Non voglio drammatizzare dicendo che tutti i giorni, in carcere, vedo agiti autolesionistici.
Vedo però tutti i giorni, questo si, le cicatrici che hanno lasciato tali agiti sulla pelle.
La consuetudine fa a volte perdere la sensazione di drammaticità, forse la cognizione stessa di malattia quando non la si riesce a collegare a concetti quali instabilità, imprevedibilità.
Sono in realtà di fronte ad acting prevedibili, in una logica lineare come lineari sono i tagli sulla pelle.
La drammaticità rinasce nel confrontarsi con l'apparente banalità con cui vengono giustificati: mi sono tagliato perchè facendo male a me stesso evito di far male agli altri, mi sono tagliato perchè cosi mi sento vivo, mi sono tagliato perchè mi hanno detto i detenuti più esperti che è il modo più rapido per ottenere qualcosa.
Ma per me ancor più drammatico è la diagnosi che viene fatta dal medico del carcere: visita psichiatrica.
Come se la decisionalità venisse supportata dal pensiero binario, positivo e rassicurante perché imposta ordine, quando si è di fronte ad un evento “sine materia”, o dove comunque la materia non è data da un ente patogeno estraneo all'organismo, si fa ricorso a questa diagnosi totalizzante, la visita psichiatrica.
Viene così risolta, fuori da ogni complessità, quella che circa 30 anni fa Didier Anzieu definiva “incertezza sulle frontiere tra Io psichico e Io corporeo, tra Io reale e Io ideale, tra ciò che dipende da sé e ciò che dipende dagli altri”.
Il detenuto, che diventa spettatore di qualcosa che non è la propria esistenza, deprivato della possibilità di disporre del se e del dialogo paritario, ritrova la funzionalità della contrattazione in quello che sa essere, per cultura appresa nel carcere, la fragilità critica della controparte: la paura della morte, della perdita dell'oggetto da custodire.
Lascio ad altri l'approfondimento psicodinamico dell'autolesionismo: dalle valutazioni di genere dove sul territorio è fenomeno privilegiato del sesso femminile, agli studi transculturali per cui l'atto autolesionistico rappresenterebbe una valenza culturale specifica delle culture guerriere, piutttosto che la sua relazione con i disturbi di personalità.
Limitandomi ad osservare quanto una lettura manichea della realtà non dovrebbe essere coerente con la formazione del clinico nel momento in cui, già all'atto dell'anamnesi, è tenuto a comprendere quanto le condizioni di vita siano un elemento rilevante a contrarre abitudini di vita potenzialmente patologiche.
La prevenzione, penso, dovrebbe far parte del bagaglio di ogni medico, penitenziario compreso.
Francesco caro, molto bello
Francesco caro, molto bello ciò che scrive Gianmaria Formenti.
Su questo versante desidero raccontarti una mia esperienza.
Anni fa a Venezia, durante un seminario tenuto da Sonia March Nevis, una collega e amica, psicologa psicoterapeuta della gestalt, mi disse che non dovevo stare con le braccia conserte perché era un chiaro segnale di chiusura.
La guardai e le dissi che in quel momento a Venezia c’erano quattro gradi sotto zero e che avevo le mani congelate e li stato riscaldando. Inoltre, gli ricordai la “Teoria del Campo” di Kurt Zadek Lewin e quindi come noi professionisti della cura dovremmo avere in figura che: “Cambiando un elemento del campo cambia il campo”.
Ridemmo tantissimo e tutto fini lì.
Quando si svolge una professione di cura, c’è la necessità di avere chiarezza su “segno” e “simbolo”, su “significato” e “senso”, perché se iscriviamo il discorso all’ordine dei significati, significa una cosa e non un’altra. Se iscriviamo il discorso all’ordine del senso, le cose cambiano perché una cosa è una cosa, ma anche il suo contrario. Serve all’uomo e alla sua esposizione al mondo il principio d’identità e di non contraddizione? Certo, ma, nelle professioni di cura il discorso può non iscriversi all’ordine dei significati perché si corre il rischio di dare consigli, di dire cosa è bene e cosa è male per l’utente, infatti, “Solo il paziente ha facoltà di capir-si nel sintomo e di coglierne la verità (F. Perls et al., 1997, 59)”. La collega nel darmi il consiglio di non tenere le braccia conserte, a mio avviso, confondeva gli ordini del discorso tra ciò che significa e ciò che ha senso, tra “segno” e “simbolo”. Per questo le professioni di cura, forse, coincidono col mestiere di vivere. Su questo versante l’uomo è realmente una cosa e il suo contrario.
Ogni osservazione, quindi, che trascuri la relazione Corpo Mondo è deficitaria. Tutto ciò ci induce a pensare che sia, quindi, impossibile e fuorviante tentare di comprendere e osservare una persona, nel caso della collega, a prescindere dal campo di cui essa è parte.
Ecco, perché condivido ciò che scrive Gianmaria Formenti.
Ti ringrazio.
Un abbraccio.
Tanto piu’ evidente in
Tanto piu’ evidente in contesti dove predomina il linguaggio corporeo. Per assurdo in una istituzione come il carcere la “patologia” sta nel linguaggio verbale, quello che dovrebbe essere invece la qualità superiore dell’uomo. Un linguaggio povero, stereotipato, privato di necessita’ dalla possibilita’ di veicolare emozioni. Forse in un eccesso di romanticismo c’e’ chi ha detto che il detenuto sulla pelle scrive la propria storia come l’uomo delle caverne la incideva sulle rupi. Non per nulla il carcere e’ stato paragonato ad una paleocomunita’.