Dedicata a Milos Forman, il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo, morto venerdì 17 aprile negli USA.
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Dunque, ci siamo lasciati la volta scorsa nel momento peggiore della storia della psichiatria: lo sterminio dei malati di mente poco prima della shoah e della II guerra mondiale. Il 25 aprile 1945 l’Italia si scopre libera, e deve leccarsi le ferite. Anche il mondo della psichiatria ha le sue, e l’anno successivo al XXIII congresso della SIP si fanno i conti. Si stima che i morti nei manicomi negli anni 1942-45 siano stati tra i 20 e i 30.000 oltre l’atteso. Morti di fame, freddo, mancanza di medicine, in definitiva morti perché entrando in guerra non ci si era preparati all’eventualità di dover garantire i rifornimenti in caso di bombardamenti e/o invasione nemica. Tra gli psichiatri caduti ne ricordo tre: Guglielmo Lippi Francesconi, direttore a Lucca, era caduto in odio ai fascisti locali per non aver accettato di «aggiustare» una perizia come avrebbero voluto ed essersi espresso contro il regime; imprigionato nella fortezza di Massa, viene fucilato in una rappresaglia. Giuseppe Muggia, ex direttore ebreo a Sondrio, deportato ad Auschwitz è inviato con la moglie alle camere a gas all’arrivo. Giovanni Mercurio, psichiatra a Voghera e partigiano, è catturato e deportato a Mauthausen, dove muore di stenti. In molti manicomi hanno trovato rifugio ebrei, antifascisti, renitenti alla leva; ma dai manicomi del nord-est, sotto diretto controllo tedesco, con la complicità della polizia fascista vengono prelevati gli internati ebrei e deportati nei lager. Molti manicomi sono stati bombardati o attraversati dal fronte e si calcola che i morti negli ospedali psichiatrici dovuti direttamente a causa bellica, tra personale e internati, siano stati circa 300. Durante il passaggio del fronte è particolarmente difficile la situazione a Volterra, dove sono gli internati coinvolti nell’ergoterapia a fare funzionare l’ospedale e produrre il cibo in una sorta di autogestione, mentre tra gli ospedali psichiatrici colpiti con più durezza dai bombardamenti ricordiamo Reggio Emilia, del quale era stato rifiutato dalle autorità lo spostamento nonostante fosse vicino a bersagli bellici, e Ancona, dove perse la vita tra gli altri il direttore. Il bombardamento dell’ospedale psichiatrico di Ancona, avvenuto l’8 dicembre 1943, fu reso particolarmente famoso da Franco Basaglia, che lo racconta in Brasile nel 1979:
«Molti psichiatri francesi avevano partecipato alla resistenza contro i tedeschi e i primi programmi di umanizzazione del manicomio erano nati in Francia in quel periodo. In quegli anni si è verificato anche un fatto abbastanza singolare ma in Italia. Era stata bombardata una piccola provincia, Ancona, in cui c’era un manicomio. Una bomba era caduta sul manicomio e non lo aveva distrutto ma la maggior parte dei malati era fuggita. Si era al tempo della guerra e nessuno aveva il tempo di pensare dove stavano matti e non matti… c’erano problemi ben più urgenti, altri pazzi si sparavano l’un l’altro… Dopo la guerra, quando si ritornò alla normalità, la gente cominciò a domandarsi dove stavano i malati di mente. Molti non furono trovati, ma alla fine si scoprì che molti di loro stavano vicino al manicomio, vivendo e lavorando come qualsiasi altra persona. Questo indusse alcuni psichiatri a pensare che il trattamento di quei malati, di quegli internati poteva essere fatto in modo diverso. Ma questo fatto non ebbe alcun seguito».
La guerra, dunque, aveva costretto i pazienti di Ancona ad arrangiarsi, e avevano mostrato di poterlo fare. Ma ciò in Italia, come scrive Basaglia, non ebbe alcun seguito. In Francia e in Gran Bretagna, invece, avvennero cose che lasciarono tracce profonde nella psichiatria. In Gran Bretagna, presso l’ospedale militare di Northfield un giovane ufficiale medico, che poi divenne un famoso psicoanalista ma allora non lo era ancora, Wilfred Bion, ebbe l’incarico di dirigere un reparto dell’ospedale psichiatrico dedicato a soldati indisciplinati con disturbi del carattere. Bion volle provare a consegnare la responsabilità di condurre il reparto ai pazienti, per responsabilizzarli. L’esperimento ebbe un esito disastroso: il reparto precipitò nel disordine, e di lì il disordine si diffuse al resto dell’ospedale; Bion fu cacciato, l’ordine fu restaurato d’autorità nel reparto, ma quel primo esperimento servì a porre le basi del modello della comunità terapeutica.
Altri psichiatri, per lo più anch’essi di formazione psicoanalitica, riprovarono dove Bion aveva fallito, con maggiore successo. Con il termine comunità terapeutica, quindi, oggi noi siamo abituati a indicare delle strutture residenziali sulle 24 ore, ma in origine invece questo termine non designava un luogo, ma un modello di cura basato appunto sull’uso della comunità, del gruppo, per curare. Un modello cioè in cui la cura non era più nelle mani dell’alienista, ma dell’intero gruppo: psichiatri, tutto il personale, e gli stessi pazienti, ai quali veniva riconosciuto un potenziale terapeutico anche rispetto agli altri pazienti. Secondo il modello della comunità terapeutica, che si sviluppò soprattutto in Gran Bretagna, e quello della socioterapia che si sviluppò negli stessi anni in Francia, al medico era chiesto di fare un passo indietro, lasciando più spazio agli altri operatori e ai pazienti stessi. Tom Main, un altro psicoanalista che partecipò a quegli esperimenti, li ricorda così nel 1946:
“Il medico non è più il padrone dei “suoi” pazienti: questi sono affidati alla comunità che deve curarli e a cui appartengono, come vi appartiene lui stesso (…). Si deve sottolineare qui che il medico, educato ad assumere un ruolo grandioso in mezzo ai malati, trova difficile rinunciare al suo potere, assumersi responsabilità sociali nell’ospedale e garantire sinceramente ai pazienti un ruolo indipendente e adulto. Ma anche per il resto del personale le cose non sono facili. E’ arduo vivere in un settore che comporta stress psicologici senza desiderare di far leva sull’autorità, senza soffocare la spontaneità, senza imporre la dipendenza, e soprattutto la legge e l’ordine”.
