Ho colto l’occasione della quiete agostana per riordinare alcune note, da un po’ accantonate, sulla questione istituzione/deistituzionalizzazione in psichiatria[i], un tema sul quale non è forse inutile, in primo luogo per me, ritornare prima della ripresa del lavoro dopo l’interruzione. Interrompere e riprendere può, infatti, essere l’occasione buona per apportare qualche cambiamento a ciò che è sempre a rischio di routinarietà, ed è in questo spirito che forse questi stimoli – pizzicati come si potrà vedere un po’ arbitrariamente qua e là nelle pagine della psichiatria di ieri e di oggi – pure con il loro procedere saltellante e rapsodico, possono essere proposti.
La definizione di Istituzione offerta dall’Enciclopedia Treccani può essere un buon punto di partenza: «Ordinamento, nel campo sociale, religioso, morale, politico, fondato su una legge o accettato per tradizione, e le stesse norme, consuetudini, leggi fondamentali su cui si regge un’organizzazione (scherz.: «di persona o cosa che è stata a lungo presente o attiva in un luogo, costituendone quindi una caratteristica»)». Mi pare che quest’ultima accezione, caratterizzata dalla maggiore libertà, intuitività e creatività del motto di spirito, sia per noi preziosa, in quanto sembra implicitamente alludere a una tendenza a sedimentare, pietrificare, rendere stabile, fisso, immobile.
Dobbiamo la descrizione di uno dei primi esempi di istituzione specificamente dedicata alla follia a Gio. Antonio Menavino, un ragazzo di Voltri (oggi un quartiere di Genova), imbarcato come mozzo sulla nave del padre e fatto prigioniero dai pirati barbareschi. Condotto schiavo a Costantinopoli, ebbe modo di visitare e descrivere all’inizio del XVI secolo tra tante altre curiosità “un certo luogo chiamato Timarahane, dove si castigano i matti”[ii]: «Fece fare Sultan Paiaxit un luogo nella citta di Costanti[no]poli, dove si dovessero menare i pazzi, accioche non andassero per la citta, facendo pazzie. Questo è fatto à modo d'uno hospitale; dove sono intorno à cento cinquanta guardiani in loro custodia, & sonovi medicine, & altre cose per loro bisogni».
Questo breve passaggio, che corrisponde all’incipit della descrizione inevitabilmente naif (si tratta di un mozzo adolescente proveniente da un luogo dove la possibilità stessa del manicomio non era ancora stata concepita) di questa istituzione protopsichiatrica, ci consente di dare una risposta ad alcune prime domande che spontaneamente ci interpellano.
D.: Chi ha fondato quel certo luogo?
R.: Sultan Pajaxit, cioè il potere politico.
D.: Cosa si fa in quel certo luogo?
R.: Si «castigano» i matti; il carattere ambivalente dell’istituzione psichiatrica concepita per curare ma spesso percepita – in particolare da chi vi è ospite – come un castigo, mi pare qui colto con straordinaria sensibilità dal giovane mozzo, che guarda questo luogo che è per lui una novità evidentemente davvero privo di pregiudizi.
D.: Chi deve essere menato a quel certo luogo?
R.: Coloro che vanno per la città, facendo pazzie. Una definizione della malattia mentale assai simile, nel suo carattere evidentemente tautologico, a quella che Shakespeare metterà, una settantina di anni dopo, in bocca a Polonio nell’Amleto: «Folle lo chiamo perché, per definire la vera follia, che cos’è, se non essere nient’altro che folle?»[iii].
D.: Qual è la natura di quel luogo?
R. E’ fatto «a modo» di un ospedale. «A modo», già. E’ simile a un ospedale, la cosa più prossima alla quale Gio. Antonio possa paragonarlo, ma non è un ospedale. Così come la follia può essere letta come malattia, ma non è proprio una malattia, o forse non solo quello. Così come la psichiatria, un giorno, sarà una disciplina medica, ma non potrà mai essere “soltanto” una disciplina medica. E così, quando la legge 180 porterà la psichiatria fuori dal manicomio, ancora l’SPDC rimarrà sempre un servizio che è dentro l’ospedale generale, ma è anche altra cosa rispetto all’Ospedale Generale[iv].
D.: Cosa si fa in quel luogo?
R.: Si fa «custodia» dei matti. Non solo si curano dunque (questo potrebbe essere fatto anche altrove), ma principalmente custodia nei momenti nei quali eccedono nel “fare pazzie”.
D.: Quali sono gli strumenti di intervento in quel luogo?
R. Medicine, e «altre cose». E’ noto infatti che in ambiente arabo e ottomano trovavano ampio utilizzo, ad esempio, la musicoterapia e i racconti di storie. Le medicine, evidentemente, già allora si riteneva che da sole non bastassero.
Occorrerà attendere il secolo successivo perché istituzioni per custodire (o castigare?) i pazzi sorgano in Occidente; come scrive Michel Foucault: «L’età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la Follia, le cui voci erano appena state liberate dalla Renaissance, ma la cui violenza era stata già dominata. E’ noto che il XVII secolo ha creato grandi case di internamento; ma è meno noto che in pochi mesi più di un parigino su cento ci si è trovato rinchiuso»[v].
E occorrerà attendere un secolo e mezzo ancora perché a queste istituzioni, nate per custodire, venga attribuita una più chiara finalità di curare, e un medico ne assuma la direzione; nasceva in quel momento la psichiatria da una triplice radice formata da ordine pubblico (questa era stata originariamente la funzione dell’istituzione psichiatrica, e da questo debito originario la psichiatria non può liberarsi, io credo); medicina e filosofia, perché medico e filosofo insieme, cultore di scienze naturali e scienze umane al tempo stesso, è questo particolare medico che si specializza nella conoscenza e nella cura del funzionamento della mente. E “Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale” si intitolerà, nell’anno 1800, il testo fondamentale e fondante in cui Philippe Pinel cerca di sintetizzare le più avanzate conoscenze del momento in psichiatria.
