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Psicoanalisi della disabilità. Conversazione con Franco Lolli

21 Lug 16

A cura di Alex Pagliardini

«L’uomo non si sbarazza in nessun modo con questa faccenda di sapere. Egli non sa come “fare con” il sapere – è ciò che si chiama debilità mentale, della quale devo dire non faccio eccezione»1

 

(Come anticipato nel testo di apertura, questa rubrica ospiterà occasionalmente e frequentemente colleghi psicoanalisti – e non solo – invitandoli a dire qualcosa a proposito della propria esperienza di psicoanalisi applicata. Il nostro primo ospite è Franco Lolli. Psicoanalista, membro ALIpsi (Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi), direttore dell’Istituto IRPA di Grottammare, membro Jonas Onlus (Centro di clinica psicoanalitica dei nuovi sintomi), direttore scientifico dello CSeRIM (Centro studi e ricerche sull’insufficienza mentale). Tra le altre cose, da anni si occupa di “disabilità intellettiva”, dunque di psicoanalisi applicata alla disabilità intellettiva. Su questo verte la nostra conversazione).

 

Alex Pagliardini – Sei uno psicoanalista. Lavori da molti anni con la così detta disabilità intellettiva. In tal senso la tua pratica rappresenta, almeno in Italia, una rarità. Come prima cosa ti chiederei di spiegarci in modo sintetico e solo, per ora, da un punto di vista formale, in che modo te ne occupi, cioè in che luogo, da quanto tempo, come hai iniziato ecc… Detto questo ti chiederei di dirci come e cosa centra la psicoanalisi con la disabilità.

Franco Lolli – Lavoro da circa trent’anni in un grande istituto di riabilitazione marchigiano – l’Istituto di riabilitazione “Santo Stefano” di Porto Potenza Picena -, un luogo di cura che accoglie persone con disabilità di diversa natura e con regimi di trattamento molto differenziati (ambulatoriale, domiciliare, day-hospital, degenze di breve e media durata, lungodegenze, ecc.). Da vent’anni a questa parte, mi occupo quasi esclusivamente di disabilità intellettiva, principalmente di disabilità gravi e gravissime. La scelta di applicarmi a questo aspetto della psicopatologia è nata a seguito della possibilità che mi fu data dalla Direzione dell’Istituto di ‘creare’ una comunità per persone con insufficienza mentale profonda e con gravi problematiche psico-comportamentali. Il mio compito, da allora fino ad oggi, è stato quello di progettare (e, continuamente, riprogettare in virtù delle difficoltà incontrate) un luogo terapeutico, orientato dall’insegnamento di Sigmund Freud e di Jacques Lacan, in grado di trattare adeguatamente un fenomeno sintomatico così complesso e invalidante quale quello della debilità mentale grave. La mia formazione psicoanalitica ha avuto un ruolo fondamentale in questa ‘impresa’ solitaria e, devo ammetterlo, poco riconosciuta dalla comunità analitica: non solo perché mi ha offerto la possibilità di pormi interrogativi fondamentali sul piano etico ed applicativo e di superare, così, i luoghi comuni che dominano il campo della riabilitazione (il che mi ha consentito di includere, nella costruzione del progetto, la considerazione di questioni che, erroneamente, sono ritenute estranee alle disabilità intellettive: l’incidenza del desiderio dell’Altro, ad esempio, la pulsione e le sue manifestazioni più bizzarre, il reale dell’organismo, l’ingresso del vivente nel campo del simbolico, la differenza tra enunciato ed enunciazione e così via): ma anche, per la forza del ‘contagio’ che ha avuto sull’équipe riabilitativa, che ha trovato nella dottrina psicoanalitica – di cui io mi sono fatto un semplice messaggero – un riferimento professionale e formativo, oramai saldamente consolidato.

 

AP – Come intendi il termine disabilità intellettiva? Perché usi spesso come sinonimo il termine di debilità mentale?