Già, un ruolo «grandioso». Ricordiamo la statua di Pinel di fronte alla Slapétriére, con il paziente più piccolo accovacciato ai suoi piedi? Tom Main parla di questo. Beh, non è un piccolo cambiamento, dai tempi in cui, con Esquirol, un medico abile doveva avere «nelle mani» il manicomio!
Un sociologo, Robert Rapoport, visita queste prime comunità terapeutiche e ritiene di poterne identificare, in un libro del 1960 che porta un titolo significativo, «La comunità come dottore», le caratteristiche fondamentali in queste quattro:
– democratizzazione: cioè condivisione del potere decisionale nel gruppo, riunito nell’assemblea;
– permissività: cioè funzionare sempre con il massimo grado di tolleranza e il minor numero di regole possibile;
– comunitarismo: cioè attenzione spostata dall’individuo al gruppo (il che era una grande novità per uno psicoanalista), stile confidenziale, condivisione di tempo e spazio e comunicazione aperta tra tutti i membri della comunità
– confronto con la realtà: cioè disponibilità di tutti a discutere i rispettivi comportamenti e impegno a riportare tutto, sempre, a un confronto costante con la realtà,
Negli stessi anni in Francia nasce la «psicoterapia istituzionale» che dà vita a esperienze simili. Nella comunità si condivide teoricamente tutto, e il momento centrale della vita comunitaria è l’«assemblea», cioè il momento in cui tutti i membri si ritrovano e, apparentemente assumono insieme le decisioni.
Ma tutto questo è veramente autentico? Com’è possibile essere una comunità se una parte dei membri consumano lì tutta la loro vita, e un’altra parte (il personale) vi partecipa limitatamente all’orario di lavoro, e poi ha una vita privata fuori? Com’è possibile che tutti partecipino della comunità con lo stesso potere, se una parte dei membri della comunità (il personale) è lì per curare un’altra parte (i pazienti?)? E se il personale, dopo l’assemblea, si riunisce in un luogo nel quale gli altri membri dell’assemblea non sono ammessi, per riflettere alla luce di teorie più o meno condivise al suo interno (ispirate alla psicoanalisi, alla fenomenologia, o altro) sui contenuti emersi dall’assemblea, e orientare la vita della comunità in senso terapeutico? Come è possibile che la comunità operi davvero come dottore, se tra i suoi membri c’è, comunque, uno che è il dottore, altri che sono gli operatori, e altri che sono i pazienti?
Appare evidente, insomma, che la comunità terapeutica è certo più comunitaria, più aperta rispetto al manicomio, ma rappresenta anch’essa un ambiente artificiale rispetto alla «vera società», che continua a non essere di per sé considerata tanto terapeutica, né tanto accogliente; e rappresenta anche un ambiente denso di contraddizioni, che è una comunità, sì, ma non è una comunità di uguali proprio in quanto il fatto di essere «terapeutica» non permette che sia una vera comunità, e fa sì che ci sia qualcuno che è lì per un bisogno di cura e qualcun altro che è lì, perché essere lì e curare è il suo lavoro.
Ma abbandoniamo un attimo questo discorso sui limiti della democratizzazione degli ambienti di cura, la loro apertura alla partecipazione di tutti, la loro trasformazione del paziente da oggetto della terapia (il trattamento morale) a soggetto della terapia propria e altrui (la comunità come dottore) che, anche se non è completa, però è indubbio che con il passaggio dal manicomio alla comunità terapeutica in parte almeno si realizza. Ci soffermiamo ora su un altro processo che interessa la psichiatria del secondo dopoguerra, specialmente nei Paesi anglosassoni e in quelli francofoni: non solo la trasformazione dell’istituzione psichiatrica da manicomio a comunità terapeutica, ma anche l’uscita dall’istituzione verso la società. In questo caso, almeno in Gran Bretagna e negli USA, l’organizzazione della psichiatria segue quella della sanità in generale: in Gran Bretagna si sviluppa un sistema sanitario nazionale che ambisce a portare la cura il più vicino possibile alla persona e a non lasciare scoperto nessuno, e negli USA, un po’ dopo, ambiziosi programmi vanno nella stessa direzione. La psichiatria non rimane indietro e nel mondo anglosassone si sviluppa così la «psichiatria di comunità» (non bisogna confondersi però, il termine comunità indica in questo caso la società nel suo insieme, non un piccolo gruppo, perché il termine inglese «community» significa comunità sia nel senso della comunità ristretta che della comunità come sinonimo di società). E nel mondo francofono si sviluppa la «psichiatria di settore» che mantiene sì l’ospedale psichiatrico, trasformato sul modello della comunità terapeutica dalla socioterapia, ma si basa anche su nuovi servizi che operano nel vivo della società, i reparti di psichiatria che nascono negli ospedali generali (quelli che poi saranno in Italia gli SPDC) e i servizi sul territorio che offrono trattamenti ambulatoriali, domiciliari, centri diurni e operano per il reinserimento della persona nella società, compresi i luoghi di lavoro. Il che pone in modo totalmente diverso rispetto al manicomio, anche trasformato in comunità terapeutica, la questione della riabilitazione. Quello che auspicava Marandon de Montyel, insomma, in parte si realizza: la cura e la riabilitazione si fanno, almeno per la parte più grande, fuori dal manicomio. Un «settore psichiatrico» quindi è formato da un reparto dell’ospedale psichiatrico – i cui reparti perciò non sono più divisi in base ai bisogni dei pazienti (agitati, tranquilli, ecc.), ma in base alla zona di residenza (cioè il settore, o il territorio) cui i pazienti appartengono e a cui ritorneranno appena possibile – dal reparto psichiatrico dell’ospedale generale di quella zona, e dal servizio che opera sul territorio.