Il manicomio, “casa d’alienati” e moderna istituzione specializzata, sostituirà da quel momento nella custodia (e finalmente anche cura) dei folli i vecchi ospizi generalistici. Scrive Esquirol nel 1838: «Una casa d’alienati è uno strumento di guarigione; tra le mani di un medico abile, è l’agente terapeutico più potente contro le malattie mentali». L’istituzione dunque è luogo di custodia e strumento di guarigione, insieme. In questa frase sono contenuti due concetti importanti: quello che l’istituzione, certo nelle mani di un medico abile, è non solo un luogo ma anche uno strumento per la guarigione, anzi il più importante (la radice dell’idea che la deistituzionalizzazione possa a sua volta avere un valore “terapeutico”, a ben vedere, è già qui, implicitamente contenuta in quella che i meccanismi – istituzionali e quindi anche antiistituzionali – operanti in quella situazione, i luoghi e contesti cioè con la loro organizzazione e i ruoli giocati al loro interno, sono una parte importante della cura). Dire che una casa d’alienati può essere uno strumento di guarigione implica cioè anche il contrario; significa comunque dire che essere internati in una “casa d’alienati” non è indifferente, per il soggetto e per la sua evoluzione. L’altro concetto, al quale si presta in genere minore attenzione, è che le malattie mentali possono guarire[vi]; di lì a qualche decennio l’Ottocento europeo, incantato dal degerazionismo, la penserà diversamente.
La “casa d’alienati” ha alla base del suo funzionamento un ben noto tripode: isolare, dalla famiglia e dalla società perché se da esse è nata la malattia, solo fuori di esse – e anzi in una neofamiglia e in una neosocietà ideali e artificiali, istituzionali e progettate specificamente per la cura – può avvenire la guarigione; attivare, per distrarre dalla pericolosa fantasia, anticamera del delirio, e insieme per riabilitare alla vita di fuori (il lavoro innanzitutto), alla quale si ritornerà una volta guariti; classificare, distinguere cioè all’interno del magma caotico della follia raggruppamenti su base diagnostica e prognostica, e quindi bisogni diversi.
Lo stesso Esquirol, massimo propugnatore e divulgatore del manicomio a partire dal prototipo realizzato e ancor oggi visitabile a Charenton, però, nel 1821 era stato tra i primi a guardare con interesse al più importante esempio di approccio extraistituzionale alla follia, la secolare esperienza del villaggio di Geel, proponendola al dibattito internazionale tra gli specialisti[vii].
Oltre all’incontro della neonata disciplina con Geel, vorrei ricordare altri due casi che già nel corso dell’800 sembrano mettere in dubbio il reale carattere terapeutico dell’istituzione manicomiale con la sua organizzazione e disciplina. Il primo è la pubblicazione nel 1856 del volume Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi da parte dello psichiatra inglese John Conolly[viii]. Per Conolly, in particolare, gentilezza, attenzione, concordia di quella che poi sarebbe stata l’équipe sono gli elementi fondamentali dei quali risentirà l’evoluzione del paziente verso la guarigione anziché la cronicità: «La sicurezza e il buon comportamento dei pazienti dipendono completamente dalla cura e vigilanza ininterrotta degli infermieri; e al sistema repressivo va sostituito un metodo di cura sostenuto dalla serena collaborazione di ogni singolo dipendente, così che tutti siano gentili, protettivi e, per così dire, familiari. Per l’attuazione di questo piano è quindi indispensabile che tutto il personale sia concorde». Già Esquirol del resto diceva che lo strumento istituzionale della guarigione funziona solo se si è “abili” nell’utilizzarlo, e Conolly prende più chiaramente partito in favore di alcuni contenuti di questa “abilità”, e contro altri.
Il secondo caso è quello degli interventi dello psichiatra francese Evariste Marandon de Montyel a metà degli anni ’80 sugli Annales Médico-Psychologiques. Qui la contestazione dello strumento istituzionale esquiroliano si fa più esplicita e leggiamo così che il manicomio, con i suoi ritmi da prigione o da chiostro, fa degli psichiatri, nonostante le migliori intenzioni del mondo, dei fabbricanti di cronici. L’errore primo è identificato in uno dei pilastri sui quali Esquirol aveva eretto la psichiatria asilare, l’idea che l’isolamento sia terapeutico, e per rimediarvi Marandon de Montyel opera un ribaltamento: massima apertura al contatto con le famiglie; evitare al massimo simmetria e regolarità (insomma il “carattere istituzionale” degli spazi); evitare l’isolamento sociale e affettivo degli internati; evitare l’eccessivo rigore disciplinare; fare rassomigliare il più possibile – per coloro che non richiedano particolare controllo – il manicomio a un villaggio. Non è l’ordine dell’istituzione a guarire il disordine della follia, come in ortopedia[ix] l’essere vincolato a una stecca dritta può raddrizzare un arto distorto; ma un certo disordine, una certa sorpresa, una certa “non istituzionabilità” che è propria della vita sono altrettanto necessari, o la guarigione prospettata da Esquirol non potrà mai essere guarigione per la vita, ma solo nell’istituzione e per l’istituzione.
Mi pare interessante che tanto a Conolly che a Marandon de Montyel il gruppo basagliano guarderà nel 1967, dedicando a ciascuno di essi un capitolo del testo Che cos’è la psichiatria? (per la verità, dimostrandosi molto più generoso nel giudizio storico verso il primo di essi, rispetto al secondo)[x].