FL – La disabilità intellettiva – è questa una definizione molto generica ma, direi, assolutamente capitale – consiste, fondamentalmente, in un rapporto problematico con il sapere: in un difetto della capacità di inter-legere, di leggere tra le righe, di saperci fare con il significante e con le sue ambiguità, con la sua equivocità e aleatorietà. Ebbene, di tale incapacità, Lacan parla a più riprese nel corso del suo insegnamento e non solo in termini psicopatologici ma anche per segnalare che il rapporto con il sapere è problematico per tutti gli esseri umani, che la debilità mentale, cioè, (così egli definisce questa incapacità) è strutturale, universale, connessa all’umano. L’uso del termine debilità è, pertanto, ambiguo nel campo lacaniano: indica sia l’effetto invalidante – in termini di prestazione intellettiva – che, generalmente, ma non necessariamente, si riscontra in presenza di un danno organico a carico del sistema cerebrale, sia la costituzionale difficoltà che l’essere umano incontra nel suo relazionarsi al sapere. Per quanto riguarda il mio lavoro, ho sempre utilizzato il termine debilità in riferimento alla prima accezione, come, in altre parole, l’occorrenza psicopatologica che osserviamo in persone con lesioni neurologiche dovute ad eventi morbosi di varia natura. Per comprendere il modo in cui Lacan intende la disabilità intellettiva, è fondamentale il riferimento al Seminario XI, nel corso del quale, rivolgendosi a Maud Mannoni, ebbe a precisare che la simbiosi che ella tendeva a collocare a livello del legame primario (individuando nella segregazione del bambino ritardato all’interno del fantasma materno e nella conseguente mancata separazione, il nucleo etiopatogenetico della disabilità mentale) andasse in realtà trasferita sul piano del significante: è l’olofrase, affermava Lacan, la figura retorica che ‘spiega’ il fenomeno della debilità mentale, è la ‘simbiosi’ della coppia significante, è il congelamento del significante, è l’impossibilità della catena significante di dispiegarsi come rapporto tra differenze a caratterizzare la relazione del ritardato con il linguaggio e con il mondo. L’olofrase è, in effetti, la figura retorica a cui Lacan fa riferimento per spiegare come il discorso possa, in determinate situazioni cliniche (psicosi, fenomeno psicosomatico e debilità mentale, per l’appunto), solidificarsi in una parola: come, in altri termini, la differenza possa ‘rapprendersi’ e fare uno. Nella disabilità mentale assistiamo esattamente a questo blocco del processo di differenzazione: la differenza – istituita originariamente come inevitabile discriminazione tra piacere e dispiacere che ogni essere umano sperimenta – si riassorbe, così, in una sequela di semplici associazioni comportamentali che portano all’attuazione di elementari azioni di ricerca o di fuga. La differenza si trasforma in stereotipia, in ripetizione seriale di un più e di un meno che diventa essa stessa uno sterile rituale compatto e immodificabile, nel quale, diversamente da quanto accade nel fort-da, non è il soggetto a rappresentarsi come mancante, a se-partire, a separarsi dalla matrice per individuarsi come distaccato dall’origine, ma è l’oggetto che, nel suo ciclico sparire e ricomparire, mantiene l’assoluto primato sul vivente, assoggettandolo ad una compulsione invincibile. La differenza, in altri termini, si traduce in reiterazione di un comportamento dominante (un Uno che, nel caso di soggetti disabili, è rappresentato, ad esempio, dalla ricerca inesorabile di cibo o dalla spinta inarrestabile ad atti autolesivi) che riassume in se una serie di possibili significazioni inespresse senza, tuttavia, che sia possibile indicarne alcuna: cosa ci dice, infatti, quel soggetto lì quando si abbuffa di panini? Che ha fame? Che desidera un sostituto del ‘seno materno’? Che cerca un contatto con l’operatore? Che vuole semplicemente chiedere? Essere riconosciuto come desiderante? Tutte possibili significazioni che l’olofrase comportamentale nasconde. La vita ‘sospesa’ del disabile intellettivo, la sua quasi totale estraneità al mondo, il suo misterioso vagare in esso, l’apparente assenza del desiderio di farsi riconoscere, il suo restare ai bordi di ogni relazione, tutto ciò rappresenta l’effetto del congelamento del significante, della differenza che esso contiene, della sua mancata articolazione ad un altro significante, del suo arresto ad un livello che non consente alcuna produzione di senso. L’imprigionamento del molteplice nell’Uno che caratterizza la vita del disabile intellettivo, dunque, non riguarda tanto la coppia madre-bambino (l’Uno del corpo della madre e quello del bambino – benché questo, certamente, lo si possa osservare a livello immaginario), quanto l’Uno della coppia S¹-S², il fatto che “non c’è intervallo tra S¹ e S², quando la prima coppia significante si solidifica, si olofrasizza”2.

 

AP – Applicare la psicoanalisi alla disabilità. Qualcuno potrebbe obbiettarti che non si tratta più di psicoanalisi. Coma rispondere a tale obbiezione, un po’ ingenua ma molto ricorrente? Più in generale, e meno ingenuamente, perché parlare di psicoanalisi applicata e non di psicoterapia?

FL – L’obbiezione è fondata e pertinente: in effetti, quello che io – come altri colleghi impegnati in questo stesso campo – mi sforzo di fare è, semplicemente, ‘applicare’ i princìpi della psicoanalisi (sia in termini teorici che in termini clinici) ad un ambito della sintomatologia umana generalmente considerata intrattabile. La mia idea, confermata dai riscontri che nel corso degli anni abbiamo ottenuto, è che anche la disabilità intellettiva più grave possa essere trattata, possa, cioè, godere dei benefici effetti dell’esposizione al significante (di cui l’operatore ‘formato’ è tenuto a farsi ‘rappresentante’). Non ho alcun dubbio sul potere che un intervento orientato da una riflessione consapevole ha nel modificare economie psichiche apparentemente congelate in condizioni di ritiro, di oppositività radicale, di negativismo assoluto. Ho spesso avuto modo di constatare come semplici atti dell’operatore, ispirati da un’ipotesi di intervento fondata sull’accurata osservazione del caso e su una riflessione teorica appropriata, abbiano avuto la forza di intaccare in maniera permanente e modificare significativamente comportamenti ritenuti immutabili: anche in persone con ritardo mentale grave, evidentemente sensibili al contatto con un desiderio deciso.

Il mio ruolo, in questo contesto borderline della clinica psicoanalitica, è supportare, motivare, giustificare, finalizzare, dotare di senso, l’azione terapeutica dell’operatore (educatore professionale, infermiere, OSS, fisioterapista, ecc.), attribuire alla presenza dell’operatore un valore significante che, sebbene, per ovvie ragioni, non possa essere considerato un intervento psicoterapeutico, possiede, tuttavia, una potenzialità trasformativa che, assai spesso, sorprende.

 

AP – Hai scritto diversi testi sulla questione della disabilità intellettiva, nei quali hai costruito progressivamente una logica molto serrata della disabilità e della pratica con il paziente disabile – mi riferisco in particolare a “L’ingorgo del corpo. Insufficienza mentale e psicoanalisi” (Franco Angeli, 2004),”Percorsi minori dell’intelligenza. Saggio di clinica psicoanalitica dell’insufficienza mentale” (Franco Angeli, 2008), “Riabilitare l’inconscio. Psicoanalisi applicata alla disabilità intellettiva” (ETS, 2012).

Insisti molto su un punto. Chi lavora con il disabile deve saperlo riconoscere come partner, sapergli supporre una soggettività, un’intenzionalità inconscia. La cosa non è per niente semplice. Il disabile è proprio colui che con tenacia dimostra di non avere alcuna soggettività. Lo dimostra in particolar modo se ci si rapporta a lui a livello della visione, cioè a partire e attraverso l’osservazione del suo comportamento. Se non si appiattisce tutto su questo piano, che con Lacan possiamo chiamare “immaginario”, è invece possibile individuare e trattare tracce di soggettività. Come mai il modo dominante di occuparsi della disabilità, contrariamente a quella che tu proponi, si è così tanto appiattito su una clinica dell’osservazione?.

