SESSIONE PLENARIA
La mattinata e' stata aperta dal Prof. F. Bogetto, Professore Ordinario di Psichiatria dell'Universita' di Torino, che ha introdotto le tre letture della plenaria. I tre interventi successivi, di matrice e origine molto diversificata, hanno proposto filoni di ricerca completamente diversi ma certo complementari nel considerare la psicopatogenesi dei disturbi psichiatrici.Si sono infatti toccate aree di studio che vanno dalla psicogenetica, alla psicologia nello studio degli attaccamenti, fino a considerare ed approfondire gli aspetti sociali della malattia.
The interplay between genetic and environmental factors in the development of mental
disorders P. McGuffin
MRC SGDP Centre, Institute of Psychiatry, King's College London, United Kingdom
I "classici" studi epidemiologici di genetica, che comprendono osservazioni su famiglia, gemelli e adozioni, hanno mostrato, con importante evidenza, nella maggior parte dei disturbi mentali, una certa ereditarieta', che va da un grado moderato fino ad un alto livello di correlazione.
Gli stessi ed altri studi hanno pero' mostrato, con simile evidenza, l'importanza dei contributi ambientali nella psicopatogenesi delle problematiche psichiatriche.
Potremmo quindi dichiarare finita la diatriba che pone la base gen'etica in contrasto con l'environment ("nature versus nurture").
La realta' e' che natura ed ambiente sono entrambi necessari e non sufficienti nello sviluppo dei disturbi mentali.
L'interazione tra G&E ( gene and environment) include differenti modalita'. In primis troviamo la "coazione", che nasce dalla semplice addittivita' degli effetti.
Accanto a questa possibilita' troviamo l'"interazione", che prevede una moltiplicazione degli effetti prodotti da geni ed ambiente ( la genetica come determinante nella sensibilita' a stressori ambientali), e la " correlazione" ( influenza genetica nell'esposizione a stressori ambientali).
Studi recenti hanno indagato queste modalita' di interazione utilizzando metodiche di genetica quantitativa e molecolare. Le recenti acquisizioni, supportate da evidenze rilevanti, hanno mostrato come nell'interazione tra fattori individuali ed ambientali possa giocare un ruolo determinante l'influenza di effettori dell'environment nei confronti dell'espressione genica. Tali effettori possono infatti agire per via epigenetica inducendo modificazioni nella metilazione del DNA o della struttura della cromatina, con conseguenti variazioni nel fenotipo risultante. Infine una particolare forma di interazione G&E, concerne le differenze che si riscontrano quando i pazienti assumono una terapia farmacologica.
Studi riguardo questo tipo di differenze, usufruendo delle conoscenze e degli approcci di farmacogenetica e farmacogenomica, stanno cominciando a mostrare promettenti risultati, che potranno nel prossimo futuro portarci all'obiettivo di personalizzare i trattamenti farmacologici per andare incontro alle reali esigenze dei pazienti.
An attachment perspective on psychopathology
M. Mikulincer
School of Psychology, Interdisciplinary Center (IDC) Herzliya
La teoria dell'attaccamento di Bowlby ha analizzato la genesi della psicopatologia fin dagli esordi.
Similmente ad altri psicoanalisti Bowbly ha ipotizzato che la spiegazione dei disturbi psichici si possa ricercare e trovare nell'infanzia ed in particolare nelle relazioni precoci con le principali figure di attaccamento. Cio' che maggiormente stupisce di tale teoria e' la sua estrema aderenza a quelle che sono le evidenze empiriche, tanto da potersi articolare in modo armonico con i dati sperimentali emersi nello studio di questo tema.
In accordo con quanto detto M. Mikulinger afferma che un senso di attaccamento "sicuro" rappresenta il fondamento della salute mentale e si sviluppa e costruisce sulla scorta di ripetute esperienze di amore e cura con figure di attaccamento positive, sensibili e attente. Al contrario, insicurezze nell'attaccamento, modelli negativi di se stessi e degli altri, schemi educativi che mirino al perpetuo scoraggiamento e figure di attaccamento negligenti o rifiutanti espongono la persona al rischio di psicopatologia.