Anche nel corso del XX secolo, come per quello precedente, vorrei identificare due casi che mi paiono emblematici di questo lungo scricchiolare della macchina istituzionale in psichiatria e del convincimento del suo essere davvero strumento di guarigione, senza conoscere il quale sarebbe difficile comprendere il senso della teoria e della pratica della deistituzionalizzazione e l’intuizione del suo valore terapeutico cui approderà il gruppo di Basaglia.
Il primo è rappresentato dalle esperienze di comunità terapeutica durante la Seconda guerra mondiale; ciò che in esse avviene, nelle parole che Tom Main che fu tra i protagonisti di quella stagione dedica nel 1946 al primo esperimento condotto a Northfield dal maggiore Bion, è che: «Il medico non è più il padrone dei “suoi” pazienti: questi sono affidati alla comunità che deve curarli e a cui appartengono, come vi appartiene lui stesso (…). Si deve sottolineare qui che il medico, educato ad assumere un ruolo grandioso in mezzo ai malati, trova difficile rinunciare al suo potere, assumersi responsabilità sociali nell’ospedale e garantire sinceramente ai pazienti un ruolo indipendente e adulto. Ma anche per il resto del personale le cose non sono facili. E’ arduo vivere in un settore che comporta stress psicologici senza desiderare di far leva sull’autorità, senza soffocare la spontaneità, senza imporre la dipendenza, e soprattutto la legge e l’ordine»[xi].
Presupposti di questo approccio, basato sulla responsabilizzazione del paziente – nel quale quindi lo strumento istituzionale per la guarigione non è più nelle mani di un medico dalla cui abilità essa dipende ma in parte nelle sue – sono per il sociologo Rapaport (1960): senso di comunità, democratizzazione, permessivismo, confronto con la realtà (l’opposto cioè di: rigida separazione staff/internati; paternalismo medico; disciplina asilare; isolamento come protezione dalla realtà).
Il secondo caso è rappresentato dalla riflessione di Frantz Fanon, venutosi a trovare alla direzione di un ospedale di giorno neuropsichiatrico collocato all’interno dell’Ospedale generale di Tunisi alla fine degli anni ’50. Per Fanon (1959), la cui critica investe i limiti ancora presenti nella socioterapia francese nella forma applicata da Francois Tosquelles a Saint Alban, una delle situazioni più avanzate e interessanti in quel momento in Europa: «È necessario» – comunque anche in riferimento a quel contesto comunitario all’avanguardia, ma sempre istituzionale – «sottolineare d’altra parte che la socio-terapia istituzionale si fonda su istituzioni rigide, griglie strette e schemi stereotipati. Nella neo-società, infatti, non c’è invenzione: non c’è un dinamismo creatore, rinnovatore. Non ci sono delle vere scosse o crisi. L’istituzione rimane «cemento cadaverico». E poi ancora, rispetto alle strutture h 24: «L’incontro tra il medico e il paziente all’interno dell’ospedale diurno si configura [invece] come l’incontro tra due individui liberi. Questo è il presupposto necessario di ogni terapia e, in particolare, di quella psichiatrica»[xii].
Mi pare che questi passaggi “pizzicati” da due secoli di storia della psichiatria (altri avrebbero potuto ovviamente esserlo) diano il segno di come i limiti e i rischi dell’istituzionalizzazione, che all’inizio del XIX secolo era parsa strumento di guarigione, si siano chiariti nel corso degli anni e abbiano costituito un’ombra antiistituzionale – un dubitare della reale beneficialità dell’istituzione – che, a ben guardare, accompagna questa disciplina dalla nascita. E’ una strada che parte almeno dalla vista di Esquirol e Voisin a Geel nel 1821, lungo la quale la “negazione” dell’istituzione nel titolo del testo emblematico dell’esperienza goriziana sarà in certo senso l’approdo. Scriveva nel 1964 Basaglia: «L’ovvia scoperta della libertà cui lo psichiatra sembra essere giunto, presuppone in lui la conoscenza della sua personale libertà: il superamento, cioè, di un rapporto oggettivo con il paziente , nel quale non può vedere solo un isolato oggetto di studio o di analisi che gli si offre in una relazione alienante di servo-signore, ma un soggetto in cui può riconoscere la sua personale soggettività e libertà. Se la società, le organizzazioni amministrative da cui i manicomi dipendono, sembrano vivere in un costante culto del pessimismo, lo psichiatra non può esserne il portavoce disinteressato. Se il fatalismo verso la malattia mentale poteva essere giustificato in assenza di efficaci terapie, dopo l’avvento dell’era farmacologica esso diventa inesplicabile (…). Riuscirà il principio di libertà a scalzare quello di autorità? Le premesse della comunità terapeutica sembrano darci ragione perché pazienti, medici e personale sono tutti coinvolti nella stessa crisi e in essa trovano la loro comune base umana». E poi nel 1967: «Un’istituzione che intende essere terapeutica, deve diventare una comunità (…) dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo, o di chi dà e chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte; dove tutti i membri della comunità possano – attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni – ricostruire il proprio corpo-proprio e il proprio ruolo»[xiii].