FL – Supporre una soggettività laddove una soggettività non è ancora costituita è il compito fondamentale che ogni madre, inconsapevolmente, svolge quando interpreta come dotato di senso, come atto comunicativo, come gesto a lei indirizzato il pianto insignificante del proprio neonato, il suo urlo insensato, causato da quella che Freud definisce l’urgenza del vivere. Come sappiamo, sarà proprio questa arbitraria e velleitaria attribuzione di senso a dotare di senso quella manifestazione involontaria e automatica di un organismo, semplicemente reagente e reattivo ai flussi di eccitazione spiacevole che lo attraversano. Questa è la funzione determinante del Nebenmensch, afferma Freud, e della sua ‘azione specifica’: non solo dare al cucciolo d’uomo l’oggetto che soddisfi il suo bisogno ma, soprattutto, offrire la profondità di una prospettiva, la tridimensionalità di un’esperienza che solo il registro del significante è in grado di garantire. Ciò che ogni madre, senza sapere, fa è, dunque, credere di avere davanti a se un interlocutore in grado di riconoscerla, è riconoscere il neonato come capace di riconoscere. Supporre che l’altro mi riconosca è, in effetti, il requisito necessario affinché si avvii la dinamica del riconoscimento, che instaura, cioè, l’altro come soggetto in grado di riconoscermi (e non semplicemente un oggetto a cui badare).

Nella disabilità intellettiva questa feconda dinamica simbolica che dà spessore e consistenza all’esperienza immaginario-speculare, risulta fortemente compromessa: tanto più, in caso di disabilità severe, laddove il soggetto tende ad essere considerato come inerte, insensibile, indifferente alla presenza dell’altro, puro oggetto di accudimento, destinatario di una serie di azioni che hanno a che fare con la cura del corpo, con l’igiene, con l’alimentazione, con le pratiche assistenziali più disparate. Il rischio implicito in situazioni del genere è che qualunque atto prodotto dalla persona disabile finisca con l’essere considerato come effetto necessario della patologia e non come un tentativo di manifestazione di una volontà, di un desiderio, di un messaggio rivolto all’altro: tipico, in questo senso, è il caso degli atti di aggressività, auto o etero diretti. L’interpretazione che domina in campo riabilitativo è che, ad esempio, il soggetto sia aggressivo perché è insufficiente mentale, perché ha uno scarso controllo delle emozioni, perché ha un grado di impulsività elevato, insito nella patologia da cui è affetto. Il comportamento problematico viene ‘spiegato’ come conseguenza di una condizione patologica che dovrebbe ‘contenere’ quel tipo di condotte: il comportamento viene così svincolato dalla storia di quel soggetto lì, viene catalogato come segno inequivocabile di una situazione morbosa, fatto rientrare ed inscritto in quadro diagnostico che non solo non gli attribuisce alcun valore, ma ne neutralizza e ne abolisce ogni spunto di originalità, riconducendolo ad una nosografia universale e massificante. Il troppo di visibilità della sintomatologia acceca qualsiasi possibile rinvio ad una dimensione ulteriore, esclude una possibile trascendenza del fenomeno, spinge l’operatore non avvertito a considerare come destinata alla bidimensionalità una vita che potrebbe acquisire una profondità solo se supposta.

Si tratta, allora, ogni qual volta ci si trova di fronte ad una persona la cui gravità sembra chiudere ogni discorso, di scommettere, di ipotizzare, di supporre che una soggettività in giacenza – en souffrance – attenda di manifestarsi, magari in maniera rudimentale, magari in maniera embrionale o grossolana: uno scatto di rabbia improvvisa, un atto aggressivo, uno stato di eccitazione incontrollato, tutto quanto si è soliti considerare – nel gergo tipico della rieducazione – ‘comportamento problema’ può, se considerato come espressione di una ‘coscienza’ (per quanto alterata, per quanto senza io, per quanto impersonale e anonima), diventare un segno.

 

AP – Tu porti avanti un’ipotesi, attraverso un passaggio del Seminario XIX di Lacan e attraverso un lavoro dello psicoanalista francese Pierre Bruno, “A cotê de la plaque. Sur la debilitè mentale”. Sostieni che la debilità non è caratterizzata, contrariamente alla psicosi, dall’essere fuori discorso ma dall’oscillazione tra due discorsi. Puoi spiegarci questo difficile concetto?

FL – L’idea che il debile mentale oscilli tra due discorsi è un’ipotesi sostenuta da Lacan: “il flotte entre deux discours”, afferma esplicitamente. Pierre Bruno – che, va ricordato, fu allievo di Maud Mannoni – in quel testo giovanile che tu citi, ha messo in valore questo noto passaggio dell’insegnamento di Lacan, specificando che il disabile intellettivo, a differenza dello psicotico, è nel discorso, ma non saldamente installato in un discorso. Oscillare tra due discorsi ha molteplici significazioni: la più importante mi sembra che riguardi il fatto che la difficoltà maggiore del disabile intellettivo sia quella di prendere la parola, di fare della parola che si trova a pronunciare una parola propria, soggettivata, piena. O meglio, che questa parola – che indubbiamente, in certe circostanze emerge come segno di un’assunzione del proprio ‘stare al mondo’ – sia continuamente alternata a quella dell’altro, di cui, in effetti, assai spesso il disabile intellettivo si fa fedele cassa di risonanza. Il suo oscillare tra i discorsi ha, peraltro, un riscontro fenomenico evidente: ad esempio, in uno dei miei libri, cito il caso di una persona ritardata che ha l’abitudine di fare una domanda e, nel momento in cui l’altro sta per rispondere, di allontanarsi farfugliando cose incomprensibili. In un momento è nella relazione, un attimo dopo, ne è già fuori. Dentro e fuori, di qua e di là, presente e assente: ‘ci fa o ci è’ è la domanda che di frequente gli operatori più ingenui si pongono proprio in relazione a questo tratto per loro incomprensibile. Credo che, però, questa tesi di Lacan vada corretta in caso di disabilità più gravi. In queste situazioni, risulta davvero difficile pensare il soggetto installato nel discorso, tanto meno ‘oscillante tra due discorsi’. Dobbiamo tenere conto, allora, che la disabilità intellettiva costituisce un arcipelago psicopatologico così vasto (dalle più leggere forme nelle quali non sono riscontrabili lesioni organiche e il soggetto è in grado di relazionarsi con il mondo in maniera sufficiente al mantenimento di una minima autonomia, alle forme più infauste, nelle quali il soggetto è completamente dipendente dall’altro) che risulta difficile applicare alle varie ‘isole’ che lo compongono un’unica designazione di tipo psicopatogenetico. L’esperienza con soggetti ‘gravi’ dimostra inequivocabilmente l’impossibilità per quest’ultimi di entrare nel discorso, per alcuni, direi, di entrare a pieno titolo nel linguaggio, restandone, per certi versi, come afferma Henry Rey-Flaud, sulla soglie, sul bordo, al confine.

