Sessione plenaria
"CURE, FARMACI E RIABILITAZIONE: LUNGO TERMINE E TIPOLOGIA DEI TRATTAMENTI COMUNITARI QUALI ELEMENTI CONDIZIONANTI LE INDICAZIONI E L'UTILIZZO DEGLI PSICOFARMACI"
Moderatori: G. Di Leo, F. Scotti
La mattina si apre con il ringraziamento del Dott. Di Leo a tutti gli organizzatori ed al gruppo di lavoro che ha permesso la realizzazione del congresso, e sottolinea l'argomento odierno, l'integrazione tra l'intervento psicofarmacologico e quello psicoterapeutico in CT (Comunità Terapeutica). Significato del convegno è testimoniare la collaborazione nascente con le case farmaceutiche, e restituire alle CT la visibilità, riaffermando il diritto alla prevenzione, cura e riabilitazione della malattia psichiatrica. La parola passa al Dott. F. Scotti, che esprime l'esigenza che qualcuno valorizzi i contributi presentati al convegno e li renda fruibili sul piano pratico al di fuori di qui, ed è un impegno che, come membro del Comitato Scientifico Fenascop, accetta di assumere. Spesso nelle CT si scontrano finalità, culture, ma anche mitologie diverse, in un confronto tra competenze e mondi culturali: è importante parlare delle difficoltà dei pazienti che devono metabolizzare le tante esperienze ed i tanti regimi delle CT, in cui a volte il problema è rappresentato dall'eccesso, o meglio dall'incongruenza degli stimoli. Si fa riferimento al paradigma bio-psico-sociale, ed alla sua applicazione, riuscita o meno, e si ricorda in seguito quanto diceva Rosenfeld sull'uso del trattamento psicofarmacologico nei pazienti in analisi, in cui l'isolamento degli affetti può essere effetto del farmaco, e ci si chiede se questo possa essere applicato anche ad altri trattamenti.
La prima relazione, dal titolo "Lo stato dell'arte del trattamento psicofarmacologico in ambito comunitario", è a cura del Prof. R. Tatarelli, che esprime la profonda convinzione dell'importanza del trattamento farmacologico nelle CT, e propone un'introduzione storica della psichiatria partendo dall'opera di W. Hogarth "L'inferno del Bedlam Asylum", del 1763, che può ben illustrare la psichiatria precedente all'era psicofarmacologica, e proseguendo con immagini dei principali ospedali psichiatrici, uno per tutti il Burgholzi di Zurigo, fino alla rivoluzione di Pinel, ed infine al superamento del manicomio, non trascurando l'importanza dell'aspetto architettonico.
Storicamente l'introduzione dei neurolettici antipsicotici è stato un fattore importante nella deistituzionalizzazione. L'era farmacologia risale agli anni '50, ed il paziente grave, con la sperimentazione della clorpromazina, non è più visto come una persona con cui non si può comunicare, e nasce una certa forma di movimento antipsichiatrico che permette di legittimare la rivoluzione antimanicomiale. La storia del movimento anti-istituzionale è lunga e complessa, se si pensa che negli USA già l'amministrazione Kennedy fece un sommovimento fondamentale dalla centralità ospedaliera al territorio.
Il modello bio-psico-sociale di Engel (1977) sottolineava la necessità di integrazione della malattia mentale, nonché la primaria importanza della farmacoterapia nel mettere il paziente psichiatrico in condizioni più vantaggiose per poterlo gestire. L'insegnamento è incentrato sulla persona, e non sull'organo e sulla malattia, ma alla realtà dei fatti attuali è stato difficilmente messo in atto, ed i tentativi di didattica integrata bio-psico-sociale sono purtroppo falliti.
Con riferimento ad un'indagine condotta in una CT residenziale del Lazio, emerge che nelle CT la farmacoterapia è ampiamente utilizzata, gli Antipsicotici (AP) atipici stanno sostituendo i tipici, ma spesso coabitano, ed i pazienti prendono molti farmaci, a dosaggi variabili ma tendenzialmente alti. Nello studio citato, quasi il 100% dei pazienti assume AP, circa il 60% stabilizzanti.
