Nate alla fine del percorso legislativo (legge 9/2012, legge 57/2013, legge 81/2014) di chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, le REMS sono strutture sanitarie definite dalla Legge con principi corretti e condivisibili quali:
- la priorità della cura necessaria;
- la territorialità delle cure;
- la centralità del progetto terapeutico individualizzato, la cui assenza non può comunque fondare un perdurante giudizio di pericolosità sociale;
- la residualità e transitorietà della misura di sicurezza detentiva: il ricovero in Rems è una extrema ratio.
Principi che sono stati richiamati dalle Delibere e risoluzioni del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) per ribadire il carattere residuale della misura di sicurezza in REMS da un lato, e dall’altro per assicurare un rapporto di costante collaborazione, scambio di informazioni e conoscenza capillare del magistrato con la rete dei servizi di salute mentale, che fanno capo al DSM, al quale spetta la responsabilità di prevenzione cura e riabilitazione dei problemi di salute mentale.
Principi virtuosi, rispettosi dei diritti fondamentali, che però a conti fatti con la realtà, non hanno trovato completa risposta nella pratica quotidiana, come hanno evidenziato di recente le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Sentenza Sy c. Italia) e la Corte Costituzionale con la Sentenza n. 22/2022.
Nel primo caso, la Corte di Strasburgo ha esaminato il caso del sig. Sy, sofferente di disturbi psichiatrici seri e autore di reati gravi, ritenuto bisognoso di cure incompatibili con la detenzione in carcere, e pericoloso socialmente; per tali motivi, destinato ad una REMS.
Il sig. Sy è rimasto però in carcere quasi due anni, attendendo di entrare nella “sua” REMS.
Alla fine, molto, troppo tempo dopo, vi è entrato, ma solo a seguito di una misura cautelare (ad interim ex art. 39 regolamento della Corte) della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Ordine della Corte eseguito però solo 35 giorni dopo, come ha precisato la Sentenza nel condannare l’Italia per violazione della Convenzione anche sotto tale profilo, per un ritardo correttamente ritenuto non giustificabile.
La Corte di Strasburgo è giudice del caso concreto, decide su ricorsi individuali, accertando la violazione dei diritti protetti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Ma la violazione dei diritti dell’uomo protetti dalla Convenzione accertati nel caso concerto ed individuale del sig. Sy (art. 3 CEDU divieto di trattamenti inumani o degradanti: art. 5§1 diritto alla libertà ed alla sicurezza personale; art. 5§5 diritto al risarcimento; art.6§1 diritto ad un giusto processo; art. 34 diritto ad un ricorso individuale) è solo la punta dell’iceberg di una situazione generale.
Situazione generale che la Corte stessa di Strasburgo potrebbe definire un “problema sistemico”, se si trovasse di fronte ad un numero elevato di ricorsi individuali per situazioni analoghe a quella del sig Sy, come accadde per il sovraffollamento carcerario italiano, con la sentenza Torreggiani c. Italia ad esempio.
La carcerazione, afferma giustamente la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non fa perdere al detenuto i diritti tutelati dalla CEDU; al contrario, proprio per la vulnerabilità della sua condizione di detenuto, questi, essendo privato della libertà e sotto la totale responsabilità dello stato, può avere bisogno di maggior tutela.
Anche la Corte Costituzionale con la Sentenza n. 22/2022, di pochi giorni successiva a quella di Strasburgo, si è occupata della situazione delle REMS.
Pur ritenendo inammissibile la questione di legittimità costituzionale ad essa sottoposta, la Corte Costituzionale, attraverso una propria istruttoria, ha fotografato la situazione delle REMS e dei pazienti di autori di reati gravi, pericolosi socialmente, ma non imputabili per la propria condizione patologica.
La Corte Costituzionale ha dimostrato che il caso del sig. Sy deciso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma anche quello del sig. P.G. che aveva originato la questione di costituzionalità davanti a sè, non sono casi eccezionali, ma sono dimostrazioni evidenti di un difetto di sistema.
Il tempo medio di permanenza in lista d’attesa per essere inserito in una REMS è infatti di 304 giorni, cioè circa dieci mesi; ma, ci dice la Corte Costituzionale, sono dati che seppure negativi, non fotografano la situazione reale, che è ancora peggiore.
Perché se in molte Regioni le liste d’attesa per entrare in una REMS sono un fenomeno marginale, in cinque regioni (Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio) si concentra il 78 per cento del fenomeno: in Sicilia si rilevano nel 2021 ben 172 persone in lista d’attesa, pari a poco meno di un terzo del totale, con un tempo medio di permanenza in lista d’attesa di 458 giorni, cioè di 15 mesi.
