Rovistando qua e la’ in una deliziosa libreria romana di "libri per viaggiare" (di recente apertura e da visitare: L’Argonauta, in Via Reggio Emilia 89, info@argonautasrl.it), ho trovato un libro che racconta di un viaggio molto particolare: il viaggio di una autrice dei nostri giorni attraverso le case delle grandi scrittrici del Novecento, da Marguerite Yourcenar a Colette, da Grazia Deledda a Virginia Woolf, e altre ancora.
"La scrittrice abita qui" di Sandra Petrignani, edito da Neri Pozza e finalista al Premio Bancarella 2003, offre la godibilissima lettura di un viaggio di quelli che oggi non si fanno piu’: viaggio, vale a dire, che non e’ consumo di vacanza e di svago, ma e’ esplorazione di luoghi alla ricerca del mistero delle anime che li hanno abitati, e nel contempo diventa rivelazione di se’ per il viaggiatore, e continua scoperta per il lettore.
Perche’ si viaggia, se non alla ricerca dell’Altro da se’?
Non a caso il libro si apre con una citazione di Karen Blixen – nella cui severa abitazione di Rungstedlung verremo in seguito condotti – che dice "Il destino di un altro serve sempre a spiegare qualcosa"Mi vengono alla mente, per associazione, le parole di Bruce Chatwin, il viaggiatore narrante per eccellenza "Ho sempre preferito l’Altro rispetto a cio’ che mi somiglia".
E’ questo entusiasmo per l’alterita’ (e per la letteratura come veicolo privilegiato all’alterita’) che muove la Petrignani fin dentro alle case delle scrittrici che hanno fatto, con la loro penna e la loro personalita’, il Novecento; non solo nelle case in quanto luoghi dello spazio, ma in quanto luoghi dell’anima e del pensiero, depositarie dei gusti, delle inclinazioni, dei vizi, dei difetti, dei peccati e dei segreti di chi vi ha abitato. Le case, lo sappiamo tutti per senso comune, parlano di chi le vive, in qualche modo ce lo disvelano, lo spogliano quasi della sua propria intimita’ per svelarla a noi; le case sono il racconto di una vita, o di parti di una vita, di una storia d’amore, o di periodi di solitudine. Non possiamo non nasconderci una certa eccitazione, accompagnata a volte da un qualche pudore, quando quasi in sordina penetriamo, non visti, la casa di un altro, quando ci intruffoliamo nelle stanze, tocchiamo gli oggetti, respiriamo gli odori, ci sembra sempre di essere come quando, bambini, entravamo di nascosto nelle stanze dei grandi. Perche’ il violare una casa e’ veramente simbolico del violare un’intimita’, e ci immette sempre in un territorio un po’ magico e un po’ segreto.
A Colette tocco’ la triste sorte di vivere gli ultimi dieci anni della sua vita tumultuosa ("Che bella vita ho avuto, peccato che non me ne sia accorta prima") inchiodata ad un letto che chiamava "zattera", afflitta da una grave forma di artrosi all’anca, in una stanza del suo appartamento parigino che chiamo’ sempre "la stanza rossa". Per capire lo stato d’animo di questa donna al crepuscolo, niente e’ piu’ esplicativo di una visita alla stanza rossa.
"E’ rosso fuoco – scrive la Petrignani – come in un vecchio bordello. Rosse le pareti, foderate di seta, e anche il soffitto. Diceva che non aveva senso lasciarlo bianco se doveva passare tanto tempo distesa a guardarlo. Rosso il letto e le lenzuola (….). Il giorno della Liberazione puo’ solo guardare la festa dalla finestra, da quella sua stanza rossa. Vede le bandiere francesi e immagina quante donne quella notte faranno l’amore. Le invidia. Da piu’ di vent’anni non si concedeva il brivido che danno le carezze di uno sconosciuto…….".
Il passaggio dal racconto dei luoghi a quello delle emozioni e’ simultaneo, quasi i luoghi e gli oggetti non fanno che da spunto per narrare la vita. Piu’ oltre "Nella sua trappola per topi, come chiamava la stanza rossa, intorno al letto di dolore, aveva sistemato gli oggetti che potevano tornarle utili. Con i due bastoni – appesi tuttora alla spalliera – faceva la ‘pesca dalla zattera’, agganciando e avvicinando cio’ che le serviva". Sembra di vederla, una Colette indomita e rattrappita, inchiodata ad un letto da bordello che fa ruotare per aria i suoi bastoni, a pesca di oggetti….
