Mentre il gruppo guarda un film, Hamed picchietta rumorosamente con le nocche sulla sedia. Interrompo la visione, chiedo ad Hamed di non fare rumore. Il film riprende, Hamed riprende. Le mie parole sono assolutamente inutili. Sembrano quasi fomentare il gesto provocatorio. Torno a insistere. Niente da fare. Decisamente inizio ad irritarmi. Penso al gruppo, al suo diritto di stare tranquillo; penso al rispetto, penso… penso che mi sto comportando come un padre, o come un maestro di scuola. Ma qui siamo altrove. Un altrove dove Valentino apre il cancello e scappa (per 20 metri), dove Gaia insiste con espliciti riferimenti sessuali con le giovani tirocinanti e con gli operatori; Giada che spinge chiunque le passi accanto; Gianfranco che finge di urtare per errore l'operatrice di cui si è invaghito. E poi dove Emanuela sputa platealmente per terra e Luisa apostrofa educatori ed educatrici con giudizi sulla loro età o previsioni sulla loro morte imminente o già avvenuta.
Insomma un piccolo mondo in cui,a pensarci bene, la provocazione è consuetudine. Un gioco continuo con l'ostentazione dell'atto e della parola vietati, proibiti; con il richiamo a ciò che socialmente è più sconveniente, a ciò che prende di mira l'altro in punti presumibilmente deboli della sua personalità e della sua vita.
La provocazione ci porta con troppa fretta a vedere nell'altro qualcuno che non ci riconosce, reagendo conseguentemente con la stessa moneta oppure allontanandoci o allontanando. Come risultato di un giudizio che scova nella provocazione la rappresentazione errata (e nostra) di un rifiuto, di una delegittimazione. Di un fallimento.
Ma provocare è innanzitutto un invitare. Alla sfida, al duello certamente, ma pur sempre un invitare, un volere una presenza, non un tentativo di mettere una distanza.
Ma il significante provocare cova, nella sua etimologia;anche l'atto di appellarsi a un giudice superiore.
A meno di non volersi attenere alla sola gestione contingente, la provocazione ci mette in una condizione di imbarazzo.
Perché la ricerca delle radici del comportamento si confonde spesso con la ricerca di nessi causali, avviando una serie di ipotesi; necessarie ma di difficile verificabilità.
Perché sposta l'azione dell'operatore su un piano fortemente personale.
Perché interroga il servizio sull'uso che fa delle regole e sulla possibilità che il comportamento provocatorio risponda ad una insoddisfazione del soggetto verso la vita condotta all'interno della struttura.
Perchè ci pone di fronte all'insolubile. L'altro non cambia. Non si adegua al modello che vorremmo.
La tendenza più naturale è quella di considerare e trattare il comportamento provocatorio come qualcosa di negativo. In questo modo assolutizziamo due opposti, rifiutandoli come antagonisti e assegnando loro una coesistenza impossibile. Da una parte la provocazione, dall'altra il comportamento ritenuto socialmente corretto preso come modello a cui puntare.
Il comportamento provocatorio viene facilmente classificato tra i comportamenti problema. Ma è evidente qui la sua problematicità per chi disabile non è. Bersaglio della provocazione può essere la persona in particolare, oppure il ruolo che rappresenta. Bersaglio; non semplicemente interlocutore, o ricevente. Con la provocazione incontriamo un'intenzione, non solo una manifestazione. La provocazione come atto scelto e programmato, non è il comportamento involontariamente disturbante del disabile grave. Presuppone un progetto, una percezione del rapporto con l'altro e di sé, anche se inconsapevole.
Il comportamento provocatorio mette in tensione l'utente, l'educatore e il servizio, interpellando questi ultimi sia sul loro ruolo nei confronti del soggetto sia in merito alla capacità dell'operatore di sostenere, viene da dire: ancora una volta, la frustrazione del non sapere. Del non poter gestire e risolvere nei modi e nei tempi che vorrebbe.
E contemporaneamente ci richiama al ruolo che vorremmo per l'utente. Alla pretesa di un comportamento adeguato, cosa che si traduce inevitabilmente con atteggiamenti che non disturbino, che si inseriscano, nelle azioni o nel silenzio, nei binari dell'attività, dello scorrere dell'organizzazione quotidiana.
E invece non è così. L'utente scarta dall'immagine tranquilla, la scuote. Ma lo fa per esistere.
Esistere nell'impatto irritante provocato dalla reazione dell'altro. Lo scontro, il fastidio che comunque guarda, che considera. Che potrebbe rompere la sensazione di non essere, la percezione dell'indifferenza dell'altro. Ma anche il bisogno di scalfire la percezione di non venire considerati, di non riuscire ad essere come l'altro sedicente normale. Sedicente, certo, ma il disabile non lo sa, e che comunque rappresenta un modello di vita desiderata. Una vita che attira nelle sue accattivanti apparenze di completezza e di soddisfazione, date dalle evidenti possibilità nei campi dell'indipendenza e dell'affettività, possibilità che il disabile non riesce ad avere.
La provocazione è uno strumento di avvicinamento. Un avvicinamento che risponde ad un invito. Con la provocazione, l'utente disabile ci chiama, ci interpella, ci richiede una reazione. Ma ci mostra anche che l'altro disabile ha bisogno di colui che va a provocare e non si limita a negare la nostra presenza, la sua nostra autorità, respingendoci e allontanandosi. No. Non se ne va. Rimane vicino, in attesa.