 

AP – Sottolinei spesso che il modo in cui viene trattato il debile è “debilizzante”, ossia alimenta la disabilità, la radicalizza, questo anche in virtù di una serie di preconcetti che gravano nella teoria e nella pratica della disabilità. Puoi dirci quali a tuo avviso sono i preconcetti più insidiosi? Le neuroscienze ti sembra stiano aiutando ad abbattere o a rafforzare questi preconcetti?

FL – Comincerei con quello che mi sembra il più diffuso: che il debile è un ‘eterno bambino’, un infans destinato a rimanere tale, un’innocente creatura scampata al destino del passare del tempo. Basta entrare in un centro ricreativo, in un diurno, in un laboratorio occupazionale, in una comunità e, molto probabilmente, si vedranno le pareti tappezzate da disegni di cartoni animati Disney, si sentiranno e si canteranno canzoni dello Zecchino d’Oro, si noteranno operatori ‘affettuosamente’ abbracciati ai disabili, ai quali si rivolgeranno con teneri appellativi (“tesoro”, “amore mio”, “bello di casa”, ecc.) non adatti, certamente, a persone di 30-40-50 anni. La tendenza ad infantilizzare il disabile intellettivo risponde a varie questioni effettivamente perturbanti: prima di tutte, la volontà (per lo più inconsapevole, ma determinata, del caregiver) di esorcizzare la dimensione sessuale che il passaggio attraverso l’adolescenza introduce nell’esistenza del disabile e che si impone come nuovo fattore angoscioso con cui fare i conti. Congelarlo in un’infanzia senza fine mira a scongiurare l’affacciarsi della pulsionalità, della carica libidica che, ad un certo punto, alcuni gesti del disabile acquisiscono, gettando nello sconforto coloro che si occupano di lui/lei, sconvolti dalla trasformazione di quello/quella che, fino a pochi mesi prima, era visto come un orsacchiotto tenero o una bambolina educata. Infantilizzare il disabile intellettivo per scotomizzare, dunque, la questione sessuale che, inesorabilmente, incalza.

Un altro pregiudizio particolarmente insidioso consiste nel credere che il disabile intellettivo, a causa del proprio deficit, sia risparmiato dal dolore e dalla sofferenza che solo la consapevolezza della propria condizione introdurrebbe nell’esistenza umana. Si tende a pensare al ritardato mentale, quindi, come ad un soggetto ‘felice’, beato nella sua presunta ignoranza e votato ad una vita senza pensieri: come se fosse rinchiuso in una bolla di ingenuità e di innocenza che (ed è questo il risvolto più nascosto ma che, più autenticamente, svela l’intento segregativo del pregiudizio) lo accomunerebbe all’animale, anch’esso immerso in una sorta di purezza e di verginità originaria che, come afferma Lacan, non gli consente di fingere di fingere, di utilizzare l’equivocità del significante, di ricorrere al fondamentale operatore logico-linguistico che è la negazione. Riappare, in questo modo, camuffato da un discorso ‘politicamente corretto’, il rifiuto della diversità, confinata al di fuori dell’umanità come sua scoria insopportabile, evacuata – senza mai, ovviamente, che la cosa diventi esplicita – nel regno della bestialità, della istintualità, della pulsionalità senza freni.

Più in generale, direi che il pregiudizio più insidioso sia quello che tende ad escludere il disabile intellettivo grave dal registro dell’umano. Questo pensiero, in quanto clinico impegnato da decenni nel campo della disabilità, mi risulta inaccettabile: forse perché così diffuso, così dominante, così subdolamente infiltrato nel modo di concepire l’handicap intellettivo, così tuttora prevalente nel campo della riabilitazione. È un tale pensiero, infatti, che, per quanto rimosso a causa della sua ‘impresentabilità’ sociale, caratterizza l’attitudine contemporanea al prendersi cura della disabilità mentale, attitudine che si manifesta in una duplice versione. Da un lato, assume le forme della compulsiva tensione educativa all’addestramento, all’addomesticamento, all’ammaestramento: dall’altro, quelle dello spasmo scientista alla medicalizzazione della condizione di diversità, alla sua riduzione a deficit di natura organica. Da un lato, l’atteggiamento pedagogico, dall’altro, l’euforia delle neuroscienze e dell’applicazione delle loro osservazioni al campo dell’handicap: da un lato, come conseguenza necessaria, il porre il disabile come oggetto di pratiche di insegnamento comportamentale, dall’altro, lo scomporlo nelle sue funzioni, il frammentarlo in parti da riparare. E ancora: da un lato, un esercizio di adeguamento alla norma (camuffato dal discorso ‘politicamente corretto’ dell’integrazione), dall’altro, la rinuncia all’inclusione della differenza e la sua reclusione definitiva nell’istituzione sanitaria. Due posizioni che si sono contese e che si contendono il primato e l’esclusiva della definizione di intervento appropriato nel campo del trattamento della disabilità intellettiva: due posizioni che, però, solo apparentemente si pongono come contrastanti ma che, a ben vedere, condividono – in maniera ovviamente subdolamente mascherata – la credenza in una specie di sottofondo ‘animale’ operante nel soggetto disabile intellettivo. Inutile, per giunta, soffermarsi sul rischio al quale è esposta una simile impostazione: l’eugenia è il fantasma che silenziosamente si agita sul suo sfondo e sulla cui evidenza non mi sembra necessario trattenermi oltre.

 

AP – Affermi sempre che il disabile non ha problemi di linguaggio perché ritardato dal punto di vista del pensiero ma al contrario, manifesta un deficit a livello del pensiero in quanto è danneggiato il suo rapporto con il linguaggio, la sua inscrizione soggettiva nel linguaggio. Questo rovesciamento teorico modifica radicalmente la pratica con la disabilità e mette in forte discussione l’uso massiccio delle tecniche di logopedia. Puoi dirci qualcosa in merito?

