così, nello smantellamento del reparto, coperti dalle mascherine. Io che, adesso, senza il mio reparto, mi sento svuotato e derubricato come medico psichiatra, ridotto ad un puro lavoro di “consulente di guardia”, e lui che si affida, non so perché, a quest’altra chance. Io finora della ketamina ho sentito parlare solo dai miei psiconauti più giovani, ragazzi, ragazze, lgbt. Lo sballo del sorriso immotivato e prolungato, la fatua felicità, quasi alle soglie della crisi “gelastica”, la droga dei sound martellanti nei rave, dei decibel che diventano la mano di Dio, delle esperienze “near death”, di tunnel, di gallerie dopo la morte eppure ancora dentro la vita: la droga dei punk-a-bestia, la droga degli squatter, la droga dei rockettari maledetti. La droga che, più di tutte, induce esperienze schizofreniformi: la droga dei viaggi di andata e ritorno dentro la follia. Quando gli informatori della Janssen mi proposero il farmaco, non negai il mio scetticismo. Era un po’ come chiedere a chi ha combattuto la droga tutta la vita, di utilizzare quella stessa droga come una cura. Oltretutto non avevo mai pensato, onestamente, ad una azione antidepressiva. Conoscevo bene la storia degli antidepressivi o timo-analettici. Sapevo che i ricercatori negli anni 50-60 del secolo scorso avevano provato anche con le anfetamine. Conoscevo bene l’azione eccitante della cocaina. Sapevo che tutti questi eccitanti o attivanti erano stati poi scartati perché il loro effetto “antidepressivo” tendeva rapidamente ad esaurirsi, proprio per lo sviluppo di una tolleranza. E che, in alcuni casi, negli assuntori sarebbe esitata una dipendenza. Avevo capito bene che gli eccitanti non erano antidepressivi. Ma la ketamina, in effetti, non era un eccitante. Pouttosto un dissociativo. Ma come ha a che fare un dissociativo con la malinconia? Oltretutto, la scoperta e l’utilizzo dell’imipramina (tofranil), il primo triciclico, erano dovuti alla perizia di Roland Kuhn, nel 1957, uno psichiatra che lavorava all’ospedale di Muesterlingen, in Svizzara. Kuhn era stato allievo diletto di Binswanger. La bravura di Kuhn era consistita proprio nel selezionare i veri depressi melanconici, dai depressi reattivi. Forse il primo segreto di una cura riuscita è selezionare il paziente a cui la devi proporre. Nel mio piccolo, dopo avere da giovane vissuto il passaggio dai triciclici agli SSRI, mi trovo ora, cosa strana, tra le macerie del mio reparto, a somministrare l’es-ketamina. Maria, la mia infermiera, molto capace, ha fatto il training per l’approccio al paziente e per l’utilizzo corretto del puff. Due ore prima di digiuno, capo inclinato a 45 gradi. Ma l’emozione è stata alta. Per tutti e tre. Ora che scrivo Nicodemo ha ricevuto in tutto tre somministrazioni, oggi riceverà la quarta, cadenzate in due settimane. Mi sono mantenuto con la dose di partenza di 28 mg, un po’ per farmi un’idea io della reazione al farmaco, un po’ perché il paziente non è proprio giovane e robusto, ed assume varie altre terapie. Scrivo queste righe, solo perché, in questo clima dove nessuno di noi è più quello che era, ho incontrato, inaspettatamente, il suo sorriso. Sono rimasto incantato dal suo sorriso dolcissimo, come di chi si risveglia alla vita, da un lungo letargo. Il primo sorriso di un uomo ad un altro uomo, come quello che si fanno un bambino e una madre che si guardano da vicino negli occhi, ha dissipato dentro di me la galleria dei suicidi a cui pensavo guardando Nicodemo. Certo, a quelli che ho incontrato, conosciuto e che poi mi hanno lasciato da solo, in questi anni, ma anche a quelli di cui ho letto le tracce: da Salgari a Majakovskij, da Virginia Wolf ad Ernest Hemingway, Dal Silvia Plath a Carlo Michelstaedter, da Cesare Pavese ad Ingeborg Bachmann, da Bruno Bettelheim a Primo Levi. Certo, non