La Corte Costituzionale afferma che le principali difficoltà di funzionamento dei luoghi di cura per la salute mentale esterni alle REMS per gli imputati e le persone assolte in via definitiva per infermità mentale sono ascrivibili:
1) alla carenza di risorse (personale, strutture e finanziamenti) allocate non solo per la realizzazione e la gestione delle REMS, ma destinate ai servizi di salute mentale, cui è dedicato solo il 2,9 per cento delle risorse complessive per il SSN;
2) alla mancanza di efficace coordinamento tra l’amministrazione della giustizia e i servizi sanitari territoriali;
3) last but not least, alla complessità psichiatrica, sanitaria, sociale e giudiziaria di alcune situazioni, che richiedono particolare impegno per costruire la motivazione alla cura e per favorire una sufficiente adesione della persona ai progetti terapeutici proposte: perché senza adesione, senza consenso del paziente, non esiste progetto terapeutico degno di tale nome che possa funzionare, ci insegnano i clinici.
Eppure, le prestazioni erogate nelle REMS sono comprese nei Livelli Essenziali di Assistenza come le prestazioni dei servizi di salute mentale territoriali e come tali dovrebbero essere garantite ai cittadini.
Insomma, la situazione delle REMS non è un’isola, peraltro infelice, nel panorama della salute mentale, perché il problema – dice la Corte Costituzionale – rientra in una situazione di forti differenze tra le Regioni, tuttavia accomunate da un dato nazionale che è la carenza di risorse destinate alla salute mentale.
Il mancato rispetto del diritto di alcuni/e è sempre il mancato rispetto del diritto di tutti/e. Anche in questo caso è vero. Altrimenti, come diceva Gino Strada, non chiamateli diritti, ma privilegi.
Il mancato rispetto dei diritti dei pazienti psichiatrici autori di reato, che incrociano quindi la giustizia penale non è un problema esclusivamente loro, non deriva solo dalla carenza di fondi per le REMS, ma deriva dalla insufficiente tutela della salute mentale di tutti/e, evidente dalla mancata messa a disposizione di fondi sufficienti per fare prevenzione e cura. Per avere non solo REMS, ma assistenza territoriale degna di questo nome su tutto il territorio nazionale, strutture residenziali e semi residenziali, per l’eta evolutiva ed adulta.
Afferma infatti la Corte Costituzionale che “secondo il Sistema informativo per la salute mentale (SISM), nell’anno 2019 la spesa complessiva per l’assistenza psichiatrica è stimata pari a 65 euro per residente. A livello nazionale, la spesa ammonta a 3,3 miliardi di euro, pari a circa il 2,9 per cento della spesa per il SSN – una percentuale in riduzione rispetto agli anni precedenti. A livello regionale, la percentuale appare differenziata, e in ogni caso nettamente inferiore all’impegno assunto dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, in occasione della prima Conferenza nazionale sulla salute mentale nel gennaio 2001, di destinare almeno il 5 per cento dei fondi sanitari regionali per le attività di promozione e tutela della salute mentale.”.
Per la salute mentale in Italia, insomma, si spende circa la metà di quanto già ritenuto necessario vent’anni fa.
Tornando allo specifico delle REMS, siamo certamente di fronte ad un vero e proprio intollerabile problema “sistemico”, che rappresenta una violazione dei diritti fondamentali.
Come ricorda la Corte Costituzionale, un ritardo di mesi e persino di anni nell’eseguire la misura di sicurezza nelle REMS e l’impossibilità di trovare soluzioni alternative in mancanza di posti disponibili, “comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche, e già autore spesso di gravi o gravissimi fatti di reato, potrebbe nuovamente realizzare, e che l’ordinamento ha il dovere di prevenire. Dall’altro, la mancata tempestiva esecuzione di questi provvedimenti lede, al contempo, il diritto alla salute del malato, al quale nell’attesa non vengono praticati i trattamenti – rientranti a pieno titolo tra i LEA (…) che dovrebbero essergli invece assicurati, per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società”.
Ed ecco allora quale è il paradosso della Salute Mentale in Italia.
E’ il paradosso di un paese che per Legge ha eliminato 44 anni fa il manicomio. (1)
Il paradosso di un paese che molti anni dopo ha proclamato, con Legge 81/2014, la chiusura degli Ospedali psichiatrici Giudiziari nel 2015 per aprire le REMS, strutture sanitarie per quegli autori di reato sofferenti di patologie psichiatriche dei quali sia stata accertata la pericolosità sociale, senza prevedere risorse sufficienti.
Il paradosso di un paese che spende troppo poco per la salute mentale, nonostante l’ultimo rapporto UNICEF ci rappresenti il suicidio come seconda causa di morte (la prima sono gli incidenti stradali) nei giovani di età compresa tra i 15 ed i 19 anni; nonostante in Italia si stimi che, nel 2019, il 16,6% dei ragazzi e delle ragazze fra i 10 e i 19 anni soffrano di problemi legati alla salute mentale, circa 956.000 in totale. Fra le ragazze, la percentuale è maggiore (17,2%, pari a 478.554) rispetto ai ragazzi (16,1%, pari a 477.518).
Numeri drammaticamente aumentati, ma che sono gravi anche per quanto riguarda gli adulti di oggi.
Numeri letteralmente esplosi con la pandemia per gli adulti e soprattutto nei bimbi e nei giovani, che si rifletteranno inevitabilmente, senza un intervento efficace, sulla popolazione adulta che diventeranno domani.