Parallelamente a queste due rivoluzioni – cioè il passaggio degli ospedali psichiatrici più aggiornati dal modello manicomiale a quello della comunità terapeutica e il loro collegamento con i luoghi della vita reale attraverso la psichiatria di comunità o di settore – ne avviene una terza, che in qualche misura (è difficile dire «quale misura», ma qualche misura senz’altro), favorisce la diffusione delle due rivoluzioni precedenti, ed è la nascita degli psicofarmaci nel corso degli anni ‘50 con i quali è possibile sostituire in gran parte le violente terapie di shock. Le tre grandi rivoluzioni che investono il mondo della psichiatria tra la seconda guerra mondiale e gli anni ‘50 sono pertanto:
1. La nascita della comunità terapeutica e della psicoterapia istituzionale
2. La nascita della psichiatria di comunità e del settore
3. L’introduzione degli psicofarmaci
In Italia le prime due rivoluzioni si realizzano con una ventina d’anni di ritardo rispetto agli altri Paesi occidentali; nel caso degli psicofarmaci il ritardo è minore. Tra i critici più interessanti della socioterapia francese ricordiamo Frantz Fanon, uno psichiatra di colore nato nella Martinica, che combatté nell’esercito francese durante la guerra e si formò alla socioterapia con Francois Tosquelles, che fu uno dei suoi fondatori. Pubblicò due libri molto importanti, Pelle nera, maschere bianche che è dedicato a una lettura fenomenologica dei vissuti dell’uomo di colore rispetto al bianco; e I dannati della terra, che è dedicato a una lettura fenomenologica e politica dei vissuti legati all’oppressione coloniale francese in Algeria. Infatti, dopo la formazione con Tosquelles, Fanon andò a lavorare in Algeria come psichiatra, entrò a far parte del Fronte di Liberazione, poi si dimise dall’ospedale con una famosa lettera con la quale sosteneva che non è possibile la psichiatria in una situazione nella quale il paziente è vittima dell’oppressione coloniale oltre che della malattia. Poi dovette rifugiarsi a Tunisi dove diresse un ospedale di giorno di neuropsichiatria. Per gli articoli che scrisse in quel periodo Fanon, che morì giovanissimo, è considerato il fondatore dell’etnopsichiatria moderna, ma noi ci soffermiamo invece su un articolo del 1959 nel quale critica la socioterapia perché sostiene che rappresenta comunque una comunità chiusa e artificiale, e ritiene che per l’assistenza psichiatrica siano più adatti i servizi diurni rispetto a quelli sulle 24 ore, perché non sradicano il soggetto dal suo ambiente naturale. Ecco alcuni brani:
«È necessario sottolineare che la «socio-terapia istituzionale» si fonda su istituzioni rigide, griglie strette e schemi stereotipati. Nella neo-società, infatti, non c’è invenzione: non c’è un dinamismo creatore, rinnovatore. Non ci sono delle vere scosse o crisi. La maggior parte delle nostre istituzioni rimane un «cemento cadaverico». Noi pensiamo oggi che il vero ambiente socioterapico sia e rimanga la società concreta stessa».
«L’incontro tra il medico [e anche l’operatore] e il paziente all’interno dell’ospedale diurno si configura come l’incontro tra due individui liberi. Questo è il presupposto necessario di ogni terapia e, in particolare, di quella psichiatrica. Il malato che lascia l’ospedale diurno recupera, varcata la soglia, ogni sua abitudine. Il malato, dopo le sei di sera, è catturato dal complesso gioco delle coordinate sociopersonali che definiscono il suo inserimento nel mondo. Resta in costante rapporto con i luoghi del suo agire quotidiano: tornando a casa incontra il droghiere, il macellaio, il giornalaio. Il cinema, il teatro, le manifestazioni sportive continuano a influenzare la sua personalità suscitando reazioni affettive, opzioni e relazioni dinamiche. Di fatto, non esiste una cesura con l’ambiente esterno e il terapeuta non ha mai di fronte a sé un isolato, un escluso. Si trova, al contrario, a confrontarsi con una personalità le cui relazioni col mondo sono vivaci e attive. Il malato continua a essere coinvolto nella società, nella famiglia, nell’ambiente professionale: non è, quindi, un individuo a cui abbiano “spezzato le antenne”».
«L’ospedalizzazione diurna è perciò di gran lunga la forma d’assistenza psichiatrica più adeguata alla malattia mentale, quella che meglio si adatta alle scoperte moderne sull’eziologia delle malattie mentali. A nostro avviso, affinché uno Stato possa dirsi adeguatamente preparato a svolgere un’efficace attività medico-psichiatrica, è necessaria una moltiplicazione dei centri di psichiatria all’interno di ospedali generali, la maggior parte dei quali dovrebbe essere dedicata all’ospedalizzazione diurna».