Emerge che la terapia proveniente dalle strutture territoriali o ospedaliere viene mantenuta dall'ingresso in CT per parecchi mesi, e la polifarmacoterapia è una regola. Inoltre, la percentuale di pazienti che assume antiparkinsoniani è una volta e mezzo quella dei pazienti che assume AP classici, indice di una prescrizione "standardizzata" e discutibile dell'anticolinergico.
Per quanto riguarda l'associazione tra AP, si è visto che il 63% prendeva un solo atipico, il 25% un atipico ed un classico, l'8% un atipico, un classico ed un depot, il 4% due atipici; tra gli atipici il più usato era l'olanzapina, seguita poi da risperidone, quetiapina ed aripiprazolo. Tra i tipici, il primato spetta all'aloperidolo, mentre tra gli antiparkinsoniani il biperidene (40%), mentre inizia a comparire il pramipexolo. Gli stabilizzatori sono usati spesso in associazione con gli AP; per quanto riguarda gli antidepressivi, il più usato, nello studio, era la venlafaxina, mentre nelle CT sembrano essere pressoché scomparsi i triciclici.
In conclusione, c'è bisogno di molta ricerca, poiché la farmacoterapia è diffusissima in CT, gli atipici sono ampiamente prescritti, c'è una tendenza alla polifarmacoterapia, e non è infrequente l'uso dell'atipico associato al neurolettico classico. Si è rilevato uno stano uso dell'antiparkinsoniano, e sul versante degli antidepressivi c'è prevalenza dei "nuovi". Tra gli ansiolitici, si tende ad usare soprattutto quelli ad emivita lunga, più sedativi a lungo termine.
Ci si sarebbe aspettati una riduzione nell'uso dei farmaci in CT rispetto al ricovero ospedaliero, ed invece (pur nel limite e con il significato che lo studio condotto su una sola CT implica) non è accaduto, e questo porta ad una riflessione: nell'esperienza del relatore, risalente agli anni '70, nelle CT effettivamente si verificava una riduzione di prescrizione farmacologia, forse perché era presente un maggior contatto, anche quotidiano, tra lo psichiatra e gli altri operatori, che oggi manca. Spesso nelle CT lo psichiatra farmacologo è un consulente, che interagisce poco con le altre componenti, anche, non si deve dimenticare, per problemi economici di gestione.
Prosegue il Prof. P. Pancheri, con un intervento dal titolo: "Farmaci antipsicotici (AP) (tipici e atipici) nel trattamento residenziale a lungo termine", che anticipa che il suo sarà un discorso tecnico, ma "controcorrente" sul discorso dei farmaci antipsicotici, dando per assunto che la psicofarmacoterapia nel trattamento della schizofrenia è necessaria, così come sono necessari altri interventi associati, e che nei contesti riabilitativi è importantissimo tener conto dell'aderenza al trattamento. Propone una breve storia degli AP, ricordando che la clozapina, chiamato "nuovo" AP, non è affatto nuovo, in quanto risale al 1972, e che anche la differenza tipici/atipici farmacodianmicamente è una differenza criticabile.
Per quanto riguarda l'efficacia, gli studi in doppio cieco controllato, che non sono la pratica clinica, hanno spesso evidenziato come gli atipici abbiano uguale efficacia rispetto ai tipici sui sintomi positivi, apparentemente maggior efficacia sui sintomi negativi, e maggior tollerabilità rispetto agli effetti collaterali. Negli USA gli atipici si usano quasi sempre, in Italia apparentemente si è più conservatori, e si utilizzano ancora i tipici, seppure ridotti. Il problema è che si inizia a riflettere sul discorso tipici/atipici negli Stati Uniti, ed escono meta-analisi sui trattamenti a lungo termine (Geddes, BMJ 2000), le cui conclusioni indicano che non c'è chiara evidenza che gli atipici funzionino meglio o siano meglio tollerati rispetto ai tipici. Per quanto riguarda la prevenzione delle ricadute nel lungo termine, i dati sembrano favorire i nuovi in modo molto modesto (Leucht, 2003), e nel drop out per effetti avversi non ci sono differenze.