Si tratta di due richiami (anche in questo caso altri si sarebbero prestati) emblematici di alcune questioni più attuali della deistituzionalizzazione, che pur essendo state poste in buona parte come si è visto nella storia della psichiatria a partire dal suo nascere, non perdono d’attualità. La deistituzionalizzazione – la libertà, quindi – è terapeutica, almeno quanto può esserlo l’istituzione; ma deve essere concretamente perseguita e realizzata nel lavoro, tutti i giorni rispetto a quello che pare una naturale tendenza a proteggersi nell’istituzione – che, certo, non è nata per caso – di chi lavora a contatto con la follia. Deistituzionalizzazione quindi è questione che si gioca giorno per giorno. Un movimento pendolare istituzionalizzazione/deistituzionalizzazione che non va solo e sempre in avanti; una salita che ad ogni attimo è a rischio di farci franare all’indietro, anche in modo rovinoso. Una pratica che ogni giorno ricomincia, come l’attività del giardiniere che vuole combattere la crescita dell’erbaccia, e che anch’essa si può fare solo stando sul campo e sporcandosi le mani di terra; trovo fondamentale quanto scriveva Antonio Slavich a proposito delle ragioni del diverso esito del lavoro di Franco Basaglia a Gorizia e a Parma: «Si sarebbe visto subito quale effetto dirompente poteva avere la presenza reale del direttore nei reparti (chi scrive aveva esperienza della diversità di effetti tra le assenze di Basaglia direttore a Parma, e le sue presenze continue a Gorizia)» [xiv].
Il pendolo istituzione/deistituzionalizzazione è questione centrale che si ripropone ogni giorno nel nostro operare: lo è sempre stata, lo rimane. Ritornerà a essere attuale anche quest’anno che si apre dopo l’interruzione delle ferie. Quando sottolineiamo impropriamente (cioè al di fuori di ciò che è sapere tecnico) la «specificità di ruolo» o l’identità «professionale» come forme di autorassicurazione e garanzia corporativa. Quando la differenza tra “noi” (lo staff) e “loro”, i pazienti, tende insensibilmente a farsi differenza antropologica. Quando rischiamo di cedere a maleducazione, familiarizzazione inferiorizzante, paternalismo. Quando l’istituzione, le regole, i luoghi tendono a prevalere sui percorsi, e cadiamo nell’irrigidimento fine a se stesso, nel limitare la (terapeutica!) libertà dell’altro senza che ve ne sia reale necessità, o attuiamo forme di coazione senza che siano davvero indispensabili[xv]. Quando chiudiamo una porta che con un po’ più di fatica potremmo tenere aperta, e soprattutto quando è una porta che non serve a tenere dentro, ma a tener fuori. Quando cediamo alla serialità, la standardizzazione e le generalizzazioni, pur sapendo che non si possono incontrare e curare altro che singole persone. Quando sulla bilancia che l’istituzione rappresenta tra le esigenze del suo funzionamento e di ciò che è più “comodo” per lo staff e per la società, e le esigenze della libertà e il benessere della persona, a pesare di più sono le prime. Quando fare psichiatria significa più “riportare all’ordine” che rispettare quel certo diritto che infondo è di ciascuno a un “disordine possibile”. Quando ci prendiamo la responsabilità di sospendere l’impatto tra la persona e il mondo, il mondo che ci è comune, senza preoccuparci di quanto potrebbe poi essere difficile riportarla a quell’impatto. Quando percorriamo nelle nostre pratiche la strada, sempre in discesa, verso l’istituzionalizzazione, e rinunciamo a controbilanciarla con una almeno uguale spinta, sempre faticosa e in salita, verso la deistituzionalizzazione, dimenticandoci che forse è proprio essa che, parafrasando e in certo modo ribaltando Esquirol: “nelle mani di un operatore abile è l’agente terapeutico” – due secoli di psichiatria ce ne rendono consapevoli – “più potente contro le malattie mentali” (il loro esito nel perpetuarsi della perdita di speranza, l’isolamento, l’esclusione, la cronicità e la disabilità).
Nell’immagine: Manicomio di Charenton, oggi nei sobborghi di Parigi: particolare del primo cortile con in basso a sinistra la statua di Esquirol, seduto con ai piedi una paziente.
La definizione di Istituzione offerta dall’Enciclopedia Treccani può essere un buon punto di partenza: «Ordinamento, nel campo sociale, religioso, morale, politico, fondato su una legge o accettato per tradizione, e le stesse norme, consuetudini, leggi fondamentali su cui si regge un’organizzazione (scherz.: «di persona o cosa che è stata a lungo presente o attiva in un luogo, costituendone quindi una caratteristica»)». Mi pare che quest’ultima accezione, caratterizzata dalla maggiore libertà, intuitività e creatività del motto di spirito, sia per noi preziosa, in quanto sembra implicitamente alludere a una tendenza a sedimentare, pietrificare, rendere stabile, fisso, immobile.
Dobbiamo la descrizione di uno dei primi esempi di istituzione specificamente dedicata alla follia a Gio. Antonio Menavino, un ragazzo di Voltri (oggi un quartiere di Genova), imbarcato come mozzo sulla nave del padre e fatto prigioniero dai pirati barbareschi. Condotto schiavo a Costantinopoli, ebbe modo di visitare e descrivere all’inizio del XVI secolo tra tante altre curiosità “un certo luogo chiamato Timarahane, dove si castigano i matti”[ii]: «Fece fare Sultan Paiaxit un luogo nella citta di Costanti[no]poli, dove si dovessero menare i pazzi, accioche non andassero per la citta, facendo pazzie. Questo è fatto à modo d'uno hospitale; dove sono intorno à cento cinquanta guardiani in loro custodia, & sonovi medicine, & altre cose per loro bisogni».
Questo breve passaggio, che corrisponde all’incipit della descrizione inevitabilmente naif (si tratta di un mozzo adolescente proveniente da un luogo dove la possibilità stessa del manicomio non era ancora stata concepita) di questa istituzione protopsichiatrica, ci consente di dare una risposta ad alcune prime domande che spontaneamente ci interpellano.
D.: Chi ha fondato quel certo luogo?
R.: Sultan Pajaxit, cioè il potere politico.
D.: Cosa si fa in quel certo luogo?
