Non voglio prendere spunto da questo scambio per discettare dei costi della terapia o dell’uso dell’ironia in seduta, due argomenti straordinariamente interessanti, ma al momento il mio interesse riguarda il rapporto tra vita amorosa e psicoterapia. Rapporto a mio parere quanto meno controverso, se non proprio estraniante.
Non v’è dubbio che una grande percentuale dei pazienti di uno psicoterapeuta quando non giunge in terapia esplicitamente a seguito di uno scacco della vita amorosa, spesso e volentieri pur portando domande differenti da questo enorme tema, occupa comunque una certa parte del proprio tempo in seduta ad arrovellarsi su tematiche contigue alle relazioni sentimentali, croce e delizia della vita di tutti noi. Tra tradimenti, attese messianiche dai propri partners laddove presenti, o ricerche estenuanti di partners mirabolanti laddove assenti.
Ora, non so come andrà a finire con la mia paziente in lacrime, ma conoscendo le sue grandi risorse qualcosa mi suggerisce che ne uscirà alla grande, come al solito.
Però, al di là delle fortunate evenienze della mia paziente, nella mia esperienza non c’è nulla di più della vita amorosa che rappresenti la cattiva coscienza della psicoterapia. E non c’è nulla di più della vita amorosa che tenda a rimanere fedele a se stessa e ai propri copioni. Sarà forse anche perché gli stessi terapeuti, dalla mia personale esperienza e conoscenza, non è che brillino particolarmente come individui risolti o come esempi di superamento delle difficoltà della vita amorosa, tutt’altro. Siamo tutti abbastanza ingarbugliati e dolenti e i nostri pazienti talora non se la passano affatto peggio di noi. Come pensabile dunque di affrontare questioni che spesso e volentieri sono in fieri per noi stessi?
Ricordo ancora una mia cara amica (collega), al suo decimo, forse dodicesimo, anno di psicoanalisi con un noto professionista e professore, discutere animatamente col suddetto del fatto che nulla di lei e della sua vita amorosa era cambiato a seguito di tutti quei sacrifici, anche economici, e che lei continuava a combinare le stesse identiche cazzate, fonte di infinita infelicità, di quando era giovinetta, e per tutta risposta l’analista controbatté dicendo che non è certo obiettivo di una psicoanalisi prendersi in carico questo aspetto.
Per non passare come il solito diffidente della psicoanalisi (piuttosto sono diffidente delle istituzioni psicoanalitiche), tengo a sottolineare che credo che il senso d’irresponsabilità citato in questo esempio non riguardi solo alcuni psicoanalisti o la psicoanalisi (che anzi sulla vita amorosa ha scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora e fornito innumerevoli strumenti ermeneutici), ma tutti gli psicoterapeuti.
Non credo cioè che esista qualcuno tra i miei colleghi che in tutta onestà, scienza e coscienza possa mai e poi mai garantire a chicchessia risultati certi sulle debacle ricorrenti della vita amorosa dei propri pazienti o evitare loro di infilarsi ogni volta di nuovo nei soliti gineprai senza uscita proteggendoli dalle batoste e randellate che invariabilmente arrivano. No, purtroppo una psicoterapia non garantisce alcun airbag contro le craniate della vita amorosa. Al massimo un periodo di convalescenza assistita e di prognosi protetta.
E non è che ci manchino strumenti, teorie, pratiche, esperienze, passando da costrutti, copioni, genogrammi, stili di attaccamento, dipendenze affettive, teorie motivazionali, sistemico-familiari, archetipiche, e financo teorie sociologiche e chi più ne ha più ne metta, ma quello che manca sono proprio i risultati, o meglio i risultati certi.
Si perché non sarebbe esatto dire tout court che i risultati scarseggino. Che qualche paziente durante il proprio percorso si consenta, ad esempio, di transitare da fidanzati tutti filonazisti e violenti a uomini buoni e affettuosi, seppure evanescenti, o a qualche altro paziente si prenda il lusso di passare da fidanzate bamboline di plastica appena maggiorenni a donne reali seppure noiosette, dal mio punto di vista sono risultati eccellenti. Solo che sono risultati che non scalfiscono l’irrisolutezza di fondo, non spostano l’infelicità cronica, non rimarginano la ferita del non-amato, non riparano le antiche lacerazioni, non bonificano il terreno dal dolore esistenziale, dall’insoddisfazione cronica. Il copione dolente che ripropone i soliti abbandoni, rifiuti, autosvalutazioni, indegnità, non amabilità, diffidenze, paure, esperienze traumatiche, prima o poi chiede il suo salato conto e manda in rovina tutto daccapo.
Ed allora che fare? Rinunciamo ad affrontare il tema? Non diamo alcuna speranza a nessuno? Ci buttiamo nella sessuologia?
No, proseguiamo il nostro cammino, ma più dilemmatico e modesto, forse più a fianco dei nostri pazienti, senza pretese di fornire risposte certe e definitive, ma sempre con lo spirito di ricerca di soluzioni, possibilmente non precostituite, ma che scaturiscano da una maggiore comunanza con il nostro prossimo.
0 commenti