Lo stesso anno del lavoro di Fanon, il 1959, uno studioso delle istituzioni cui farà riferimento Basaglia, Russell Barton, nel volume Institutional neurosis descrive la «nevrosi istituzionale» (che Basaglia ridefinirà «istituzionalizzazione», eliminando la metafora con una diagnosi psichiatrica) come un disturbo caratteristico degli ospedali psichiatrici, indagando i problemi di diagnosi differenziale, eziologia, trattamento e prevenzione come se si trattasse di una vera malattia indotta come effetto collaterale dalla cura. Tra i sintomi più tipici riporta apatia, mancanza di iniziativa, perdita di interesse per cose ed eventi che non corrispondano ai bisogni più semplici e immediati, sottomissione e talvolta perdita della capacità di esprimere risentimento per ordini aspri o ingiusti dei quali si è oggetto. Secondo l’autore, la causa della nevrosi istituzionale è incerta, ma può essere associata a fattori caratteristici dell’ambiente (come perdita di contatto con il mondo esterno, forzata inattività, o l’essere sistematicamente oggetto di brutalità, violenza o atteggiamenti derisori, essere oggetto delle decisioni di altri, spersonalizzazione nel senso di vedere attribuito scarso valore ai propri sentimenti, alle relazioni che si sono instaurate, alle piccole proprietà, agli eventi della propria vita). Possono essere importanti anche alcuni effetti degli psicofarmaci, l’atmosfera di reparto, la perdita di prospettive al di fuori dell'istituzione. Nel suo testo Barton si preoccupa anche di dare indicazioni per il trattamento della nevrosi istituzionale, a partire dal ripristino dei contatti dei pazienti, la fornitura di una sequenza giornaliera di occupazioni utili, attività ricreative ed eventi sociali, eliminazione della brutalità e delle umiliazioni in tutti i loro aspetti da parte del personale, incoraggiamento delle relazioni e dell’appropriazione di oggetti materiali. Può essere utile considerare anche una riduzione dei farmaci, in particolar modo sedativi, antipsicotici o farmaci che bloccano provocando come effetto collaterale un irrigidimento muscolare, ed è necessario comunque creare un'atmosfera familiare, amichevole e permissiva e rendere il paziente consapevole del permanere per il futuro della prospettiva di una vita fatta di alloggio, lavoro, reddito e rapporti di affetto, fuori dall'ospedale. Nello schema sottostante, tratto dal libro di Barton, vedete i sette passaggi necessari per la «riabilitazione» del paziente affetto dalla nevrosi istituzionale, partendo da quando siede intorno senza far nulla, finendo con quando via via si rianima e alla fine interrompe il rapporto con l’ospedale e solo può, se lo desidera, frequentare gruppi di autoaiuto di ex pazienti.
Due anni dopo nel libro Asylums il sociologo americano Erwing Goffman descrive la carriera morale del malato di mente da pre-degente, a degente ed eventualmente post-degente come una progressiva degradazione della persona che passa per una graduale ma costante sottrazione di credibilità, di dignità e diritti. Questa degradazione, che ha inizio nella fase di pre-degente e prosegue in quella di degente, determina una speculare reazione del degente che sentendosi trattato come un uomo ormai privo di credibilità, dignità e diritti comincia a viversi egli stesso come tale. Secondo Goffman i fenomeni di degradazione estrema che portavano taluni degenti nei manicomi a perdere persino la capacità di lavarsi o di svolgere i bisogni fisiologici in modo corretto (i «sudici»), rappresenterebbero spesso il grado estremo di questo processo, che viene definito autostigma. Anche il degente che guarisce e ritorna in famiglia e sul lavoro non sfugge del tutto a questo duplice meccanismo, perché continuerà a essere considerato e considerarsi una persona che, avendo passato una malattia mentale, potrebbe non esserne completamente guarito, o ricadervi. Anche una volta uscito dall’ospedale, perciò, rimarrà per sempre un «sorvegliato», affidato più o meno implicitamente ai familiari e obbligato a presentarsi periodicamente ai servizi psichiatrici di comunità. Il che certo è, in qualche misura, inevitabile, ma in parte invece dipende dallo stigma, che è un pregiudizio, una generalizzazione dei quale non si è verificato il riscontro nella singola realtà di quel caso. Vi renderete conto, operando nella riabilitazione, di quanto questi meccanismi che si presentavano in forma grossolana ed evidente nell’ospedale psichiatrico, pesano anche oggi nella vita e dei pazienti e nel nostro lavoro. Dalla lettura di Goffman, e altri studiosi delle istituzioni, Franco e Franca Basaglia, che curano l’edizione italiana del libro, traggono la convinzione che ribaltare questo processo di degradazione restituendo fiducia, dignità e diritti alla persona – cioè guarire il malato dal danno che ha fatto l’istituzione – è la cosa più urgente, per poi aiutarla ad affrontare la follia in se stessa.
Il meccanismo dello stigma: funziona per esempio così: 1. alcuni schizofrenici in certi momenti sono violenti; 2. gli schizofrenici sono violenti; 3. Gino è schizofrenico; 4. quindi Gino è violento e devo averne paura.
LO STIGMA E’ UN PROCESSO ATTRAVERSO IL QUALE LA REAZIONE DEGLI ALTRI CI SPOGLIA DELLA NOSTRA IDENTITA’. E. Goffman
Anche la riabilitazione – che è originariamente un termine usato dagli ortopedici per indicare il ripristino di una funzione prima sospesa, ma è anche un termine usato dai giuristi per indicare la restituzione della pienezza di credibilità, dignità e diritti a un cittadino dopo che ha compiuto un reato e scontato la pena – deve spesso essere preceduta o accompagnata da un lavoro sullo stigma e sull’autostigma. Questo lavoro, come scrive più recentemente Benedetto Saraceno in un libro fondamentale del 1995, La fine dell’intrattenimento, deve essere svolto con modalità key and lock, cioè lavorando con la chiave (la persona) e con la serratura (il contesto).