Petite Plaisance, invece, e’ la dimora che per molti anni vide la convivenza amorosa di due donne entrambe straordinarie, Margherite Yourcenar e Grace Frick, sua devota compagna per molti anni. "E’ il contrario di un sacrario o di una reggia. E’ una casa tenera, avvolgente, femminile. Un posto impregnato di sentimenti, in cui ogni oggetto ha una storia (……). Non c’e’ televisione a Petite Plaisance, ne’ Grace ne’ Margherite la guardavano. Preferivano la radio…."
Dopo la morte della compagna, la Yourcenar vi resta sola, con molta difficolta’ "…odiava restare sola (…) ha sempre avuto orrore della solitudine", e nonostante fosse vissuta in una "anarchia erotica totale", era proprio lei ad affermare "bisogna pur stare da qualche parte". Pur con tutte le ambivalenze del legame con Grace, sentiva fortemente il bisogno di un nido, di un tetto, e di un po’ di conforto.
Una delle ultime frasi pronunciate dalla Yourcenar prima della morte, nell’87, fu infatti "Ci deve essere un paradiso da qualche parte". Forse, in terra, per lei Petite Plaisance e’ stato quanto di piu’ simile al paradiso.
Quando scrisse Una stanza tutta per se’, divenuto in seguito una specie di cult del femminismo, Virginia Woolf doveva avere in mente qualcosa di ben preciso.
Riteneva che le donne, fino ad allora, fossero state "da sempre isolate, ma mai sole". Ho sempre amato questa definizione, per la sua profonda essenziale verita’: le donne stavano sempre in ambienti in cui vi erano anche altri (figli, mariti, fratelli), erano si’ isolate dal mondo, ma era loro interdetta quella condizione essenziale alla creativita’ e al pensiero che e’ la solitudine. Erano sempre mescolate ad altro, ad altri, espropriate da se’ stesse; sempre in luoghi destinati ad altra funzione rispetto al creare, stanze in cui si cucinava o si faceva salotto, sempre luoghi aspecifici. Mai sole. Doveva essere per Virginia davvero essenziale avere la sua stanza tutta per se’, luogo semplice ed incontaminato dove poter scrivere, immaginare, seguire le onde dei pensieri, trasformare i pensieri in parola e la parola in narrazione.
Monks House, "la casa-museo" della Woolf col marito Leonard ("convento, ritiro religioso", la chiamava) doveva rappresentare l’appagamento dell’agognato desiderio. "Costruendosi la ‘stanza tutta per se’ con i proventi ricavati dal successo di Orlando, Virginia aspirava ad avere finalmente un suo studio, ma la stanza si rivelo’ inadatta "Non riesco ancora a scrivere con naturalezza – annoto’ nel diario – nella mia stanza nuova perche’ il tavolo non e’ dell’altezza giusta e per scaldarmi le mani devo chinarmi. Bisogna che ogni cosa sia assolutamente conforme alle mie abitudini". Fini’ col preferire alla scomoda stanza una catapecchia in giardino – "la mia casetta" – che divento’ cosi’ la sua stanza tutta per se’.
Potremmo continuare con altri dettagli, altri oggetti, altri luoghi, ma temo priveremmo del piacere della scoperta personale attraverso la lettura del libro.
Mi sono volutamente soffermata sulle case e ho tralasciato le vicende umane, gli affetti che le hanno abitate, perche’ la penna mi avrebbe preso la mano….
I ricordi di Karen Blixen una volta lasciata la sua Africa, il tormentato rapporto tra la Yourcenar e la Frick, lo strano sodalizio tra la Woollf e il marito Leonard ("non conosco nessuno che sia stato felice come noi", gli scrisse prima di suicidarsi), le rincorse amorose di Colette…. Tutto e’ narrato dalle case, dalle lettere ritrovate, dai diari, dalle loro stesse opere letterarie, poiche’ tutte queste donne erano scrittrici, prima di tutto, la scrittura costitui’ l’asse portante delle loro esistenze, ne e’ stato il grande risarcimento e l’unico vero nutrimento.
La scrittura dava rigore e senso alla fragilita’, alla depressione, al bisogno d’amore, alla vena di follia che altrimenti le avrebbe sovrastate.
La scrittura era coraggio, era esprimersi nel mondo.
"Sii audace. Sii. audace. Non essere troppo audace"
(K. Blixen)
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