Il libro è articolato in tre parti. Nella prima viene analizzato e ricostruito il dibattito psicopatologico su Hitler. Nella seconda viene indagato l’enigma del consenso di cui godette il nazismo e il suo capo carismatico. Nella terza, infine, viene sviluppato un discorso più generale sul legame tra follia e Potere. Più estesamente il volume, nella prima parte, offre un quadro articolato e composito delle analisi psicopatologiche effettuate da storici e psichiatri per cercare di spiegare e descrivere la personalità di Hitler. Molte di queste opere soffrono di carenze metodologiche e ingenuità interpretative, ben sottolineate da Dalle Luche e Petrini. La rappresentazione d’insieme offerta daglia autori, anche se non esaustiva, riesce bene a trasmettere al lettore l’idea degli sforzi fatti per decifrare psicopatologicamente il capo del nazismo. Nella seconda e terza parte del libro, invece, gli autori provano a delineare le dinamiche collettive che hanno reso possibile l’avvento del nazionalsocialismo e, più in generale, indagano le condizioni di possibilità di alcune forme di autoritarismo nella società contemporanea.
Tra le interpretazioni riportate e discusse dagli autori è da segnalare lo studio di Colidge, Davis e Segal, sulla personalità di Hitler. Dalle indagini retrospettive emergerebbe un quadro psicotico di tipo paranoico, segnato da marcate difficoltà relazionali, tendenze antisociali e impulsi sadici. E sempre l’aspetto paranoico è quello sottolineato anche da un altro psichiatra, Nàgera, per descrivere l’atteggiamento delirante del capo del nazismo. Al di là delle singole etichette diagnostiche, però, la ricostruzione psicobiografica del Führer, per molti versi, non ha nulla di eccezionale e descrive la vicenda di un adolescente disadattato, figlio di un padre vessatorio, all’ombra della cui presenza inconscia l’autore del Mein Kampf avrebbe sempre vissuto. Genitore intrusivo e svalutante, figura di riferimento violenta e ingombrante, il padre di Hitler rappresenterebbe il fantasma sadico da cui il capo del nazismo avrebbe cercato di emanciparsi per tutta la vita, attraverso la ricerca di vittime espiatorie e obiettivi verso cui indirizzare proiezioni alienanti non elaborate. Lo stesso ruolo messianico, cui si sarebbe sentito chiamato dopo la Prima guerra mondiale, per ristabilire il ruolo del Volk nei destini del mondo, può apparire come il precipitarsi nella condizione psicotica di una personalità con gravi disturbi paranoici. Probabilmente c’è del vero in tale lettura, fatta propria nel corso degli anni da diversi storici e altrettanti psichiatri per spiegare la delirante e perversa razionalità del nazismo e del suo principale esponente. Se però contestualizziamo questa vicenda biografica ci troviamo di fronte a una storia di frustrazione, di rabbia, di presunti torti patiti, che molto hanno in comune con il clima diffuso nell’area tedesca dopo la sconfitta nella Grande guerra. In questo senso una vicenda personale, lungi dall’essere assunta esclusivamente come motore tragico della Storia, diventa il suo specchio, riflesso di un’epoca di turbamenti, in un continuo sovrapporsi tra destini individuali e piani collettivi. E le numerose notizie, riportate con dovizia di particolari dagli autori, sugli sbalzi d’umore di Hitler, sulle ambiguità di un carattere che colpiva gli osservatori per i suoi eccessi, sulla megalomania ma anche sul patologico bisogno di riconoscimento, possono assumere un valore interpretativo diverso. Nello specifico, tali fattori possono essere letti come indici di una personalità disturbata, ma anche come il sintomo di una congiuntura di crisi che consentì a un individuo dai tratti emotivi problematici di conquistare un posto d’eccezione e di convogliare su di sé le aspettative e le proiezioni di un popolo frustrato.
Quanto appena detto ci consente di transitare su un altro aspetto trattato dal libro, strettamente legato al primo: il consenso di cui godette Hitler. Come è stato possibile – si chiedono gli autori – che un uomo mediocre, che prima della Grande guerra apparteneva a quella galassia marginale verso cui, in diversi modi, avrebbe indirizzato in seguito le proprie pulsioni distruttive, sia riuscito a coinvolgere milioni di persone in un progetto tanto cieco e delirante quanto distruttivo? L’interrogativo, come evidente, si lega alle analisi della prima parte del libro, in particolare per ciò che riguarda il carisma di Hitler e la sua abilità nel trascinare le masse. Per decifrare le dinamiche di questo consenso, gli autori chiamano in causa la psicologia di Le Bon sulle masse, in particolare alcuni aspetti concernenti la diffusione delle emozioni nei gruppi, la circolazione e l’esasperazione di alcuni sentimenti, il bisogno di una guida carismatica per far convergere le pulsioni collettive. La perdita delle caratteristiche individuali nella più ampia galassia rappresentata dalle emozioni del gruppo, viene poi utilizzata per spiegare la suggestionabilità delle masse irretite dall’ideologia nazista. La teoria di Le Bon, anche oggi, risulta utile per descrivere numerosi aspetti del successo di Hitler, eppure non può essere assunta come chiave interpretativa unica. In particolare perché rischia di reificare la popolazione tedesca in un’entità psico-discorsiva, la folla, che se può risultare utile per spiegare alcune dinamiche del consenso in chiave di psicologia collettiva, rischia però di lasciare in ombra le differenze che continuarono ad attraversare la popolazione tedesca, anche durante l’egemonia nazista. In particolare quelle riguardanti il contesto sociale, economico e culturale, che fece da sfondo alle agitazioni tedesche.
In definitiva il libro di Dalle Luche e Petrini ha il suo punto di forza soprattutto nella parte espositiva. E va suggerito per la mole di informazioni riportate e perché rappresenta uno strumento eccezionale per cogliere gli sforzi teorici fatti da storici e psichiatri per cercare di spiegare, in maniera più o meno dichiarata, la tragedia nazista. Meno convincenti appaiono invece le considerazioni sulle dinamiche del potere e i suoi rapporti con la follia, ma ciò non pregiudica la fruibilità del lavoro.
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