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Psichiatria psicodinamica, psicofarmacologia, medicina generale, psicoanalisi

27 Apr 19

A cura di Sabino Nanni

Pur essendo "off topics" rispetto ai temi trattati in questa rubrica, ho ritenuto opportuno chiarire la posizione del sottoscritto riguardo all'applicazione, nella pratica clinica, di quanto viene trattato qui sul piano teorico.
Come si pone uno psichiatra di formazione psicoanalitica (sensibile, come tale, ai suggerimenti dell'Arte) nei confronti della psicoanalisi stessa, della psicofarmacologia, della medicina generale?
Per illustrare la mia opinione (in modo che il lettore sappia con chi ha a che fare quando si confronta coi miei scritti) ho riportato, qui sotto, uno stralcio, tratto da un mio articolo di qualche anno fa (pubblicazione reperibile in http://www.psychiatryonline.it/node/5821 ).
Eccolo:


Per uno psichiatra clinico, come chi scrive, la psicoanalisi è un importante “laboratorio di ricerca” paragonabile alla ricerca sui farmaci. Egli sa che, in entrambi i tipi d’indagine, le condizioni in cui si trova ad operare il ricercatore sono diverse da quelle della pratica clinica corrente: i pazienti, in un ambito di ricerca, sono selezionati in base agli scopi e alle possibilità della ricerca stessa. In ambito psicofarmacologico, trattandosi di testare l’efficacia di un farmaco su di una specifica patologia, i pazienti debbono presentarla allo stato “puro”, senza alcuna forma di comorbidità. In ambito psicoanalitico i pazienti sono selezionati in base alla presumibile efficacia di questo tipo di cura, ossia alla possibilità che i problemi della mente del paziente possano essere risolti dalla mente stessa, senza un’eccessiva interferenza di fattori di ordine somatico o sociale. In altre parole, si tratta di agire su quelle parti della mente che, sia pure con l'aiuto dell'analista, sono in grado di retroagire sul loro substrato neurobiologico, correggendone le alterazioni. Lo psichiatra clinico, viceversa, sa bene di trovarsi quasi sempre di fronte a un “groviglio” di disturbi psichiatrici di diverso tipo, spesso intrecciati con problemi medici generali o assistenziali. È per lui, pertanto, necessario trasporre “cum grano salis” i risultati dei vari tipi di ricerca nella sua pratica terapeutica. Ciò vale anche per la ricerca effettuata da lui stesso: per chi ha portato a compimento un training psicoanalitico, è facile allestire un “laboratorio di ricerca”  con pazienti selezionati nel suo stesso ambulatorio. Questo tipo di lavoro è probabilmente il modo più efficace per preservare la psicoanalisi dal pericoloso isolamento in cui la sta ponendo l’ideologia dei “ciechi” della “neurologia dei sintomi mentali”, come la definisce Romolo Rossi [ossia coloro la cui attenzione è concentrata in modo esclusivo sul substrato neurobiologico delle malattie mentali, ignorando, in quanto divenuti "ciechi" di fronte ad essa, la dimensione soggettiva].
Lo psichiatra che abbia conservato il suo “occhio della mente” [la sua capacità di comprensione empatica] continua a porre al centro della sua attenzione la vita interiore del paziente. Tuttavia egli deve anche agire su quei fattori, di ordine somatico e sociale, che sulla vita interiore possono interferire in modo decisivo. Egli si avvale, pertanto, principalmente di tre strumenti d’indagine. Il primo è la sua capacità di comprensione introspettivo-empatica, che gli consente di accedere alla sfera soggettiva del malato. Il secondo è l’osservazione oggettiva (fondata sulla “estrospezione”) con la quale si può comprendere quanto accade in una dimensione sociale. Il terzo è la sua facoltà d’indagare sui fenomeni somatici. Questa si avvale della capacità d’entrare in sintonia con un livello arcaico, “protomentale” o psico-fisico indifferenziato, della mente del paziente, ossia quella parte della sua soggettività più vicina alla dimensione del corpo; capacità, questa, che consente di rilevare informazioni che vengono corroborate (ma non offerte in prima istanza) dai dati dell’estrospezione (esame obbiettivo, prove strumentali, esami di laboratorio, ecc.). Il possesso di tale attitudine (essenzialmente di carattere intuitivo) permette di distinguere il medico dotato di maggiore sensibilità diagnostica da quello che, a parità di preparazione e d’esperienza, ne dispone in misura minore. Lo psichiatra deve ricorrere a quest’ultimo strumento d’indagine soprattutto in due circostanze: quando deve fare diagnosi e stabilire il ruolo di alterazioni corporee quali eventuali fattori causali o concorrenti somatici alla base delle disfunzioni psichiche; inoltre quando, con pazienti non altrimenti raggiungibili dalla relazione terapeutica (soprattutto gli psicotici), deve agire direttamente sul substrato organico delle alterazioni mentali allo scopo di rendere il malato più recettivo al dialogo e alla cura.
Per poter passare agevolmente dall’indagine sulla dimensione psichica a quella sulla sfera somatica (e viceversa), lo psichiatra deve aver superato quel “evitamento fobico” e quel “isolamento ossessivo” del corpo che spesso caratterizzano, rispettivamente, il terapeuta che si occupa “a tempo pieno” della mente e quello che tratta esclusivamente il corpo. Trattandosi di atteggiamenti difensivi, gli si richiede, perciò, d’aver acquisito un dominio sulle proprie resistenze a capire ed una libertà interiore ancora maggiori di quanto ci si aspetta da uno psicoanalista “puro” o da un organicista "puro".

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