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Dunque, ci siamo lasciati la volta scorsa nel momento peggiore della storia della psichiatria: lo sterminio dei malati di mente poco prima della shoah e della II guerra mondiale. Il 25 aprile 1945 l’Italia si scopre libera, e deve leccarsi le ferite. Anche il mondo della psichiatria ha le sue, e l’anno successivo al XXIII congresso della SIP si fanno i conti. Si stima che i morti nei manicomi negli anni 1942-45 siano stati tra i 20 e i 30.000 oltre l’atteso. Morti di fame, freddo, mancanza di medicine, in definitiva morti perché entrando in guerra non ci si era preparati all’eventualità di dover garantire i rifornimenti in caso di bombardamenti e/o invasione nemica. Tra gli psichiatri caduti ne ricordo tre: Guglielmo Lippi Francesconi, direttore a Lucca, era caduto in odio ai fascisti locali per non aver accettato di «aggiustare» una perizia come avrebbero voluto ed essersi espresso contro il regime; imprigionato nella fortezza di Massa, viene fucilato in una rappresaglia. Giuseppe Muggia, ex direttore ebreo a Sondrio, deportato ad Auschwitz è inviato con la moglie alle camere a gas all’arrivo. Giovanni Mercurio, psichiatra a Voghera e partigiano, è catturato e deportato a Mauthausen, dove muore di stenti. In molti manicomi hanno trovato rifugio ebrei, antifascisti, renitenti alla leva; ma dai manicomi del nord-est, sotto diretto controllo tedesco, con la complicità della polizia fascista vengono prelevati gli internati ebrei e deportati nei lager. Molti manicomi sono stati bombardati o attraversati dal fronte e si calcola che i morti negli ospedali psichiatrici dovuti direttamente a causa bellica, tra personale e internati, siano stati circa 300. Durante il passaggio del fronte è particolarmente difficile la situazione a Volterra, dove sono gli internati coinvolti nell’ergoterapia a fare funzionare l’ospedale e produrre il cibo in una sorta di autogestione, mentre tra gli ospedali psichiatrici colpiti con più durezza dai bombardamenti ricordiamo Reggio Emilia, del quale era stato rifiutato dalle autorità lo spostamento nonostante fosse vicino a bersagli bellici, e Ancona, dove perse la vita tra gli altri il direttore. Il bombardamento dell’ospedale psichiatrico di Ancona, avvenuto l’8 dicembre 1943, fu reso particolarmente famoso da Franco Basaglia, che lo racconta in Brasile nel 1979:
«Molti psichiatri francesi avevano partecipato alla resistenza contro i tedeschi e i primi programmi di umanizzazione del manicomio erano nati in Francia in quel periodo. In quegli anni si è verificato anche un fatto abbastanza singolare ma in Italia. Era stata bombardata una piccola provincia, Ancona, in cui c’era un manicomio. Una bomba era caduta sul manicomio e non lo aveva distrutto ma la maggior parte dei malati era fuggita. Si era al tempo della guerra e nessuno aveva il tempo di pensare dove stavano matti e non matti… c’erano problemi ben più urgenti, altri pazzi si sparavano l’un l’altro… Dopo la guerra, quando si ritornò alla normalità, la gente cominciò a domandarsi dove stavano i malati di mente. Molti non furono trovati, ma alla fine si scoprì che molti di loro stavano vicino al manicomio, vivendo e lavorando come qualsiasi altra persona. Questo indusse alcuni psichiatri a pensare che il trattamento di quei malati, di quegli internati poteva essere fatto in modo diverso. Ma questo fatto non ebbe alcun seguito».
La guerra, dunque, aveva costretto i pazienti di Ancona ad arrangiarsi, e avevano mostrato di poterlo fare. Ma ciò in Italia, come scrive Basaglia, non ebbe alcun seguito. In Francia e in Gran Bretagna, invece, avvennero cose che lasciarono tracce profonde nella psichiatria. In Gran Bretagna, presso l’ospedale militare di Northfield un giovane ufficiale medico, che poi divenne un famoso psicoanalista ma allora non lo era ancora, Wilfred Bion, ebbe l’incarico di dirigere un reparto dell’ospedale psichiatrico dedicato a soldati indisciplinati con disturbi del carattere. Bion volle provare a consegnare la responsabilità di condurre il reparto ai pazienti, per responsabilizzarli. L’esperimento ebbe un esito disastroso: il reparto precipitò nel disordine, e di lì il disordine si diffuse al resto dell’ospedale; Bion fu cacciato, l’ordine fu restaurato d’autorità nel reparto, ma quel primo esperimento servì a porre le basi del modello della comunità terapeutica.
Altri psichiatri, per lo più anch’essi di formazione psicoanalitica, riprovarono dove Bion aveva fallito, con maggiore successo. Con il termine comunità terapeutica, quindi, oggi noi siamo abituati a indicare delle strutture residenziali sulle 24 ore, ma in origine invece questo termine non designava un luogo, ma un modello di cura basato appunto sull’uso della comunità, del gruppo, per curare. Un modello cioè in cui la cura non era più nelle mani dell’alienista, ma dell’intero gruppo: psichiatri, tutto il personale, e gli stessi pazienti, ai quali veniva riconosciuto un potenziale terapeutico anche rispetto agli altri pazienti. Secondo il modello della comunità terapeutica, che si sviluppò soprattutto in Gran Bretagna, e quello della socioterapia che si sviluppò negli stessi anni in Francia, al medico era chiesto di fare un passo indietro, lasciando più spazio agli altri operatori e ai pazienti stessi. Tom Main, un altro psicoanalista che partecipò a quegli esperimenti, li ricorda così nel 1946:
“Il medico non è più il padrone dei “suoi” pazienti: questi sono affidati alla comunità che deve curarli e a cui appartengono, come vi appartiene lui stesso (…). Si deve sottolineare qui che il medico, educato ad assumere un ruolo grandioso in mezzo ai malati, trova difficile rinunciare al suo potere, assumersi responsabilità sociali nell’ospedale e garantire sinceramente ai pazienti un ruolo indipendente e adulto. Ma anche per il resto del personale le cose non sono facili. E’ arduo vivere in un settore che comporta stress psicologici senza desiderare di far leva sull’autorità, senza soffocare la spontaneità, senza imporre la dipendenza, e soprattutto la legge e l’ordine”.
