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Quando l’analista viene meno. 3. Il buio della diagnosi

20 Apr 20

A cura di info_1

(…) Il buio calò dopo un rumore carta. Non era lo zolfanello col quale mia nonna strideva il giornale  e lo incendiava lasciando nella stanza che si faceva scura per la notte un odore di cenere. Era quello  di una banconota stropicciata e gettata con disprezzo a  terra. Ero giovane, lavoravo poco. Non potevo dare di piu'.

La ricordo bene la depressione, come arrivò, quella notte che non si schiariva piu’. Camminavo stordito, non c'era nel mio piccolo paese alcuna protezione, alcun rifugio. Le cose non tenevano piu’ il loro posto : i vicoli, il quartiere moderno, la pizzeria. Mentre si sprofonda le cose del mondo integro vacillano, si fanno liquide.  Più cerchi di aggrapparti ad esse, più si rarefanno Tutto il mondo che mi circondava,  dal negozio di biancheria  ai ricambi auto, entrava ed usciva, barcollava. Si sottraeva al suo ruolo di essere un punto fermo. Rimandava l'idea che questa fosse la normalità: non esistono punti fermi, tutto è scorrevole. Ho ritrovato anni dopo queste stesse mie sensazioni nel libro ‘l’uomo che trema’, di Andrea Pomella. 
 
‘Io così’ non posso continuare. Devo confrontarmi con qualcuno  
 
Era un irruzione, proprio quella descritta da   Facchinelli nel suo commento al testo  ‘Un singolare gatto selvatico   ; un oggetto sconosciuto e irriconoscibile agli occhi dell’analista prima, dei commentatori poi, si presenta sulla scena del setting psicoanalitico. Jean-Jacques Abrahams entra nello studio del suo analista e accende un magnetofono, un vecchio registratore, con l’intenzione di registrare il colloquio. “Credevo di dovergli [all’analista] far parte del risultato delle mie riflessioni, fatte nell’intervallo, sullo scacco di ciò che era stata questa interminabile relazione analitica”. L’atteggiamento è recriminatorio, il paziente chiede all’analista che gli vengano “resi dei conti”, che risponda a una imputazione pronunciata nei confronti dell’analista e della psicoanalisi tutta.
 
So bene cosa voleva il protagonista. Conosco bene il desiderio di urlare al mondo qualcosa che il mondo non può capire. Avvertivo la necessità di far uscire ciò che mi stava abbattendo. Volevo restasse traccia di quel momento, non volevo che quelle parole sfumassero come la memoria di HAl 9000. Cercavo di fare luce su quello che, lo imparerò solo dopo a mie salate spese, sarebbe divenuto quel punto zero dal quale la ripetizione del trauma  iniziò a mutare in quotidianità. Volevo, ingenuamente, che qualcuno vedesse e sentisse.  ‘Perché non te ne sei andato prima?’. Partiamo dalla prima ovvia domanda, non tanto ovvia per chi conosce i meccanismi del transfert. Non è semplice chiudere, o essere estromessi da un'analisi. Anche se è una cattiva analisi. Le modalità di uscita da un luogo nel quale sei legato con lembi di pelle devono seguire indicazioni di chirurgica cautela e precisione. Chiudere in modo unilaterale è un opera pericolosissima, per la quale ci vuole tatto, sensibilità, mestiere.   L’analisi è un abito su misura, costruito con fatica sartoriale, come per tutti gli analizzanti. Qua si marca la differenza tra la psicoterapia standardizzata e l’opera di sartoria uno per uno dell’analisi.  Nel corso del tempo analitico, possono accadere molte cose, diverse interferenze concorrono a mutare il  rapporto portandolo ad una deriva di tipo malsano. Cambiamenti e distorsioni che si iscrivono su un abito che ha avvolto il paziente. Ci sta, fa parte del gioco. Io stesso in seduta avverto dei mutamenti di ordine transferale che impediscono il proseguo degli incontri.  Nei corsi di preparazione per volontari , una delle prime cose che vengono insegnate in caso di incendio, è quella di non strappare mai brutalmente i drappi dal corpo dell’ustionato, perché si corre il rischio di cavare via brandelli di carne. Quell’abito va tolto con    mano da orefice, quale dovrebbe essere quella dell’analista. 
 
I fili un tempo tesi con pazienza mi staffilarono in faccia e  si attorcigliarono come rovi. Avevo bisogno di districarli, di prendere alcune parti del groviglio e portarle con me. Non fu possibile. Pochi giorni dopo la chiusura  il cuore mi tradì.   Il medico, che oggi cura il mio cuore, sin dalle ore successive al mio tonfo, mi disse : ‘lascia immediatamente il luogo che stai frequentando, ti sta uccidendo!’.  
 
Quando dovevo mollare? Bè, le occasioni, viste retroattivamente, non mancavano. Ricordo la faccia stranita dell’amico medico quando, in riva al mare, raccontavo patimenti e situazioni che , mentre le narravo, apparivano alle mie stesse orecchie una follia pura. 
 
Era una fredda mattina di dicembre:   ‘Pronto?Ora  non posso parlare perché il treno mi sovrasta la voce! Alcuni giorni dopo, questa frase divenne la certificazione di una parte scissa in me che non poteva parlare perché bloccata da un nucleo paranoico.  Il mio male al cuore, che aumentava esponenzialmente, era il segno di una parte divisa che indicava la mia mancata assunzione di responsabilità…
Ricordo la faccia incredula dell’amico medico mentre raccontavo queste cose.   
Perché non sei scappato a gambe levate? Vedi sopra.. 
 