R.: Si «castigano» i matti; il carattere ambivalente dell’istituzione psichiatrica concepita per curare ma spesso percepita – in particolare da chi vi è ospite – come un castigo, mi pare qui colto con straordinaria sensibilità dal giovane mozzo, che guarda questo luogo che è per lui una novità evidentemente davvero privo di pregiudizi.
D.: Chi deve essere menato a quel certo luogo?
R.: Coloro che vanno per la città, facendo pazzie. Una definizione della malattia mentale assai simile, nel suo carattere evidentemente tautologico, a quella che Shakespeare metterà, una settantina di anni dopo, in bocca a Polonio nell’Amleto: «Folle lo chiamo perché, per definire la vera follia, che cos’è, se non essere nient’altro che folle?»[iii].
D.: Qual è la natura di quel luogo?
R. E’ fatto «a modo» di un ospedale. «A modo», già. E’ simile a un ospedale, la cosa più prossima alla quale Gio. Antonio possa paragonarlo, ma non è un ospedale. Così come la follia può essere letta come malattia, ma non è proprio una malattia, o forse non solo quello. Così come la psichiatria, un giorno, sarà una disciplina medica, ma non potrà mai essere “soltanto” una disciplina medica. E così, quando la legge 180 porterà la psichiatria fuori dal manicomio, ancora l’SPDC rimarrà sempre un servizio che è dentro l’ospedale generale, ma è anche altra cosa rispetto all’Ospedale Generale[iv].
D.: Cosa si fa in quel luogo?
R.: Si fa «custodia» dei matti. Non solo si curano dunque (questo potrebbe essere fatto anche altrove), ma principalmente custodia nei momenti nei quali eccedono nel “fare pazzie”.
D.: Quali sono gli strumenti di intervento in quel luogo?
R. Medicine, e «altre cose». E’ noto infatti che in ambiente arabo e ottomano trovavano ampio utilizzo, ad esempio, la musicoterapia e i racconti di storie. Le medicine, evidentemente, già allora si riteneva che da sole non bastassero.
Occorrerà attendere il secolo successivo perché istituzioni per custodire (o castigare?) i pazzi sorgano in Occidente; come scrive Michel Foucault: «L’età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la Follia, le cui voci erano appena state liberate dalla Renaissance, ma la cui violenza era stata già dominata. E’ noto che il XVII secolo ha creato grandi case di internamento; ma è meno noto che in pochi mesi più di un parigino su cento ci si è trovato rinchiuso»[v].
E occorrerà attendere un secolo e mezzo ancora perché a queste istituzioni, nate per custodire, venga attribuita una più chiara finalità di curare, e un medico ne assuma la direzione; nasceva in quel momento la psichiatria da una triplice radice formata da ordine pubblico (questa era stata originariamente la funzione dell’istituzione psichiatrica, e da questo debito originario la psichiatria non può liberarsi, io credo); medicina e filosofia, perché medico e filosofo insieme, cultore di scienze naturali e scienze umane al tempo stesso, è questo particolare medico che si specializza nella conoscenza e nella cura del funzionamento della mente. E “Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale” si intitolerà, nell’anno 1800, il testo fondamentale e fondante in cui Philippe Pinel cerca di sintetizzare le più avanzate conoscenze del momento in psichiatria.
Il manicomio, “casa d’alienati” e moderna istituzione specializzata, sostituirà da quel momento nella custodia (e finalmente anche cura) dei folli i vecchi ospizi generalistici. Scrive Esquirol nel 1838: «Una casa d’alienati è uno strumento di guarigione; tra le mani di un medico abile, è l’agente terapeutico più potente contro le malattie mentali». L’istituzione dunque è luogo di custodia e strumento di guarigione, insieme. In questa frase sono contenuti due concetti importanti: quello che l’istituzione, certo nelle mani di un medico abile, è non solo un luogo ma anche uno strumento per la guarigione, anzi il più importante (la radice dell’idea che la deistituzionalizzazione possa a sua volta avere un valore “terapeutico”, a ben vedere, è già qui, implicitamente contenuta in quella che i meccanismi – istituzionali e quindi anche antiistituzionali – operanti in quella situazione, i luoghi e contesti cioè con la loro organizzazione e i ruoli giocati al loro interno, sono una parte importante della cura). Dire che una casa d’alienati può essere uno strumento di guarigione implica cioè anche il contrario; significa comunque dire che essere internati in una “casa d’alienati” non è indifferente, per il soggetto e per la sua evoluzione. L’altro concetto, al quale si presta in genere minore attenzione, è che le malattie mentali possono guarire[vi]; di lì a qualche decennio l’Ottocento europeo, incantato dal degerazionismo, la penserà diversamente.
La “casa d’alienati” ha alla base del suo funzionamento un ben noto tripode: isolare, dalla famiglia e dalla società perché se da esse è nata la malattia, solo fuori di esse – e anzi in una neofamiglia e in una neosocietà ideali e artificiali, istituzionali e progettate specificamente per la cura – può avvenire la guarigione; attivare, per distrarre dalla pericolosa fantasia, anticamera del delirio, e insieme per riabilitare alla vita di fuori (il lavoro innanzitutto), alla quale si ritornerà una volta guariti; classificare, distinguere cioè all’interno del magma caotico della follia raggruppamenti su base diagnostica e prognostica, e quindi bisogni diversi.
Lo stesso Esquirol, massimo propugnatore e divulgatore del manicomio a partire dal prototipo realizzato e ancor oggi visitabile a Charenton, però, nel 1821 era stato tra i primi a guardare con interesse al più importante esempio di approccio extraistituzionale alla follia, la secolare esperienza del villaggio di Geel, proponendola al dibattito internazionale tra gli specialisti[vii].