mi illudo. Forse un po’ è anche quello che si chiama, tecnicamente, “l’effetto Hawthorne”, ovvero la ricaduta positiva sul risultato di un’azione, data dall’attenzione certosina degli osservatori, dalla potente trasmissione di aspettative. Forse ogni nuova terapia è accompagnata da una sorta di clima euforico e positivo. I parametri vitali presi all’ingresso, durante, e alla fine dell’esperienza, con molte diligenza dalla mia infermiera, hanno scandito i tempi di questa esperienza, che, in un certo senso, abbiamo fatto insieme. Il tempo di due ore trascorso da Nicodemo con noi ogni volta ha cambiato il colore del nostro tedio di guardiani del faro. “Nicodemo come va?” “Nicodemo come stai?” La delicatezza dell’infermiera che gli rimboccava la manica della camicia per prendergli la pressione, poi la frequenza e la saturazione. Non è una pillola che si butta giù in un istante. O un’iniezione. E un soffio. E l’anima, pneuma o psiche, questo è: un soffio, un alito, un respiro. Nicodemo ha vissuto, così, la sua esperienza dissociativa. Che è durata una mezzora. Caratterizzata da derealizzazione e depersonalizzazione, autopsichica, allopsichica e somatopsichica. Nicodemo nel tempo seguente all’inalazione, seduto sulla sua sedia, si è sentito progressivamente leggero, poi pesante, poi normale. Alla seconda e terza volta ha avvertito strane sensazioni localizzate alle mandibole, alla articolazione del linguaggio. Dall’esterno appariva piuttosto assente, anche se è rimasto sempre contattabile. Sapeva che era con noi, ma sentiva di essere altrove. Sapeva che stava con noi da mezzora, ma gli sembrava di vivere un’altra “durata”. Sapeva che noi eravamo li, ma ci percepiva lontani. Dalla seconda volta è tornato lo sguardo ad abitare i suoi occhi, il sorriso a disegnargli le labbra, e ci ha detto che le idee di morte che lo aspettavano all’agguato del mattino erano come dissolte. Anche gli altri, per strada, gli facevano meno paura. L’esperienza del suo “viaggio” è come se si fosse articolata in tre fasi. In una prima fase il corpo e il mondo hanno perso la presa, e il corpo è diventato leggero, e anche la testa; in una seconda fase il mondo è ricaduto a fondersi col corpo, e il corpo è diventato pesante, un oggetto, tra gli oggetti del mondo; in una terza fase il corpo e il mondo si sono riposizionati nella loro articolazione comune. Il miglioramento del tono dell’umore è stato immediato e si è mantenuto, nei giorni, incredibilmente costante. Nicodemo mi ha fatto risentire, in questa esperienza, pienamente uno psichiatra. Ho pensato che solo uno psichiatra può accompagnare un uomo lungo questo tragitto. Non avrei potuto farlo né come medico (in fondo non mi sento più un “vero” medico) e né come psicologo (non arriverò mai alle finezze degli psicologi). Chi è uno psichiatra? Uno psichiatra, in fondo, non è niente. E’ solo un clinico di confine, che esiste quando si materializza il confine. E il paziente è il confine. Il confine tra la mente e il corpo, tra la vita e la morte, tra la malattia e la salute, tra l’esistenza e il cervello, tra la follia e la norma. Questo è lo psichiatra, di cui, ora, il mondo “covidizzato” sembra non avere più bisogno. In qualche modo io ho “viaggiato” con lui. Gli ho “tenuto la mano”, ho vissuto il suo “timore e tremore”. Gli chiedevo: “Siamo partiti?”, “Stiamo volando?” “Siamo atterrati?”