Il mal di cuore non mi ha mai piu’ abbandonato.  
 
Per dieci anni e passa sono stato costretto a rivivere quelle scene, quei momenti drammatici e devastanti. Di notte, di giorno.   La definizione che ne da la scienza , oggi, è ‘ tako tubo’. In pratica il cuore inizia a ingrossarsi e dolere, quasi compresso in una gabbia, ogni qual volta si ripresentano le condizioni stressanti che ne hanno ingenerato la nascita. Nel mio caso, un disturbo post traumatico da stress ormai cronico.    Il cuore, oggi come anni fa, reagisce come se quel momento fosse ora, adesso, ed entra in sofferenza. Questo continuo inferno mi ha portato, in questi anni, ad avere un miuscolo che ‘pompa’ ben al di sotto le sue possibilità.    Una tortura senza fine, un calvario divenuto realtà. quell’S1 d cui parla Lacan quando dice che il trauma si va a mettere a capofila della nuova vita psichica del soggetto e lo condanna al giorno della marmotta.
 
Il mio tentativo di ‘irruzione’ non era un passaggio all’atto, formula utilizzata per svilirlo   Il passaggio all'atto è ribellione insensata, e follia che si materializza.   Come accadde al protagonista,    ogni mia azione era invalidata ascrivendola a follia. Io ero si ribelle, io sì mordevo il freno di un rapporto clinico che mi abbatteva , e lo dicevo.   Anche questo significa essere analizzante. 

Cercare un ‘irruzione’, era invece  dare forma ad un acting out
 
I meccanismi del transfert sono a volte insondabili, motivo per il quale si assegna la  posizione di analista chi forse non ne ha  il desiderio, la forza, la capacità di restarvi. Il passaggio che fa Lacan nel Seminario X è molto preciso. ' l 'acting out è qualcosa  nella condotta del soggetto che si mostra. Sottolineiamo l'accento dimostrativo di ogni acting out e il suo orientamento verso l'Altro' (……) è un abbozzo di transfert.  Il soggetto sa benissimo che quello che fa  nell'acting out  lo fa per offrirsi alla vostra interpretazione'  'L'acting out  dunque si rivolge all'Altro e, se si è in analisi, si rivolge all'analista'. Se ha preso quel posto, tanto peggio per lui. Ha nondimeno la responsabilità che pertiene al posto che ha accettato di occupare'….
Valeva  per me, valeva perAbrahams
 
Ho incontrato in tutti questi anni di lavoro e confronto   l’uso  del termine passaggio all’atto come comodo strumento modo per chiamarsi fuori da situazioni mal gestite.  
 
L'isterica che si lascia cadere sugli scalini della scala dello studio dell'analista ( compiendo un acting out) , magari perchè questo non aveva voglia o tempo di riceverla, diventa un 'passaggio all'atto' che discolpa chi non riesce ad occupare tale posizione. ' Ma vedete, è un passaggio all'atto ' si dice per indicare di aver fatto il possibile senza successo.  Vulgo: ' è pazza, non risponde all'analisi.'
 
Quanti  analizzanti vedono deflagrare psicosi sottostanti rimaste tali per anni,  a causa di interpretazioni selvagge', e poi mollati perchè ingestibili adducendo che 'hanno fatto passaggi all'atto’? Troppi. Questo dice, ancora una volta, quanto sia delicato e complesso assumersi la responsabilità di quel posto e autorizzarsi.   Un mestiere impossibile. 
 
Facchinelli ha scritto, a proposito del Gatto Selvatico: Ora, se qualcuno – dopo aver rotto col suo analista, essere stato ricoverato con la violenza in ospedale psichiatrico una settimana dopo, esserne evaso rompendosi una mano – se qualcuno se ne viene fuori con un testo di questa forza, che spedisce alla persona giusta, in grado di pubblicarlo, ebbene bisogna pur ammettere che in questa persona è avvenuto uno scatto, una invenzione nella realtà che dovrebbe porre seri interrogativi a un analista.
 
Doyle Lonnegandel  film ‘la stangata’   si reca in una sala corse clandestina, fatta di pareti e cemento, con dentro allibratori, telescriventi e scommettitori. La prende per vera, ma non la era. Fa una scommessa in denaro, la perde, paga. Quando torna dentro per capire dove siano finiti i suoi soldi,    non c’è piu nessuno. Smantellata la sala, scomparsi gli attori. Ma lui il denaro non lo ha piu. Nessuno può credergli, perché sul ciglio della strada la costruzione è stata  nottetempo smantellata .   Nessuno risponde piu’ al telefono.
 
Un insegnamento che ho messo a frutto, è che l’economia psichica, cosi’ come la si conosce, può mutare. La produzione onirica, fatta di residui diurni che si intrufolano, o materiale del passato che cerca di manifestarsi adattandosi alle regole della censura, dando una sorta di continuità al percorso inconscio del soggetto  , può collassare quando il trauma fa il suo ingresso e prende tutto lo spazio prima e  dopo.   Le scene traumatiche, e l’ho ben visto nei racconti dei militari al fronte, diventano un monologo che si ripete, ottusamente e senza uno sbocco, non si prestano ad interpretazione, semplicemente come il monolito di 2001 Odissea nello Spazio,occupano la strada, e da li bloccano le libere associazioni, frantumano la logica della censura e  della ricostruzione.
Un buco nero   il sentiero dei ricordi e delle associazioni a questi connesse, creando un infernale stasi del tempo, cristallizzato al momento del trauma.
 
Conosco questo inferno da molti anni, quando tutto mi crollò addosso.

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