Oltre all’incontro della neonata disciplina con Geel, vorrei ricordare altri due casi che già nel corso dell’800 sembrano mettere in dubbio il reale carattere terapeutico dell’istituzione manicomiale con la sua organizzazione e disciplina. Il primo è la pubblicazione nel 1856 del volume Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi da parte dello psichiatra inglese John Conolly[viii]. Per Conolly, in particolare, gentilezza, attenzione, concordia di quella che poi sarebbe stata l’équipe sono gli elementi fondamentali dei quali risentirà l’evoluzione del paziente verso la guarigione anziché la cronicità: «La sicurezza e il buon comportamento dei pazienti dipendono completamente dalla cura e vigilanza ininterrotta degli infermieri; e al sistema repressivo va sostituito un metodo di cura sostenuto dalla serena collaborazione di ogni singolo dipendente, così che tutti siano gentili, protettivi e, per così dire, familiari. Per l’attuazione di questo piano è quindi indispensabile che tutto il personale sia concorde». Già Esquirol del resto diceva che lo strumento istituzionale della guarigione funziona solo se si è “abili” nell’utilizzarlo, e Conolly prende più chiaramente partito in favore di alcuni contenuti di questa “abilità”, e contro altri.
Il secondo caso è quello degli interventi dello psichiatra francese Evariste Marandon de Montyel a metà degli anni ’80 sugli Annales Médico-Psychologiques. Qui la contestazione dello strumento istituzionale esquiroliano si fa più esplicita e leggiamo così che il manicomio, con i suoi ritmi da prigione o da chiostro, fa degli psichiatri, nonostante le migliori intenzioni del mondo, dei fabbricanti di cronici. L’errore primo è identificato in uno dei pilastri sui quali Esquirol aveva eretto la psichiatria asilare, l’idea che l’isolamento sia terapeutico, e per rimediarvi Marandon de Montyel opera un ribaltamento: massima apertura al contatto con le famiglie; evitare al massimo simmetria e regolarità (insomma il “carattere istituzionale” degli spazi); evitare l’isolamento sociale e affettivo degli internati; evitare l’eccessivo rigore disciplinare; fare rassomigliare il più possibile – per coloro che non richiedano particolare controllo – il manicomio a un villaggio. Non è l’ordine dell’istituzione a guarire il disordine della follia, come in ortopedia[ix] l’essere vincolato a una stecca dritta può raddrizzare un arto distorto; ma un certo disordine, una certa sorpresa, una certa “non istituzionabilità” che è propria della vita sono altrettanto necessari, o la guarigione prospettata da Esquirol non potrà mai essere guarigione per la vita, ma solo nell’istituzione e per l’istituzione.
Mi pare interessante che tanto a Conolly che a Marandon de Montyel il gruppo basagliano guarderà nel 1967, dedicando a ciascuno di essi un capitolo del testo Che cos’è la psichiatria? (per la verità, dimostrandosi molto più generoso nel giudizio storico verso il primo di essi, rispetto al secondo)[x].
Anche nel corso del XX secolo, come per quello precedente, vorrei identificare due casi che mi paiono emblematici di questo lungo scricchiolare della macchina istituzionale in psichiatria e del convincimento del suo essere davvero strumento di guarigione, senza conoscere il quale sarebbe difficile comprendere il senso della teoria e della pratica della deistituzionalizzazione e l’intuizione del suo valore terapeutico cui approderà il gruppo di Basaglia.
Il primo è rappresentato dalle esperienze di comunità terapeutica durante la Seconda guerra mondiale; ciò che in esse avviene, nelle parole che Tom Main che fu tra i protagonisti di quella stagione dedica nel 1946 al primo esperimento condotto a Northfield dal maggiore Bion, è che: «Il medico non è più il padrone dei “suoi” pazienti: questi sono affidati alla comunità che deve curarli e a cui appartengono, come vi appartiene lui stesso (…). Si deve sottolineare qui che il medico, educato ad assumere un ruolo grandioso in mezzo ai malati, trova difficile rinunciare al suo potere, assumersi responsabilità sociali nell’ospedale e garantire sinceramente ai pazienti un ruolo indipendente e adulto. Ma anche per il resto del personale le cose non sono facili. E’ arduo vivere in un settore che comporta stress psicologici senza desiderare di far leva sull’autorità, senza soffocare la spontaneità, senza imporre la dipendenza, e soprattutto la legge e l’ordine»[xi].
Presupposti di questo approccio, basato sulla responsabilizzazione del paziente – nel quale quindi lo strumento istituzionale per la guarigione non è più nelle mani di un medico dalla cui abilità essa dipende ma in parte nelle sue – sono per il sociologo Rapaport (1960): senso di comunità, democratizzazione, permessivismo, confronto con la realtà (l’opposto cioè di: rigida separazione staff/internati; paternalismo medico; disciplina asilare; isolamento come protezione dalla realtà).
Il secondo caso è rappresentato dalla riflessione di Frantz Fanon, venutosi a trovare alla direzione di un ospedale di giorno neuropsichiatrico collocato all’interno dell’Ospedale generale di Tunisi alla fine degli anni ’50. Per Fanon (1959), la cui critica investe i limiti ancora presenti nella socioterapia francese nella forma applicata da Francois Tosquelles a Saint Alban, una delle situazioni più avanzate e interessanti in quel momento in Europa: «È necessario» – comunque anche in riferimento a quel contesto comunitario all’avanguardia, ma sempre istituzionale – «sottolineare d’altra parte che la socio-terapia istituzionale si fonda su istituzioni rigide, griglie strette e schemi stereotipati. Nella neo-società, infatti, non c’è invenzione: non c’è un dinamismo creatore, rinnovatore. Non ci sono delle vere scosse o crisi. L’istituzione rimane «cemento cadaverico». E poi ancora, rispetto alle strutture h 24: «L’incontro tra il medico e il paziente all’interno dell’ospedale diurno si configura [invece] come l’incontro tra due individui liberi. Questo è il presupposto necessario di ogni terapia e, in particolare, di quella psichiatrica»[xii].