Da qui, come si diceva, il “giudice superiore” rappresentato dall'operatore. La figura che l'utente, che non ha molto altro nella vita, spera lo giudichi bene, lo accetti, lo approvi, lo chiami nella sua cerchia affettiva.
Non potendo avere nemmeno questo, è disposto a tenerlo a sé anche nelle conseguenze del rimprovero. Lo scontro, l'irritazione, il respingimento dell'operatore, diventano il fulcro intorno a cui intessere una situazione di vita normale, carica di affetti, di emozioni forti, dolorose ma che proprio per questo fanno sentire di essere vivi, e di esserlo insieme all'altro. Una situazione falsa ma reale, in cui l'operatore incarna la figura posticcia del pari, o del superiore da cui distanziarsi, da “uccidere” per essere liberi oppure, in fondo, essere come lui: amico, amante, genitore, datore di lavoro.
E di fronte all'impossibile parità, diventa il nemico da scalfire, o da abbattere. Abbattere nel suo potere, nella sua posizione che non potrà essere raggiunta. Nel tentativo di negare, di distruggere ciò che non si può avere, agendo su chi, invece, ha. Un atteggiamento che vive nella contingenza, perchè sterile nei suoi obiettivi a lungo termine. E allora si perpetua, con il disabile che non ha altro mezzo se non quello di aggrapparsi alla negazione di un legame che lega nella sofferenza. E a volte nella collera.
Ma la collera dell'utente è di diversa portata di quella dell'operatore.
Non potendosi ammettere vittima di sé stesso, il disabile si fa vittima dell'altro. La cui collera perde lo status di reazione per diventare ingiustizia. Nell'ingiustizia ci si crogiola, incompresi e deresponsabilizzati. Si sta infelici; ma comodi. Dopotutto, al riparo da sé stessi. Nel duplice ruolo di vittima e accusatore, personaggi che convivono in sincronia. Chi può adottare un atteggiamento accusatorio ha un'arma in più contro la nausea del tempo. Lo percuote, per trarne frammenti vitali. “Tu ce l'hai con me. Non ho fatto nulla e reagisci così”. Si riprende la parola, passa all'azione, si aggrappa all'effimero di una drammaturgia di cui, finalmente, è autore.
E la comodità dell'ingiustizia è contagiosa, le due parti ne godono.
Con la provocazione, l'operatore risponde direttamente, bersaglio delle più diverse emozioni dell'utente. Ma come risponde? O sarebbe forse meglio domandarsi: come decide di rispondere? Se decide. L'operatore si trova a fare i conti con l'essere odiato dall'altro (che non significa per forza non essere amato). E la provocazione è una tentazione allo sdoganamento di comportamenti proibiti ma presenti in potenza.
Bisogna essere forti, saldi all'illusione del proprio io, oppure avere sufficiente bontà d'animo per sconsiderare l'altro disabile a tal punto da non sentirsi toccati nel vivo dalla provocazione.
La nostra fragilità ha però bisogno di puntellarsi al potere sull'altro e nell'intoccabilità. In una sorta di amore e reverenza che l'altro disabile ci concede. Inconsapevoli, nella provocazione diamo adito al rancore per lo scacco quotidiano di non essere riusciti a uniformare l'altro alla nostra norma.
Sbandiamo tra due sponde, nell'ambiguità che assegna al disabile intellettivo uno status di normalità nel momento in cui accusiamo il colpo della provocazione, e in questa normalità lo degradiamo quando rinunciamo ai vincoli sociali di una risposta ragionata.
L'irritazione ha vita facile, e non avvertiamo l'obbligo di porle un freno, sentiamo che potremmo lasciarla a guidare la nostra parola e le nostre azioni. Con le persone disabili intellettive non abbiamo nulla da perdere in fondo. E ci vogliono capacità di controllo e di lettura di sé per non bandire la diplomazia. E una buona dose di disperazione e di paternalismo per farne un'opportunità di scoperta e di dialogo con l'altro. Insomma, cosa facciamo della provocazione?
Se la indaghiamo solo per cercare la possibilità di estinguerla, le sottraiamo il suo valore comunicativo. Un valore grande, dal momento che si manifesta con una esplicita forza verbale, gestuale o entrambe le cose. Con la provocazione la persona esce allo scoperto, si manifesta all'altro, e dietro la copertura del tema provocatorio, possiamo tentare di incontrare le istanze dell'altro disabile.
La provocazione è un dissenso. E nel dissenso il soggetto esiste, o avverte di esistere.
Ammettiamolo pure come problema, ma un problema che non va soppresso, va mantenuto. Non soffochiamo questo strumento di rottura con l'uniformità, con l'unione, con una complicità fasulla, accondiscendente.
Nella provocazione possiamo trovare un germe di coscienza del soggetto disabile intellettivo; che vibra, si agita nel proprio vivere insoddisfatto, contrastante col proprio essere. Sporge dalla nebbia la soggettività di chi si sta ribellando. La persona disabile ha incontrato i suoi mali; lasciamoglieli. Per dirla con Pirandello, stiamogli accanto, non contro. E' grazie a questi mali che il disabile ha trovato la forza di opporsi, di proporsi. Di emergere a sé stesso, oltre che a noi.
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