FL – La parola precede il pensiero: anzi, come sostiene Freud, la rappresentazione cosciente può svilupparsi solo se e quando alla rappresentazione di cosa si aggiunge la rappresentazione di parola, quando, cioè, alle immagini legate all’evento si associano le immagini legate al fenomeno acustico, al materiale verbale che si è depositato come traccia mnestica. Questo è il punto di partenza del ragionamento che propongo e che – ne sono consapevole – sovverte l’abituale modo di concepire i disturbi del linguaggio nel campo delle insufficienze mentali. “Ha pensieri chi ha parole per pensarli” è il brillante modo di riassumere questo concetto che un noto filosofo propose nel secolo scorso: è la parola il fondamento della coscienza e non il contrario. La parola ritaglia l’oggetto, viene prima dell’esperienza dell’esistenza dell’oggetto, anzi, per essere precisi, è la parola che fa esistere l’oggetto, che lo estrae dall’indeterminato e lo isola come pensabile. Bisogna tener conto di questa assoluta priorità della parola – “all’inizio era il Verbo” – quando si intende affrontare il grande problema dei disordini del linguaggio che riscontriamo nelle disabilità intellettive. Il limite della logopedia – che fa propri i princìpi delle neuroscienze – sta nel concepire in maniera invertita il rapporto tra la parola e il pensiero, ritenendo che la povertà linguistica della persona ritardata sia conseguenza del suo deficit intellettivo e che un programma di rinforzo linguistico possa riparare questa mancanza: tale impostazione ignora il fatto che è la difficoltà nel saperci fare con il significante (e dunque di muoversi agilmente con la parola) a determinare effetti sul piano intellettivo, che, in altri termini, è il difetto del simbolico a causare ripercussioni sul piano intellettivo, che è il mancato (o precario) aggancio alla catena significante a fare della persona disabile uno ‘svitato’ – non avvitato, cioè, all’ingranaggio che tiene uniti gli umani in una narrazione condivisa. È l’inserzione nel discorso che si presenta come problematica, è l’articolazione di un significante con un altro (che, per l’appunto, dà l’avvio alla catena significante e alla produzione del senso) a risultare carente, congelata in quella che Lacan definisce ‘olofrase’. Il fenomeno che ne risulta sarà quello del danno cognitivo che, peraltro, propongo di distinguere logicamente dal deficit intellettivo: se, infatti, il registro cognitivo segnala la possibilità di iscrizione di tracce mnestiche nel sistema neuronale dell’infans e di una prima loro trascrizione in termini di rappresentazione (si tratta dell’acquisizione dei concetti cognitivi di base, grazie ai quali la differenza – intesa come possibilità di opposizione tra il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, l’avanti e il dietro, il su e il giù, ecc. – si installa), la capacità intellettiva rappresenta la facoltà di organizzare gli apprendimenti in funzione di un progetto, di una finalità, di un desiderio (svincolando il cognitivo dall’inerzia alla quale tende in assenza di una soggettività). Ciò che in effetti riscontriamo è che un soggetto disabile può presentare un marcato deficit cognitivo – causato dalla limitata iscrizione di tracce nel proprio sistema cerebrale – ma un’importante capacità intellettiva, che gli consente di organizzare, con quel poco di cognitivo che ha a disposizione, azioni che rispondono al proprio desiderio (come un cuoco esperto riesce, con i pochi ingredienti che la dispensa gli fornisce, a preparare ottimi piatti). Viceversa, notiamo spesso che l’acquisizione di concetti cognitivi di base (raggiunta attraverso programmi di rinforzo comportamentale aggressivi) non si accompagna ad una effettiva capacità di ‘utilizzarli’, in quanto ciò che manca è lo shifter del desiderio, un progetto che li finalizzi: questo vuol dire che, innanzitutto, qualsiasi intervento riabilitativo deve puntare a favorire lo sviluppo di un desiderio soggettivo (e non, come accade sempre più spesso nelle pratiche attuali, al bombardamento sensoriale che, al contrario, rischia di asfissiarlo).

 

AP – Veniamo alla lesione organica. Ci sono casi di disabilità con conclamata lesione organica, altri in cui non è riscontrata. Oppure casi in cui la lesione è considerata primaria, altri in cui è secondaria. Su questo c’è molta confusione. Tu che idea ti sei fatto?

FL – Innanzitutto, bisogna ammettere la prevalenza del fattore organico o, quantomeno, l’importanza della sua azione nella maggior parte dei ritardi gravi e gravissimi. Ignorare o sottovalutare questo aspetto significa attribuire all’etiopatogenesi di natura psichica un ruolo sproporzionato. È pur vero, tuttavia, come tu affermi, che ci sono disabilità intellettive lievi e medio-lievi nelle quali, al contrario, non è riscontrabile alcun danno organico e che, di conseguenza, pongono la questione di come un’insufficienza mentale possa svilupparsi come risposta ad una problematica del rapporto con l’Altro, come sintomo, come difesa, come protezione rispetto ad un sapere che, evidentemente, fa orrore. Il fenomeno dell’inibizione intellettiva che osserviamo in tante situazioni che non presentano alcuna evidenza patologica a carico dell’organismo va compreso, allora, come reazione del soggetto all’insopportabilità di un sapere che, verosimilmente, lo investe in maniera tale da metterne a repentaglio l’equilibrio: di fronte al pericolo rappresentato, per esempio, dalla consapevolezza della precarietà del desiderio dell’Altro o dal percepire il rischio di trovarsi nella posizione di oggetto di godimento o, ancora, di vivere nell’insufficienza di un riconoscimento (incapace di attribuire un posto stabile nel mondo), ebbene di fronte a simili occorrenze, la clinica ci mostra la possibilità che il soggetto, pur di non sapere ciò che lo angoscerebbe, ciò che metterebbe a repentaglio la sua esistenza, rifiuta il sapere il tout court, getta, cioè, con l’acqua sporca – come afferma Simone Korff-Sausse – anche il bambino.