Già, un ruolo «grandioso». Ricordiamo la statua di Pinel di fronte alla Slapétriére, con il paziente più piccolo accovacciato ai suoi piedi? Tom Main parla di questo. Beh, non è un piccolo cambiamento, dai tempi in cui, con Esquirol, un medico abile doveva avere «nelle mani» il manicomio!
Un sociologo, Robert Rapoport, visita queste prime comunità terapeutiche e ritiene di poterne identificare, in un libro del 1960 che porta un titolo significativo, «La comunità come dottore», le caratteristiche fondamentali in queste quattro:
– democratizzazione: cioè condivisione del potere decisionale nel gruppo, riunito nell’assemblea;
– permissività: cioè funzionare sempre con il massimo grado di tolleranza e il minor numero di regole possibile;
– comunitarismo: cioè attenzione spostata dall’individuo al gruppo (il che era una grande novità per uno psicoanalista), stile confidenziale, condivisione di tempo e spazio e comunicazione aperta tra tutti i membri della comunità
– confronto con la realtà: cioè disponibilità di tutti a discutere i rispettivi comportamenti e impegno a riportare tutto, sempre, a un confronto costante con la realtà,
Negli stessi anni in Francia nasce la «psicoterapia istituzionale» che dà vita a esperienze simili. Nella comunità si condivide teoricamente tutto, e il momento centrale della vita comunitaria è l’«assemblea», cioè il momento in cui tutti i membri si ritrovano e, apparentemente assumono insieme le decisioni.
Ma tutto questo è veramente autentico? Com’è possibile essere una comunità se una parte dei membri consumano lì tutta la loro vita, e un’altra parte (il personale) vi partecipa limitatamente all’orario di lavoro, e poi ha una vita privata fuori? Com’è possibile che tutti partecipino della comunità con lo stesso potere, se una parte dei membri della comunità (il personale) è lì per curare un’altra parte (i pazienti?)? E se il personale, dopo l’assemblea, si riunisce in un luogo nel quale gli altri membri dell’assemblea non sono ammessi, per riflettere alla luce di teorie più o meno condivise al suo interno (ispirate alla psicoanalisi, alla fenomenologia, o altro) sui contenuti emersi dall’assemblea, e orientare la vita della comunità in senso terapeutico? Come è possibile che la comunità operi davvero come dottore, se tra i suoi membri c’è, comunque, uno che è il dottore, altri che sono gli operatori, e altri che sono i pazienti?
Appare evidente, insomma, che la comunità terapeutica è certo più comunitaria, più aperta rispetto al manicomio, ma rappresenta anch’essa un ambiente artificiale rispetto alla «vera società», che continua a non essere di per sé considerata tanto terapeutica, né tanto accogliente; e rappresenta anche un ambiente denso di contraddizioni, che è una comunità, sì, ma non è una comunità di uguali proprio in quanto il fatto di essere «terapeutica» non permette che sia una vera comunità, e fa sì che ci sia qualcuno che è lì per un bisogno di cura e qualcun altro che è lì, perché essere lì e curare è il suo lavoro.
Ma abbandoniamo un attimo questo discorso sui limiti della democratizzazione degli ambienti di cura, la loro apertura alla partecipazione di tutti, la loro trasformazione del paziente da oggetto della terapia (il trattamento morale) a soggetto della terapia propria e altrui (la comunità come dottore) che, anche se non è completa, però è indubbio che con il passaggio dal manicomio alla comunità terapeutica in parte almeno si realizza. Ci soffermiamo ora su un altro processo che interessa la psichiatria del secondo dopoguerra, specialmente nei Paesi anglosassoni e in quelli francofoni: non solo la trasformazione dell’istituzione psichiatrica da manicomio a comunità terapeutica, ma anche l’uscita dall’istituzione verso la società. In questo caso, almeno in Gran Bretagna e negli USA, l’organizzazione della psichiatria segue quella della sanità in generale: in Gran Bretagna si sviluppa un sistema sanitario nazionale che ambisce a portare la cura il più vicino possibile alla persona e a non lasciare scoperto nessuno, e negli USA, un po’ dopo, ambiziosi programmi vanno nella stessa direzione. La psichiatria non rimane indietro e nel mondo anglosassone si sviluppa così la «psichiatria di comunità» (non bisogna confondersi però, il termine comunità indica in questo caso la società nel suo insieme, non un piccolo gruppo, perché il termine inglese «community» significa comunità sia nel senso della comunità ristretta che della comunità come sinonimo di società). E nel mondo francofono si sviluppa la «psichiatria di settore» che mantiene sì l’ospedale psichiatrico, trasformato sul modello della comunità terapeutica dalla socioterapia, ma si basa anche su nuovi servizi che operano nel vivo della società, i reparti di psichiatria che nascono negli ospedali generali (quelli che poi saranno in Italia gli SPDC) e i servizi sul territorio che offrono trattamenti ambulatoriali, domiciliari, centri diurni e operano per il reinserimento della persona nella società, compresi i luoghi di lavoro. Il che pone in modo totalmente diverso rispetto al manicomio, anche trasformato in comunità terapeutica, la questione della riabilitazione. Quello che auspicava Marandon de Montyel, insomma, in parte si realizza: la cura e la riabilitazione si fanno, almeno per la parte più grande, fuori dal manicomio. Un «settore psichiatrico» quindi è formato da un reparto dell’ospedale psichiatrico – i cui reparti perciò non sono più divisi in base ai bisogni dei pazienti (agitati, tranquilli, ecc.), ma in base alla zona di residenza (cioè il settore, o il territorio) cui i pazienti appartengono e a cui ritorneranno appena possibile – dal reparto psichiatrico dell’ospedale generale di quella zona, e dal servizio che opera sul territorio.