. Può un paziente curare il medico che lo cura? Ovvero prendersi cura di chi si prende cura di lui? Può una cura essere assunta, sul piano del vissuto, da entrambi. Non lo so. A tratti mi pare di aver ricevuto anche io un “colpo di fulmine”, pur non avendo aspirato l’es-ketamina. la percezione di maneggiare una sostanza nuova, di iniziare un nuovo corso, di dare speranza ad un altro uomo. Di effettuare la prima somministrazione della mia regione. Sono tornato indietro nel tempo, quando, nel SerT sotto il ponte, inducevo i primi tossici alla buprenorfina. Era un miracolo sentirli felici perché, per la prima volta, stavano assumendo una terapia e non la colla metadonica. Ora, come allora, non mi sono sentito più inutile. Non ho sentito inutili nemmeno gli anni “perduti” ad ascoltare i “prigionieri del viaggio”. Gli anni “perduti” a scandagliare me stesso. Gli anni perduti a inseguire i matti nei paradisi e negli inferni della follia. E, nelle notti silenziose dentro la garitta di cartone pensavo pensieri atipici: e se fosse proprio questo effetto dissociativo ad innescare una svolta? Cioè, se fosse proprio la collateralità del farmaco il segreto del suo successo? Se l’azione “dislocatrice” dello stato di coscienza fosse proficua per togliere il paziente, anche un istante soltanto, dal peso a piombo del proprio corpo-cadavere che lo tiene ancorato nel fondo del mare, per aprire una finestra vitale nel tunnel ghiacciato della malinconia? Se fosse proprio la ventata schizofreniforme correttiva dell’immobilità melanconica? In fondo, per noi psicopatologi, la malinconia e la schizofrenia sono due dimensioni diametralmente opposte. La malinconia è la caduta definitiva nella materia inanimata, la schizofrenia è il librarsi dello spirito disincarnato (Stanghellini dice: disembodied spirits/deanimated bodies) senza più gravità. E’ un po’ come se si tentasse la correzione di una malattia introducendo breviter et summatim la ventata di un’altra. Una ventata schizofreniforme che polverizza e corrode i sigilli saldati al sarcofago della malinconia. La “malattia dell’utopia” giocata contro la “malattia della nostalgia”. So che un farmacologo serio riderebbe di queste miei riflessioni. MI parlerebbe del recettore NMDA. Mi introdurrebbe ai misteri incredibili del glutammato e al suo potere di ristoro dei cricuiti neuronali implicati nella melanconia. Ma so, per averlo studiato a lungo e bene, che nel “telaio incantato”, come lo chiamava Sherrington, della corteccia cerebrale, puoi trovare tutte le connessioni che vuoi, per legittimare le tue ipotesi. Senza nulla togliere ai colleghi farmacologi, in questa lotta col demone, io sto dalla parte dello spirito che, grazie ad una breccia chimica, certo, ma fatta anche di occhi, incontri e mani umane, ritrova nuovamente la carne. E, insieme, ricontattano il mondo. In fondo questo è, come i mandorli in fiore che incontro la mattina attraversando la terra dei fuochi, un nuovo principio, più che un nuovo protocollo. Il principio speranza.
Caro Gilberto, grazie per
Caro Gilberto, grazie per condividere le tue riflessioni, illuminanti come solo quelle di un maestro allievo di maestri. Lo psichiatra come tu sottolinei limpidamente è al presidio del confine, esiste con il paziente al confine delle domande di senso tra la vita e la morte, tra la salute e la malattia, tra l’esistenza e il cervello, tra il sacro e il profano, tra la follia e la norma… è con il paziente nella roccaforte sul deserto dei Tartari…un cavaliere sul mare di nebbia…ma credo che oggi più che mai siamo chiamati anche ad essere i medici internisti dei nostri pazienti proprio sul confine indistinguibile tra corpo e mente. Come insegnava Bruno Callieri, e tu espliciti perfettamente oggi, “quello stesso farmaco non è del tutto lo stesso se a prescriverlo sono io che ho stabilito con lui almeno un tentativo di dialogo sulla vita”.
Con gratitudine per l’autenticità delle tue lettere.
Massimiliano Pomponi, Roma
Caro Massimiliano, sono
Caro Massimiliano, sono contento che tu cogli questa posizione di confine, una “posizione intenibile” come direbbe Laing. Forte è la tentazione di rifugiarsi dentro un confine sicuro, anzichè presidiare la terra di nessuno tra i confini. Ti abbraccio