Quella che, però, mi sembra che rappresenti la condizione psicopatologica più frequente è data dall’incrocio dei due fattori, dalla simultaneità della loro azione, dalla reciproca interazione tra l’eventuale lesione cerebrale e l’eventuale ‘lesione’ del rapporto con l’Altro: occorre considerare, infatti, che la consapevolezza dell’handicap del proprio figlio incide, assai spesso e in profondità, il legame, ne perturba il suo fondamento ponendosi come un intollerabile insulto narcisistico (più o meno cosciente) in grado di generare reazioni emotive di rifiuto e di odio. Un’importante autrice britannica – Valerie Sinason – sostiene a questo riguardo che il danno maggiore che si riscontra nei casi di ritardo intellettivo, non sia a carico della patologia organica (disabilità primaria) ma sia l’effetto dell’alterazione della relazione genitori-bambino (disabilità secondaria) nella quale quest’ultimo, sostiene la Sinason, cosciente dell’angoscia dell’adulto causata dalla propria patologia e temendo un reazione di rifiuto, si affanna a tentare di tranquillizzarli ‘mimando’ una spensieratezza, un’inconsapevolezza maggiore, assumendo la postura di chi è totalmente indifferente alla propria condizione, mostrandosi addirittura felice in maniera idiota. Più in generale, si potrebbe dire che un normale sviluppo della pulsione di sapere presuppone un rapporto con il desiderio dell’Altro tale da consentire al soggetto il porsi dell’interrogativo fondamentale, il “Che vuoi?” originario da cui discende la ricerca di senso. Quando questa domanda è impedita, gli effetti sul piano dello sviluppo della cupido sciendi sono facilmente immaginabili.

 

AP – Per te l’applicazione della psicoanalisi per il trattamento del paziente disabile è possibile solo all’interno di una struttura e attraverso il lavoro di tutta l’equipe. Perché non ritieni possibile trattare il paziente disabile attraverso la pratica psicanalitica nel suo setting classico?

 

FL – Perché il lavoro con un disabile intellettivo va pensato come ‘spalmato’ sull’intera giornata, sotto forma di una stimolazione costante, sottotraccia ma continuativa, fatta di micro-azioni, di piccoli gesti, di una qualità della relazione basata sulla supposizione che è attraverso di essa che qualcosa di nuovo potrà ‘scriversi’ su quell’ardesia (quasi) immacolata di cui parla Freud. In alcuni casi – e di questo ne ho un’esperienza personale assolutamente positiva – può rendersi necessario un trattamento psicoterapico nel quale la persona disabile ha la chance di prendere la parola, in alcuni casi, direi proprio, di ‘costituirla’. Il setting va in ogni caso ripensato, adeguato alla clinica speciale di tali situazioni, calibrato alla eccezionalità di un intervento che è davvero un intervento di frontiera, che non ha una letteratura di riferimento, una storia alle spalle, una pratica consolidata. La cosa che ritengo importante, allora, è individuare la logica su cui fondare ciò che si fa: la clinica del caso per caso è, in questo ambito così esposto ai rischi della massificazione catalogante, il criterio che, primo fra tutti, deve orientare la cura.

 

AP – Tu individui nel controtransfert dell’operatore al lavoro con il disabile l’ostacolo più insidioso della pratica con la disabilità. Credo che qui ci sia uno dei punti decisivi del tuo modo di intendere teoricamente e praticamente la disabilità. Cosa ci puoi dire a proposito?

FL – Frequentare la disabilità intellettiva significa frequentare un ambito dell’umanità che davvero risulta inquietante. La mia attività clinica nel campo dell’insufficienza mentale e dell’handicap intellettivo grave mi obbliga, in effetti, a riflettere su modalità ‘altre’ di abitare il mondo che, dal punto di vista fenomenico, costeggiano il limite che separa l’umano dal non umano: modalità ‘di frontiera’, così prossime a quelle che, come ho già detto, il senso comune attribuisce al registro animale – o, nel peggiore dei casi, al regno vegetale – da rischiare di indurre accostamenti impropri ed eticamente pericolosi. Mi è capitato spesso, trovandomi di fronte a persone profondamente danneggiate dal punto di vista cognitivo-intellettivo, di dubitare seriamente della effettiva possibilità di un’esperienza soggettiva ed umana: osservo stupefatto lo svolgersi di vite in cui nulla – secondo i miei rassicuranti criteri nevrotici, saldamente ancorati alla dimensione spaziotemporale convenzionale – in cui nulla accade se non il ritmo ripetitivo della respirazione, dell’alimentazione e dell’evacuazione. Corpi in grado di sopravvivere – se accuditi con attenzione – che, in casi nemmeno troppo rari, sembrano completamente disabitati: corpi sui quali la pratica educativa ha lasciato dei segni, refrattari, apparentemente, al principio di piacere, indifferenti o impermeabili all’azione di moderazione e di contenimento del godimento dell’organismo da parte del linguaggio. Come intendere altrimenti quei fenomeni (considerati ‘innaturali’ per l’uomo) che frequentemente si riscontrano nelle persone con gravi disabilità intellettive, di totale insensibilità al dolore, al caldo, al freddo, alla solitudine, persino alla fame? L’incapacità dell’organismo di imporsi un funzionamento omeostatico in grado di regolare l’eccesso di eccitazione, consegna l’organismo stesso allo strapotere di uno stato di tensione costante, che si impone nelle forme di un godimento del corpo che non conosce limite, che deborda dai suoi confini attraverso le cosiddette pratiche di automutilazione e di autolesionismo, che non tiene conto del pericolo a cui va incontro l’apparato digerente nell’ingerire pezzi di vetro, che ignora gli effetti del freddo su un corpo svestito o del termosifone bollente sulla pelle, e così via. E allora mi chiedo se queste esistenze che da trent’anni vedo svolgersi davanti ai miei occhi non siano l’epifania (resa possibile da una sorta di incantesimo che la patologia ha provocato) di ciò che del vivente la problematica operatività del significante (evidentemente ridotta in queste forme psicopatologiche) ha lasciato intatto e visibile, l’incarnazione possibile di quella condizione originaria della vita che, generalmente, possiamo solamente supporre a posteriori. Questa, in effetti, costituisce una possibilità interpretativa della inconcepibilità assoluta di tali manifestazioni dell’esistenza: pensare, cioè, la fenomenologia della disabilità intellettiva grave come in grado di palesare la fenomenologia originaria del vivente, impossibile, al di fuori del ritardo mentale profondo, da conoscere in quanto cancellata dall’azione di negativizzazione del simbolico. In questo senso, l’handicap mentale grave rappresenterebbe una sorta di finestra aperta su un tempo preliminare alla costituzione del soggetto che lascerebbe scorgere ciò che il processo di significantizzazione dell’esistenza irrimediabilmente sottopone all’Aufhebung: come se la disabilità intellettiva grave potesse indicarci qualcosa di quella che è l’origine dell’umano, la sua premessa, il suo presupposto.