Parallelamente a queste due rivoluzioni – cioè il passaggio degli ospedali psichiatrici più aggiornati dal modello manicomiale a quello della comunità terapeutica e il loro collegamento con i luoghi della vita reale attraverso la psichiatria di comunità o di settore – ne avviene una terza, che in qualche misura (è difficile dire «quale misura», ma qualche misura senz’altro), favorisce la diffusione delle due rivoluzioni precedenti, ed è la nascita degli psicofarmaci nel corso degli anni ‘50 con i quali è possibile sostituire in gran parte le violente terapie di shock. Le tre grandi rivoluzioni che investono il mondo della psichiatria tra la seconda guerra mondiale e gli anni ‘50 sono pertanto:
1. La nascita della comunità terapeutica e della psicoterapia istituzionale
2. La nascita della psichiatria di comunità e del settore
3. L’introduzione degli psicofarmaci
In Italia le prime due rivoluzioni si realizzano con una ventina d’anni di ritardo rispetto agli altri Paesi occidentali; nel caso degli psicofarmaci il ritardo è minore. Tra i critici più interessanti della socioterapia francese ricordiamo Frantz Fanon, uno psichiatra di colore nato nella Martinica, che combatté nell’esercito francese durante la guerra e si formò alla socioterapia con Francois Tosquelles, che fu uno dei suoi fondatori. Pubblicò due libri molto importanti, Pelle nera, maschere bianche che è dedicato a una lettura fenomenologica dei vissuti dell’uomo di colore rispetto al bianco; e I dannati della terra, che è dedicato a una lettura fenomenologica e politica dei vissuti legati all’oppressione coloniale francese in Algeria. Infatti, dopo la formazione con Tosquelles, Fanon andò a lavorare in Algeria come psichiatra, entrò a far parte del Fronte di Liberazione, poi si dimise dall’ospedale con una famosa lettera con la quale sosteneva che non è possibile la psichiatria in una situazione nella quale il paziente è vittima dell’oppressione coloniale oltre che della malattia. Poi dovette rifugiarsi a Tunisi dove diresse un ospedale di giorno di neuropsichiatria. Per gli articoli che scrisse in quel periodo Fanon, che morì giovanissimo, è considerato il fondatore dell’etnopsichiatria moderna, ma noi ci soffermiamo invece su un articolo del 1959 nel quale critica la socioterapia perché sostiene che rappresenta comunque una comunità chiusa e artificiale, e ritiene che per l’assistenza psichiatrica siano più adatti i servizi diurni rispetto a quelli sulle 24 ore, perché non sradicano il soggetto dal suo ambiente naturale. Ecco alcuni brani:
«È necessario sottolineare che la «socio-terapia istituzionale» si fonda su istituzioni rigide, griglie strette e schemi stereotipati. Nella neo-società, infatti, non c’è invenzione: non c’è un dinamismo creatore, rinnovatore. Non ci sono delle vere scosse o crisi. La maggior parte delle nostre istituzioni rimane un «cemento cadaverico». Noi pensiamo oggi che il vero ambiente socioterapico sia e rimanga la società concreta stessa».
«L’incontro tra il medico [e anche l’operatore] e il paziente all’interno dell’ospedale diurno si configura come l’incontro tra due individui liberi. Questo è il presupposto necessario di ogni terapia e, in particolare, di quella psichiatrica. Il malato che lascia l’ospedale diurno recupera, varcata la soglia, ogni sua abitudine. Il malato, dopo le sei di sera, è catturato dal complesso gioco delle coordinate sociopersonali che definiscono il suo inserimento nel mondo. Resta in costante rapporto con i luoghi del suo agire quotidiano: tornando a casa incontra il droghiere, il macellaio, il giornalaio. Il cinema, il teatro, le manifestazioni sportive continuano a influenzare la sua personalità suscitando reazioni affettive, opzioni e relazioni dinamiche. Di fatto, non esiste una cesura con l’ambiente esterno e il terapeuta non ha mai di fronte a sé un isolato, un escluso. Si trova, al contrario, a confrontarsi con una personalità le cui relazioni col mondo sono vivaci e attive. Il malato continua a essere coinvolto nella società, nella famiglia, nell’ambiente professionale: non è, quindi, un individuo a cui abbiano “spezzato le antenne”».
«L’ospedalizzazione diurna è perciò di gran lunga la forma d’assistenza psichiatrica più adeguata alla malattia mentale, quella che meglio si adatta alle scoperte moderne sull’eziologia delle malattie mentali. A nostro avviso, affinché uno Stato possa dirsi adeguatamente preparato a svolgere un’efficace attività medico-psichiatrica, è necessaria una moltiplicazione dei centri di psichiatria all’interno di ospedali generali, la maggior parte dei quali dovrebbe essere dedicata all’ospedalizzazione diurna».