Mi pare che questi passaggi “pizzicati” da due secoli di storia della psichiatria (altri avrebbero potuto ovviamente esserlo) diano il segno di come i limiti e i rischi dell’istituzionalizzazione, che all’inizio del XIX secolo era parsa strumento di guarigione, si siano chiariti nel corso degli anni e abbiano costituito un’ombra antiistituzionale – un dubitare della reale beneficialità dell’istituzione – che, a ben guardare, accompagna questa disciplina dalla nascita. E’ una strada che parte almeno dalla vista di Esquirol e Voisin a Geel nel 1821, lungo la quale la “negazione” dell’istituzione nel titolo del testo emblematico dell’esperienza goriziana sarà in certo senso l’approdo. Scriveva nel 1964 Basaglia: «L’ovvia scoperta della libertà cui lo psichiatra sembra essere giunto, presuppone in lui la conoscenza della sua personale libertà: il superamento, cioè, di un rapporto oggettivo con il paziente , nel quale non può vedere solo un isolato oggetto di studio o di analisi che gli si offre in una relazione alienante di servo-signore, ma un soggetto in cui può riconoscere la sua personale soggettività e libertà. Se la società, le organizzazioni amministrative da cui i manicomi dipendono, sembrano vivere in un costante culto del pessimismo, lo psichiatra non può esserne il portavoce disinteressato. Se il fatalismo verso la malattia mentale poteva essere giustificato in assenza di efficaci terapie, dopo l’avvento dell’era farmacologica esso diventa inesplicabile (…). Riuscirà il principio di libertà a scalzare quello di autorità? Le premesse della comunità terapeutica sembrano darci ragione perché pazienti, medici e personale sono tutti coinvolti nella stessa crisi e in essa trovano la loro comune base umana». E poi nel 1967: «Un’istituzione che intende essere terapeutica, deve diventare una comunità (…) dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo, o di chi dà e chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte; dove tutti i membri della comunità possano – attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni – ricostruire il proprio corpo-proprio e il proprio ruolo»[xiii].
Si tratta di due richiami (anche in questo caso altri si sarebbero prestati) emblematici di alcune questioni più attuali della deistituzionalizzazione, che pur essendo state poste in buona parte come si è visto nella storia della psichiatria a partire dal suo nascere, non perdono d’attualità. La deistituzionalizzazione – la libertà, quindi – è terapeutica, almeno quanto può esserlo l’istituzione; ma deve essere concretamente perseguita e realizzata nel lavoro, tutti i giorni rispetto a quello che pare una naturale tendenza a proteggersi nell’istituzione – che, certo, non è nata per caso – di chi lavora a contatto con la follia. Deistituzionalizzazione quindi è questione che si gioca giorno per giorno. Un movimento pendolare istituzionalizzazione/deistituzionalizzazione che non va solo e sempre in avanti; una salita che ad ogni attimo è a rischio di farci franare all’indietro, anche in modo rovinoso. Una pratica che ogni giorno ricomincia, come l’attività del giardiniere che vuole combattere la crescita dell’erbaccia, e che anch’essa si può fare solo stando sul campo e sporcandosi le mani di terra; trovo fondamentale quanto scriveva Antonio Slavich a proposito delle ragioni del diverso esito del lavoro di Franco Basaglia a Gorizia e a Parma: «Si sarebbe visto subito quale effetto dirompente poteva avere la presenza reale del direttore nei reparti (chi scrive aveva esperienza della diversità di effetti tra le assenze di Basaglia direttore a Parma, e le sue presenze continue a Gorizia)» [xiv].
Il pendolo istituzione/deistituzionalizzazione è questione centrale che si ripropone ogni giorno nel nostro operare: lo è sempre stata, lo rimane. Ritornerà a essere attuale anche quest’anno che si apre dopo l’interruzione delle ferie. Quando sottolineiamo impropriamente (cioè al di fuori di ciò che è sapere tecnico) la «specificità di ruolo» o l’identità «professionale» come forme di autorassicurazione e garanzia corporativa. Quando la differenza tra “noi” (lo staff) e “loro”, i pazienti, tende insensibilmente a farsi differenza antropologica. Quando rischiamo di cedere a maleducazione, familiarizzazione inferiorizzante, paternalismo. Quando l’istituzione, le regole, i luoghi tendono a prevalere sui percorsi, e cadiamo nell’irrigidimento fine a se stesso, nel limitare la (terapeutica!) libertà dell’altro senza che ve ne sia reale necessità, o attuiamo forme di coazione senza che siano davvero indispensabili[xv]. Quando chiudiamo una porta che con un po’ più di fatica potremmo tenere aperta, e soprattutto quando è una porta che non serve a tenere dentro, ma a tener fuori. Quando cediamo alla serialità, la standardizzazione e le generalizzazioni, pur sapendo che non si possono incontrare e curare altro che singole persone. Quando sulla bilancia che l’istituzione rappresenta tra le esigenze del suo funzionamento e di ciò che è più “comodo” per lo staff e per la società, e le esigenze della libertà e il benessere della persona, a pesare di più sono le prime. Quando fare psichiatria significa più “riportare all’ordine” che rispettare quel certo diritto che infondo è di ciascuno a un “disordine possibile”. Quando ci prendiamo la responsabilità di sospendere l’impatto tra la persona e il mondo, il mondo che ci è comune, senza preoccuparci di quanto potrebbe poi essere difficile riportarla a quell’impatto. Quando percorriamo nelle nostre pratiche la strada, sempre in discesa, verso l’istituzionalizzazione, e rinunciamo a controbilanciarla con una almeno uguale spinta, sempre faticosa e in salita, verso la deistituzionalizzazione, dimenticandoci che forse è proprio essa che, parafrasando e in certo modo ribaltando Esquirol: “nelle mani di un operatore abile è l’agente terapeutico” – due secoli di psichiatria ce ne rendono consapevoli – “più potente contro le malattie mentali” (il loro esito nel perpetuarsi della perdita di speranza, l’isolamento, l’esclusione, la cronicità e la disabilità).