Ma il paradosso della salute mentale non è solo rappresentato da norme, magari bellissime, alle quali corrisponde un costante decremento di risorse provocando una realtà applicativa desolante come nei casi, ad esempio, del sig. Sy e del sig. P.G. di cui si sono occupate le Corti e dei molti altri csi dei quali si occupano i tanti Magistrati di Sorveglianza.
E’ anche il paradosso di un paese che ha delle risorse.
Un paese che visto nascere luoghi di cura alternativi (ed antitetici) al manicomio ed anche agli ospedali psichiatrici, strutture residuali per la cura della Salute mentale destinati alle sole forme di acuzie.
Il paradosso di un paese, l’Italia, che possiede molte Comunità terapeutiche, rappresentate da FENASCOP, in diversi casi specializzate nella cura di pazienti psichiatrici in età evolutiva o giovani ed adulti autori di reato, che non vengono sempre adeguatamente valorizzate ed utilizzate dai servizi territoriali dei Dipartimenti di Salute Mentale e che potrebbero persino rappresentare una alternativa alle REMS.
Comunità terapeutiche collocate all’interno di un servizio territoriale da potenziare e riformare e nel quale spesso rappresentano un corpo estraneo anzichè essere parte di un percorso terapeutico. A volte sono persino l’unico percorso terapeutico possibile ed erogato dal Servizio pubblico, perchè una volta usciti dalla comunità c’è il vuoto.
Oggi assistiamo ad dibattito sulla salute mentale che troppo di frequente oscilla tra l’autoreferenzialità di un sistema pubblico che si auto-valuta e talvolta auto-assolve, che si perde nella definizione delle strutture extra ospedaliere psichiatriche poi declinate in vari modelli regionali inspiegabilmente differenti per quanto riguarda i requisiti strutturali, di personale e le tariffe applicate, ma all’interno dello schema unico nazionale fatto di acronimi per rappresentare livelli differenti di intensità terapeutica, o meglio livelli di spesa sanitaria: SRP1, SRP2, SRP3.
Un dibattito sulla salute mentale che nella migliore delle ipotesi rimane affidato agli addetti ai lavori e sempre più spesso ai giudici amministrativi (FENASCOP suo malgrado ha costruito una importante giurisprudenza amministrativa sulle tematiche dell’assistenza psichiatrica extra ospedaliera), persino affidato, nei casi estremi che riguardano le REMS, alla Corte Costituzionale e alla Corte di Strasburgo.
Un tema che però, di fronte ad una vera e propria emergenza sanitaria della Salute mentale a lato dell’emergenza pandemica, quando approda in parlamento lo fa con il “bonus psicologo”, che lo stesso attuale Presidente del Consiglio Draghi ha definito “piuttosto un ristoro, che un bonus”.
Il bonus psicologo, tuttavia, non è nemmeno un ristoro, ma la conferma che se hai bisogno di psicoterapia te la devi pagare, esattamente come se vuoi la bicicletta te la devi comprare. Al massimo, lo stato ti da un’una tantum simbolico.
Allora, oggi, per la salute mentale che si incrocia con la giustizia penale (ma vale anche per tutta la salute mentale) è urgente rendere disponibili risorse e aprire, prima che sia troppo tardi, un dibattito vero tra tutti i soggetti istituzionali e non, proseguendo il timido ed insufficiente inizio della seconda conferenza sulla salute mentale, tenutasi l’anno scorso a ben vent’anni dalla prima.
Dibattito che deve coinvolgere quelle realtà che sono nate prima ancora della chiusura dei manicomi e che si sono sviluppate dopo la L. 180/78: le Comunità Terapeutiche così necessarie e così utilizzate – seppure sottovalutate non di frequente – dal sistema Sanitario Nazionale stesso.
Un coinvolgimento delle Comunità terapeutiche psichiatriche non risolverà il problema delle REMS denunciato dalle Corti nazionali ed internazionali, ma può intanto può ovviare innanzitutto alle problematiche di pazienti non idonei per le REMS o in attesa di posto nella REMS.
Senza voler negare l’esistenza della pericolosità sociale e della necessità di strutture anche con funzioni di custodia oltre che di cura come le REMS, esistono e devono esistere i servizi territoriali, le strutture residenziali come le Comunità Terapeutiche, le strutture semi-residenziali e altre soluzioni territoriali.
Insomma, occorre aprire un dibattito esteso anche alle Comunità Terapeutiche psichiatriche ed alla loro rappresentanza, perché il problema delle REMS rappresenta la punta dell’iceberg di un problema più grande, che è la politica sanitaria italiana relativa alla salute mentale. Aprirlo oggi, per il futuro prossimo venturo e più oltre.
(1) Anche se bisogna precisare che, ad onor del vero l’Italia ha chiuso effettivamente gli ultimi manicomi solo vent’anni dopo e solo grazie ad una piccola norma inserita nella Legge finanziaria, voluta allora dalla Ministra Bindi, che avrebbe penalizzato i trasferimenti di risorse statali verso le regioni che, alla scadenza del termine assegnato, non avessero chiuso eventuali Ospedali Psichiatrici ancora esistenti sul proprio territorio.
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