Sugli effetti collaterali, in particolare effetti extrapiramidali, in rapporto ai dosaggi utilizzati dei vecchi farmaci, emerge che con dosaggi di clorpromazina inferiori ai 600 mg/die non ci sono differenze nella comparsa di tali effetti, che invece compaiono ad alte dosi. Si deve inoltre ricordare che l'aumento dei dosaggi negli AP tipici non implica aumento dell'efficacia. Questo sfata un mito, ed impone una riflessione: usando dosi basse dei vecchi farmaci abbiamo la stessa efficacia e non abbiamo effetti extrapiramidali. Forse per troppi anni i vecchi AP sono stati sopradosati, forse anche gli americani hanno usato alte dosi, ed ora per questo operano lo switch con i nuovi.
Viene illustrato lo studio CATIE (Clinical Antipsychotic Trials of Intervention Effectiveness) pubblicato sul N.E.J.M. nel 2005, doppio cieco della durata di un anno e mezzo, non sponsorizzato da industrie farmaceutiche, in cui si vede che in pazienti con schizofrenia cronica l'efficacia della perfenazina è comparabile agli altri nuovi atipici, ed anche gli effetti secondari sono comparabili.
Si cita anche uno studio di Leucht del 1999, in cui il "vecchio" aloperidolo, il più potente nel blocco D2, ha un'efficacia comparabile agli atipici secondo valutazione su scala BPRS.
Anche per quanto riguarda i sintomi negativi non ci sono differenze tra farmaci vecchi e nuovi, ed emergono due cose essenziali: se l'aloperidolo è usato a dosaggi minori di 12 mg/die si ottengono migliori risultati rispetto a dosaggi maggiori, e c'è minore drop out per disturbi extrapiramidali; per cui tanti problemi del passato probabilmente venivano più dalle dosi che dai farmaci.
Secondo la meta-analisi di Davis (Archives, 2003) AP atipici versus tipici, quasi tutti gli atipici avevano maggior efficacia rispetto ai tipici, ma in questo studio l'aloperidolo era usato a dosaggi tra 10 e 20 mg, per cui risulta difficile capire quanto dei sintomi negativi potesse dipendere dalle alte dosi. Nel 2002 inoltre il Consensus Statement della WPA diceva che gli atipici sono "tra le opzioni" di trattamento.
Secondo la Cochrane Database Syst. Rev del 2002, basse o alte dosi di aloperidolo danno lo stesso livello di miglioramento clinico, ma ad alte dosi compaiono i disturbi extrapiramidali. A basse dosi inoltre non ho complicanze di tipo cognitivo.
Alcuni studi sull'occupazione recettoriale dei recettori D2 in vivo, tramite PET, hanno dimostrato che la dose terapeutica richiede un'occupazione dei recettori D2 tra il 50 ed il 70%, e che l'aloperidolo a 2 -5 mg è in piena dose terapeutica, mentre a 10-20 mg cura, ma compaiono i disturbi extrapiramidali. C'è l'idea poi che gli atipici diano pochi o nulli effetti extrapiramidali, ma (Lieberman, 2006) i cosiddetti atipici hanno il grosso problema della "sindrome metabolica": aumento di peso, diabete, dislipidemie, da cui i vecchi farmaci sono relativamente immuni.
Pertanto i risultati sono in favore dei vecchi farmaci, se usati in modo accorto. Anche riguardo ai costi, l'aloperidolo costa circa 5 euro al mese, versus più di 200 dell'olanzapina, e si dovrebbe tener conto di questo anche in riferimento alla spesa pubblica sia di paesi come gli Stati Uniti, l'Europa occidentale o il Giappone, ma soprattutto di paesi non economicamente sviluppati.
Segue l'intervento del prof. C. Conforto che parla di integrazione delle culture terapeutiche nella cura dei pazienti in CT. Il concetto di integrazione affonda le sue radici all'inizio del 900 e a questo proposito il relatore cita un carteggio tra Binswanger e Freud in cui quest'ultimo chiedeva consiglio circa il trattamento di un paziente psicotico seguito in analisi. Binswanger gli ha proposto il suo sostengo in quanto psichiatra suggerendogli un periodo di ricovero e di trattamento farmacologico. Negli anni a venire diversi autori hanno trattato il tema dell'approccio integrato sottolineando come i farmaci, in particolare l'aloperidolo, non solo non costruisse una barriere emotiva e relazionale, ma anzi agendo sui sintomi permettesse di entrare meglio in relazione con il paziente. Attualmente l'inevitabilità dell'uso di psicofarmaci durante un trattamento psicanalitico di pazienti psicotici è riconosciuta a livello mondiale. La CT si presenta spesso come il luogo in cui questa integrazione avviene.