È questa eccezionalità che provoca risposte controtransferali eccezionali: dobbiamo tener conto che frequentare condizioni di vita così danneggiate, così offese, così devastate ha degli effetti su chi vi passa almeno sei ore al giorno. Il controtransfert dell’operatore è un fenomeno da considerare come inevitabile, come conseguenza ineliminabile dell’esposizione ad una ‘radioattività umana’ che l’handicap mentale grave sprigiona. I fenomeni di “burn-out” così frequenti si spiegano con la progressiva disaffezione dell’operatore da un lavoro ripetitivo, che non promette il raggiungimento di grossi traguardi, che costringe a confrontarsi con gli aspetti più deteriori dell’umanità (l’assenza di controllo sfinterico, il cattivo odore della scialorrea, la presenza di comportamenti autolesivi perturbanti, ecc.). L’operatore tende, inconsapevolmente, a difendersi da questi vissuti attraverso il distacco emotivo (che assume, a volte, le forme di un vero e proprio cinismo), o, viceversa, mediante un coinvolgimento eccessivo, una sorta di con-fusione con la persona disabile, una specie di immedesimazione affettiva che riflette l’eccesso di immaginarizzazione al quale questo tipo di relazioni è esposto.

 

AP – Praticare come psicoanalista con la disabilità costringe ad interrogarsi sul problema dell’origine. Che cosa ti ha insegnato l’esperienza con la disabilità sul trauma e, dunque, sulla costituzione del soggetto?

 

FL – L’idea che mi sono fatto in questi tre decenni di attività clinica con il ritardo mentale (e sulla quale sto lavorando da tempo) è che i casi di disabilità intellettiva grave ci possono indicare qualcosa dell’origine, di quel tempo che anticipa per ogni essere umano la costituzione di una soggettività, di quel tempo in cui il diveniente soggetto è nel linguaggio ma non ancora nel discorso. La disabilità intellettiva grave solleva la questione problematica del processo di soggettivazione dell’essere umano o, per essere ancora più chiari, dell’umanizzazione del vivente, del suo svincolarsi dalla condizione originaria che segna il suo venire al mondo e del suo progressivo divenire un ‘parlessere’. Un divenire che, per l’appunto, a persone gravemente danneggiate sul piano intellettivo sembra negato e che si manifesta nell’impedimento all’acquisizione del linguaggio, della possibilità seppur minima della relazione, di una coscienza autoriflessiva, dell’intenzionalità comunicativa, dell’Esser-ci. Siamo autorizzati a pensare, allora, alla situazione di queste persone come ad una sorta di rappresentazione, enfatizzata dalla permanenza in tale stato causato dal loro handicap, di una presunta condizione ‘originaria’ dell’essere umano? Il loro profondo deficit cognitivo-intellettivo (prevalentemente di natura organica), che supponiamo abbia significativamente condizionato gli effetti prodotti dall’inevitabile esposizione al significante, può, in altre parole, rivelare qualcosa dello status primordiale dell’essere umano? Può, in sintesi, la persona con grave disabile intellettiva (e il suo mancato sviluppo) dirci qualcosa dell’alba dell’umano?

Se, come io ritengo, la risposta a questa domanda non può che essere affermativa, allora si potrebbe sostenere che l’origine (della quale, allora, la condizione psicopatologica della disabilità intellettiva ci consegnerebbe una sorta di fotografia) è l’incontro con un’alterità che schiude l’Uno “ab initio”, che lo apre sin da sempre; incontro il cui paradigma fondamentale (quello sul quale Lacan si è soffermato nel corso del Seminario X) è rappresentato dalla prima inspirazione dell’elemento ‘altro’ per eccellenza, l’oggetto ostile e sconosciuto che è l’aria. É da questo incontro, originario e traumatico, da questo primordiale soffocamento, dall’angoscia dell’intrusione di un corpo estraneo nel proprio corpo, che si attiverà il ritmo della respirazione, che si avvierà, cioè, il ritmo stesso della vita, il suo battito tra un dentro e un fuori, tra un dispiacere e la sua risoluzione, tra l’evento di soddisfazione del bisogno (che garantisce la sopravvivenza del neonato) e la sua reiterata ricerca, tra ciò che è buono (e va trattenuto) e ciò che è cattivo (e va sputato in un fuori che, attraverso il gesto stesso dell’espulsione, verrà a costituirsi). All’origine c’è, dunque, l’effrazione, il trauma, il dispiacere: c’è l’evento dell’incontro con l’alterità, di cui l’elemento aria è, lo ripeto, il prototipo primordiale, al quale, come noto, farà seguito la pressione insopportabile del bisogno dell’organismo – il Not des Lebens – e, solo come riparazione successiva, finalmente, il ‘prossimo’, il soccorritore, il Nebenmensch, l’altro ‘in carne e ossa’, colui che, attraverso l’azione specifica, riporterà l’organismo al suo stato di quiete (introducendo nell’esperienza del futuro soggetto una versione ‘benigna’ dell’Altro, il suo lato rassicurante, significante, simbolizzabile). Il piacere, inteso some ristabilimento della condizione di ‘indifferenza’ del sistema, segue l’originario dispiacere, viene dopo l’accadimento squilibrante introdotto da ‘altro’, da ciò che è eccentrico all’apparato, da ciò che lo infastidisce, ne turba la tendenza omeostatica. É, dunque, come dicevo, l’incontro con l’alterità a configurarsi come l’evento dell’origine, l’evento-origine che apre alla differenza, coincidendovi pienamente. Inizialmente – afferma Freud – si tratterà di una differenza di ordine quantitativo: il flusso e il riflusso delle cariche di eccitazione che scuotono l’omeostasi dell’apparato è determinato, infatti, da un’oscillazione (da un differenziale, quindi) di forze, dall’alternanza ripetuta di fasi di tensione e di fasi di tranquillità che genera la separazione primordiale tra il piacevole e lo spiacevole – in termini puramente organici – che caratterizza quello che Lacan nel Seminario VI definisce il ‘soggetto del bisogno’, il ‘soggetto allo stato informe’, il ∆ del vivente che pulsa al pulsare dei ritmi fisiologici. L’Uno dell’origine è, quindi, già, da sempre, il Due della differenza: l’Uno della pienezza, della completezza bastante a se stessa, dell’autismo solipsistico è una costruzione mitica, impensabile in termini teorici e clinici.