Lo stesso anno del lavoro di Fanon, il 1959, uno studioso delle istituzioni cui farà riferimento Basaglia, Russell Barton, nel volume Institutional neurosis descrive la «nevrosi istituzionale» (che Basaglia ridefinirà «istituzionalizzazione», eliminando la metafora con una diagnosi psichiatrica) come un disturbo caratteristico degli ospedali psichiatrici, indagando i problemi di diagnosi differenziale, eziologia, trattamento e prevenzione come se si trattasse di una vera malattia indotta come effetto collaterale dalla cura. Tra i sintomi più tipici riporta apatia, mancanza di iniziativa, perdita di interesse per cose ed eventi che non corrispondano ai bisogni più semplici e immediati, sottomissione e talvolta perdita della capacità di esprimere risentimento per ordini aspri o ingiusti dei quali si è oggetto. Secondo l’autore, la causa della nevrosi istituzionale è incerta, ma può essere associata a fattori caratteristici dell’ambiente (come perdita di contatto con il mondo esterno, forzata inattività, o l’essere sistematicamente oggetto di brutalità, violenza o atteggiamenti derisori, essere oggetto delle decisioni di altri, spersonalizzazione nel senso di vedere attribuito scarso valore ai propri sentimenti, alle relazioni che si sono instaurate, alle piccole proprietà, agli eventi della propria vita). Possono essere importanti anche alcuni effetti degli psicofarmaci, l’atmosfera di reparto, la perdita di prospettive al di fuori dell'istituzione. Nel suo testo Barton si preoccupa anche di dare indicazioni per il trattamento della nevrosi istituzionale, a partire dal ripristino dei contatti dei pazienti, la fornitura di una sequenza giornaliera di occupazioni utili, attività ricreative ed eventi sociali, eliminazione della brutalità e delle umiliazioni in tutti i loro aspetti da parte del personale, incoraggiamento delle relazioni e dell’appropriazione di oggetti materiali. Può essere utile considerare anche una riduzione dei farmaci, in particolar modo sedativi, antipsicotici o farmaci che bloccano provocando come effetto collaterale un irrigidimento muscolare, ed è necessario comunque creare un'atmosfera familiare, amichevole e permissiva e rendere il paziente consapevole del permanere per il futuro della prospettiva di una vita fatta di alloggio, lavoro, reddito e rapporti di affetto, fuori dall'ospedale. Nello schema sottostante, tratto dal libro di Barton, vedete i sette passaggi necessari per la «riabilitazione» del paziente affetto dalla nevrosi istituzionale, partendo da quando siede intorno senza far nulla, finendo con quando via via si rianima e alla fine interrompe il rapporto con l’ospedale e solo può, se lo desidera, frequentare gruppi di autoaiuto di ex pazienti.
Due anni dopo nel libro Asylums il sociologo americano Erwing Goffman descrive la carriera morale del malato di mente da pre-degente, a degente ed eventualmente post-degente come una progressiva degradazione della persona che passa per una graduale ma costante sottrazione di credibilità, di dignità e diritti. Questa degradazione, che ha inizio nella fase di pre-degente e prosegue in quella di degente, determina una speculare reazione del degente che sentendosi trattato come un uomo ormai privo di credibilità, dignità e diritti comincia a viversi egli stesso come tale. Secondo Goffman i fenomeni di degradazione estrema che portavano taluni degenti nei manicomi a perdere persino la capacità di lavarsi o di svolgere i bisogni fisiologici in modo corretto (i «sudici»), rappresenterebbero spesso il grado estremo di questo processo, che viene definito autostigma. Anche il degente che guarisce e ritorna in famiglia e sul lavoro non sfugge del tutto a questo duplice meccanismo, perché continuerà a essere considerato e considerarsi una persona che, avendo passato una malattia mentale, potrebbe non esserne completamente guarito, o ricadervi. Anche una volta uscito dall’ospedale, perciò, rimarrà per sempre un «sorvegliato», affidato più o meno implicitamente ai familiari e obbligato a presentarsi periodicamente ai servizi psichiatrici di comunità. Il che certo è, in qualche misura, inevitabile, ma in parte invece dipende dallo stigma, che è un pregiudizio, una generalizzazione dei quale non si è verificato il riscontro nella singola realtà di quel caso. Vi renderete conto, operando nella riabilitazione, di quanto questi meccanismi che si presentavano in forma grossolana ed evidente nell’ospedale psichiatrico, pesano anche oggi nella vita e dei pazienti e nel nostro lavoro. Dalla lettura di Goffman, e altri studiosi delle istituzioni, Franco e Franca Basaglia, che curano l’edizione italiana del libro, traggono la convinzione che ribaltare questo processo di degradazione restituendo fiducia, dignità e diritti alla persona – cioè guarire il malato dal danno che ha fatto l’istituzione – è la cosa più urgente, per poi aiutarla ad affrontare la follia in se stessa.
Il meccanismo dello stigma: funziona per esempio così: 1. alcuni schizofrenici in certi momenti sono violenti; 2. gli schizofrenici sono violenti; 3. Gino è schizofrenico; 4. quindi Gino è violento e devo averne paura.
LO STIGMA E’ UN PROCESSO ATTRAVERSO IL QUALE LA REAZIONE DEGLI ALTRI CI SPOGLIA DELLA NOSTRA IDENTITA’. E. Goffman
Anche la riabilitazione – che è originariamente un termine usato dagli ortopedici per indicare il ripristino di una funzione prima sospesa, ma è anche un termine usato dai giuristi per indicare la restituzione della pienezza di credibilità, dignità e diritti a un cittadino dopo che ha compiuto un reato e scontato la pena – deve spesso essere preceduta o accompagnata da un lavoro sullo stigma e sull’autostigma. Questo lavoro, come scrive più recentemente Benedetto Saraceno in un libro fondamentale del 1995, La fine dell’intrattenimento, deve essere svolto con modalità key and lock, cioè lavorando con la chiave (la persona) e con la serratura (il contesto).
Nell'immagine: da "Institutional neurosis" di R. Barton
Nel video: Da "Qualcuno volò sul nido del cuculo"
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