Nell’immagine: Manicomio di Charenton, oggi nei sobborghi di Parigi: particolare del primo cortile con in basso a sinistra la statua di Esquirol, seduto con ai piedi una paziente.
[i] Questi ragionamenti relativi a istituzione e deistituzionalizzazione nella pratica dello psichiatra sono stati originariamente presentati in: P.F. Peloso, Architetture della perfezione e spazi di vita, in: Comunità: natura, cultura … terapia (a cura di C. Conforto, G. Giusto, P. Pisseri, G. Berruti), Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 80-130, e poi approfonditi in una serie di lavori dedicati a temi collegati, che saranno segnalati quando necessario. Nel 2013 mi sono trovato in due occasioni ad approfondirli: il corso di formazione di Psichiatria Democratica «La crisi e il trattamento della grave sofferenza mentale» tenutosi a Roma il 26 e 27 settembre 2013, durante il quale ho sviluppato il tema “Le nuove (vecchie) forme di istituzionalizzazione delle pratiche e dei saperi”, e il seminario sull’identità dello psichiatra della componente territoriale della Società Italiana di Psichiatria tenutosi ad Abano terme i successivi 25 e 26 ottobre, dove hanno costituito una delle due relazioni introduttive con il titolo “L’identità e il ruolo dello psichiatra. Appunti sull’evoluzione della figura dello psichiatra all’interno delle sue istituzioni” (l’altra, relativa al valore della psicopatologia nell’identità dello psichiatra, era assegnata a Lodovico Cappellari). La parte del materiale che qui propongo è relativa all’istituzionalizzazione delle pratiche; segnalo che un’altra, relativa all’istituzionalizzazione dei saperi, è in corso di pubblicazione negli Atti del convegno «Nosografia e diagnosi nella storia della psichiatria» (Civitella del Lago [TR], 13-14 giugno 2013) sul prossimo numero della Rivista Italiana di Storia della Medicina con il titolo: “Il bosco incantato. Nosografia e diagnosi psichiatrica tra storia e attualità”.
[ii] Cfr.: P.F. Peloso, Contributo di un mercante genovese alla conoscenza delle istituzioni psichiatriche del XVI secolo, Révue des Etudes sud-est éuropéennes, XXXI, 1993, pp. 137-144; P.F. Peloso, Hospital care of madness in the Turk sixteenth century according to the witness of G.A. Menavino from Genoa, History of Psychiatry, IX, 1998, pp. 35-38.
[iii] Amleto, Atto II, Scena II.
[iv] Sulla questione rimando a: A.M. Ferro, P.F. Peloso, Il percorso labirintico del SPDC tra territorio ed ospedale, in: La bottega della psichiatria. Dialoghi sull’operare psichiatrico a vent’anni dalla legge 180 (a cura di A.M. Ferro, G. Jervis), Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 168-175.
[v] M. Foucault, Storia della psichiatria nell’età classica (1961), Milano, Rizzoli, 2011.
[vi] Cfr.: P.F. Peloso, S. Valli e coll., L’idea di guarigione nella storia della psichiatria, in: L. Barbieri, L. Basso, I. Boggian, D. Lamonaca, S. Merlin, P.F. Peloso: Storie di recovery. Percorsi ed esperienze nella riabilitazione psichiatrica, Trento, Erikson Live, 2013, pp. 9-21.
[vii] Per considerazioni più articolate sull’esperienza di Geel e i suoi rapporti con la psichiatria medica rimando ai contributi personali: P.F. Peloso, Psichiatri a scuola dai contadini? Il “miracolo” di Geel tra devozione, integrazione e terapia dei folli, Humanitas, LXX, 2015, n. 3, pp. 379-388. Nonché: P.F. Peloso, L. Basso, D. Lamonaca, C. Maberino, La vita: fattore terapeutico o antiterapeutico?, Noos, XVI, 2010, n. 1, pp. 29-44.
[viii] J. Conolly, Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi (1856), Torino, Einaudi, 1976.
[ix] Sul rapporto tra psichiatria e ortopedia vedi: R. Castel, L’ordine psichiatrico. L’età d’oro dell’alienismo (1976), Milano, Feltrinelli, 1980.
[x] F. Basaglia (a cura di), Che cos’è la psichiatria (1967), Torino, Einaudi, 1973.
[xi] T. Main, La Comunità Terapeutica e altri saggi psicoanalitici (1983), Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992.
[xii] F. Fanon, Tunisi 1959: un esperimento di ospedalizzazione diurna in psichiatria (ed. it. a cura di P.F. Peloso), Studi culturali, II, 2005 n. 2, pp. 291-311; F. Fanon, Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale (a curadi R. Beneduce), Verona, Ombre Corte, 2011.
[xiii] F. Basaglia, Scritti, Torino, Einaudi, 1980.
[xiv] Slavich A., La scopa meravigliante. Preparativi per la legge 180 a Ferrara e dintorni 1971-1978, Roma, Editori riuniti, 2003.
[xv] Rimando sull’argomento, in questa stessa rubrica, a: La coazione va sempre evitata. Relazione al Congresso PSIVE 2016.
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