Apre la sessione di interventi preordinati il dott. W. Procaccio che ha affrontato il tema del funzionamento, della disabilità e della salute. Prendendo spunto dal libro "Il normale e il patologico" di Canaguilhem, il relatore ha introdotto alcuni concetti relativi alla definizione di malattia e sanità. In particolare la malattia esiste nel momento in cui il soggetto avverte sofferenza e disagio e solo in un secondo tempo interviene la scienza medica a definire questa sofferenza inquadrandola nosograficamente. Bisogna porre attenzione all'utilizzo delle conoscenze scientifiche che non dovrebbero essere applicate acriticamente ai pazienti, ma essere utilizzate per aiutarli. Il confine tra salute e malattia è poco definibile in ambito di comunità, ma lo è molto più per il singolo soggetto per il quale una discrepanza tra le richieste ambientali e la sua capacità di farvi fronte identifica lo stato di malattia. In quest'ottica il relatore prosegue presentando uno strumento messo a punto dall'OMS per la valutazione del funzionamento, della disabilità e della salute, denominato ICF (International Classification of Functioning). Prevalentemente utilizzato nell'ambito della disabilità e validato a livello internazionale, tale scala non classifica la malattia, ma la disabilità e la salute; utilizzato congiuntamente all'ICD-10 accresce la qualità dei dati. Può essere utilizzato da molteplici figure professionali dopo adeguato periodo di formazione. Si articola in 4 parti principali: funzioni corporee, strutture corporee, attività e partecipazione, fattori ambientali.
Prosegue la dott.ssa M. Manetti che affronta il tema "Terapia e riabilitazione, convivere con i farmaci" che esordisce sottolineando come la sfida della riabilitazione sia far convivere terapia, riabilitazione e farmaci. Le difficoltà in quest'ambito sono da ricercarsi nella presenza di studi internazionali poco omogenei tra di loro e di una realtà italiana piuttosto complessa e variegata. Inoltre nell'ambito psichiatrico, rispetto ad altre specialità mediche, cura e riabilitazione non sono momenti disgiunti, ma diventano sempre più sfumati l'uno nell'altro, fino a confondersi con interventi sociali di tipo preventivo. In alcuni casi sarebbe anche più adeguato parlare di abilitazione, perché il paziente non ritorna alla condizione premorbosa, ma acquisisce un nuovo equilibrio basato su acquisizioni ex novo di abilità. A questo punto la relatrice approfondisce il problema della scelta del farmaco nell'ambito del trattamento suggerendo diversi spunti su come scegliere l'antipsicotico migliore: ascoltare e osservare le esperienze del paziente, valutare come questi affronta la realtà della malattia, calcolare "l'amalgama personologica" e infine considerare la situazione complessiva di vita del paziente.
Bisogna anche considerare quali sono gli effetti collaterali del farmaci somministrati. Nell'ambito delle CT viene spesso osservata la cosiddetta disforia da neurolettici che, esprimendosi in associazione a deficit cognitivi e perdita di motivazione, spesso non viene riconosciuta in quanto tale. Essendo questo un fattore prognostico negativo, sembrano da preferire gli antipsicotici di nuova generazione che sono meno frequentemente responsabili dell'insorgenza di tale quadro. Inoltre offrono una maggiore possibilità di scelta e permettono di gettare buone basi per rendere il paziente accessibile alla relazione. Le scelte farmacologiche non possono prescindere dal rapporto con il paziente così come la relazione stessa non può fare a meno del farmaco.
All'interno della CT il paziente convive meglio con i farmaci in quanto in tale contesto è possibile osservare il paziente nel suo rapporto con il farmaco, con il suo disturbo e con il mondo e può discutere a lungo con gli operatori dei propri vissuti inerenti la terapia farmacologia. Non va, inoltre, dimenticato che la speranza è uno dei fattori fondamentali per il processo terapeutico riabilitativo e che convivere con i farmaci è difficile, ma a volte è l'unico modo per poter sperare di vivere meglio.
(A cura di M. Fenocchio, S. Gotelli, W. Natta)
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