Le persone affette da profonde disabilità intellettive lo dimostrano in maniera inequivocabile: nessuna economia libidica (neanche la più danneggiata) è esente dalla separazione originaria che è implicita nella vita stessa, che, per essere più precisi, la sopravvivenza dell’organismo impone come il susseguirsi ininterrotto tra l’elevazione del livello di tensione e il suo abbassamento (conseguente all’evento di soddisfazione). L’iscrizione nella memoria – in una memoria profonda, ovviamente, in un deposito mnestico che precede l’instaurazione dell’inconscio – di tracce che commemorano il ritmo innescato dall’alternanza dell’esperienza di bisogno e quella del suo appagamento avviene anche ai livelli più rudimentali, più arcaici, più primitivi del funzionamento psichico. Piacere e dispiacere sono attributi dell’accadimento che la materia cerebrale, anche la più lesionata, distilla in virtù della fluttuazione dei livelli di tensione: se, infatti, la sopravvivenza è garantita dalla necessaria presenza dell’esperienza di soddisfazione del bisogno (in assenza della quale la vita – per ovvie ragioni – cesserebbe) e se, come visto, è questa esperienza a interrompere il flusso indifferenziato dell’eccitazione montante nell’organismo (rendendo possibile una scansione primaria, un ritmo a due tempi, un su e un giù del grado di eccitazione del sistema), allora, è insita nella vita stessa la facoltà di modificare in maniera permanente la struttura dell’apparato cerebrale, di lasciare segni di percezione dai quali la differenza libidica si produrrà come contrapposizione, in termini di godimento, delle due esperienze fondamentali, come distinzione primordiale dei due vissuti – di ‘urgenza del vivere’ e di appagamento. L’uno interrompe il predominio dell’altra e viceversa: la soddisfazione sospende il dispiacere del bisogno, che, a sua volta, tornerà, puntualmente, a sospendere la tranquillità della soddisfazione. La ciclicità del ritmo vitale anticipa e avvia quello che costituisce il principio essenziale del linguaggio: la capacità della parola di fratturare la continuità di “lalangue”, di troncare il flusso ininterrotto del significante (ridotto, originariamente, a puro elemento sonoro).

Nella disabilità intellettiva grave assistiamo al congelamento di questo inaugurale processo del differenziarsi: piacere e dispiacere si costituiscono come giudizi che orientano, in maniera impersonale, l’azione ma – ed è questo lo specifico psicopatologico – si fissano e si bloccano sulle originarie associazioni (tra l’evento e il vissuto che produce) che li hanno generati. Ciò che osserviamo, allora, è una ripetizione senza fine della cellula fondamentale che ha partorito l’originaria separazione: in termini empirici, la riproposizione stereotipata di comportamenti che rappresentano, essenzialmente, la stessa scena. Una ripetizione che, differentemente da quanto accade nel corso di un’evoluzione che consideriamo normale, non consente all’evento di tramutarsi in simbolo e che sconfessa, pertanto, il potere del principio di “redoublement” di elevare, attraverso il suo ripetersi, il puro fatto a significante: ciò che infatti tale principio presuppone come acquisita è la capacità del futuro soggetto di sopportare la quota di dispiacere che l’esperienza di soddisfazione inevitabilmente contiene, ovvero, di tollerare che un vissuto di mancanza residui come resto ineliminabile di qualsiasi operazione di appagamento, venendosi a configurare, peraltro, come il motore di quella incessante ricerca di nuove soddisfazioni che si chiama desiderio. Il ripetersi delle due esperienze di piacere e di dispiacere smorza progressivamente la loro iniziale netta divisione, ingloba una parte dell’una nell’altra, obbliga, in altre parole, il futuro soggetto a scomporre l’iniziale differenza, differenziando al suo interno ulteriori possibilità di giudizio. Buono e cattivo diventano, così, attributi che possono coesistere nella stessa esperienza, la quale, pertanto, anche quando risulta appagante, comporta sempre una quota di ‘castrazione’, di mancanza, di delusione che il soggetto è chiamato a dover assumere; in termini libidici, la soddisfazione non è mai completa ed è proprio questa sua strutturale deficienza a innescare il meccanismo di ’ritrovamento’ che erotizza l’altro e l’esistenza stessa.

Nelle disabilità intellettive gravi, questa facoltà di sopportare la ‘castrazione’ è assolutamente assente: il dispiacere – inevitabilmente connesso al piacere – deve essere eliminato completamente in quanto la sua comparsa sprofonderebbe l’organismo in un caos minaccioso e invivibile. Tale tentativo di epurazione totale del dispiacere implica una mutazione del concetto di piacere, l’inversione del suo carattere originario, non più legato alla moderazione e alla attenuazione dell’intensità dello stimolo ma votato all’eccesso, all’esubero, alla galvanizzazione sensoriale, in una parola, al godimento. Quando Liliana mangia senza limite, quando Fausto si ustiona il gomito poggiandolo sul termosifone bollente, quando Sonia si ferisce con qualunque oggetto acuminato riesca a procurarsi, quando Valerio si strappa le unghie della mano, quando, cioè, il disabile intellettivo sottopone il proprio corpo a un surplus di stimolazioni (da noi – e soltanto da noi, evidentemente – ritenute dolorose) assistiamo alla realizzazione di una forma paradossale di piacere, di un piacere ‘di natura diversa’, di un piacere che è il suo aldilà, connesso, cioè, ai vissuti di un corpo iperstimolato e smisuratamente sollecitato. Il godimento del corpo (il corpo “che si gode”, che nelle gravi disabilità intellettive è in assoluto primo piano) è la risposta a tale necessità improrogabile di liquidazione risolutrice del dispiacere.

 

1 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXIV. L’insu que sait de l’une-bévues’aille à mourre, lezione del 11 gennaio 1977, inedito.

2 J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p. 233.

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