Quando manca il supporto dei care-givers si forma un modello interattivo negativo e sono adottate altre strategie di regolazione dell'affettivita': il sistema si puo' iperattivare (ulteriore promiscuita', ipervigilanza) o disattivare (mantenimento di una costante distanza emotiva). Le dimensioni dell'ansia, dell'alto evitamento sono epifenomeni dell'attaccamento inadeguato. Il pattern "anxious" determina ansia, depressione, disturbi di personalita' anche gravi quali ad esempio il border line. L'atteggiamento evitante invece,rivela l'incapacita' di affrontare le difficolta' della vita e lascia la sofferenza irrisolta. Se non c'e' stata, soprattutto nell'infanzia, la disponibilita' di figure di attaccamento positive,il distress che il soggetto sperimentera' nella sua vita sara' perennemente aggravato dalla sensazione di solitudine e di rifiuto. In ogni trauma in cui l'individuo si trova senza fonti di supporto il dolore non sara' solo correlato all'evento stressante, ma a tutta la sua storia di "non amore".
I soggetti che hanno sperimentato un attaccamento sicuro hanno aspetti di maggior ottimismo e ritengono di essere in grado di far fronte in modo funzionale ai loro problemi.
Nella trattazione di questo tema Mikulinger si focalizza sull'associazione tra attaccamento "insicuro" e varie forme di patologia psichica attraverso una revisione di studi, clinici e non.
Egli inoltre discute degli effetti positivi sulla salute mentale dell'attaccamento sicuro basandosi su una serie di evidenze scientifiche che dimostrano come i sintomi psicopatologici decrescano e la qualita' delle prestazioni aumenti qualora,con tecniche di priming,si evochi nei pazienti l'attaccamento (ad esempio con parole o immagini subliminali). Tale tecnica si e' inoltre dimostrata di notevole efficacia nella stimolazione dell'umore in senso positivo. Alla luce di tali considerazioni si rendono evidenti i potenziali benefici della costruzione di un attaccamento sicuro nell'ambito della relazione terapeutica.
Mental Disorders and Social Context
Paul Bebbington
Research Department of Mental Health Sciences, UCL, London
I disturbi mentali sono definiti in maniera analoga ai disturbi fisici. Questo implica la concettualizzazione di sindromi distinte. Le sindromi sono essenzialmente concatenazioni di sintomi e talvolta segni,che si ipotizza rappresentino realta' unitarie inespresse. Il metodo medico comprende il loro utilizzo per spiegare l'eziologia,la patogenesi,il decorso e il trattamento. Nella medicina ci si basa su cio' che il paziente riporta,descrivendo in maniera piuttosto semplice i processi fisici e i segni clinici,mentre nell'ambito della psicopatologia i sintomi sono primariamente esperienze mentali. Inoltre gli eventi psichici hanno intenzionalita',sono eventi interni che riguardano esperienze esterne. I fenomeni esterni che maggiormente ci colpiscono,in quanto esseri umani,sono essenzialmente di natura sociale e percio' non sorprende che il contesto sociale abbia la maggior influenza sia sullo stato mentale sia sulla psicopatologia.
Questo conduce al concetto di "psicosociale", grande contenitore che puo' spiegare e definire i disturbi mentali. La natura degli eventi sociali esterni e' ambigua,ma si la puo' rendere manifesta standardizzando gli stimoli ambientali proposti. Dunque un appropriato studio sociale puo' essere condotto attraverso ricerche che includano eventi vitali,traumi e il capitale sociale. Questo e' definito come il tentativo di descrivere qualitativamente e quantitativamente l'interazione con la societa' e con le istituzioni. In questo modo migliorano le possibilita' di ricerca nella definizione eziologica delle malattie mentali.
Link di approfondimento:
http//www.bjp.rcpsych.org/cgi/content/full/185/1/83
http://bjp.rcpsych.org/cgi/content/abstract/152/6/766
http://journals.cambridge.org/article_S0033291797004716
http://neuro.bcm.edu/eagleman/neurolaw/papers%5BCaspiEtAl2003%5DInfluenceStressOnDepression5HTTgene.pdf
http://Psychology.sunysb.edu/attachment/vitae/mikulincer_cv.pdf
Report a cura di:
Giulia Piccinini
Caterina Muzio
Elena Barletta
SIMPOSIO SPECIALE DURATA DI MALATTIA, DURATA DI MALATTIA NON TRATTATA ED ESITO CLINICO
Coordinatore A.C. Altamura
Il simposio si apre con il benvenuto del coordinatore Professor A.C.Altamura, (Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano), che prima di introdurre gli ospiti internazionali e nazionali del simposio fa notare come si tratti di temi ancora poco noti ai clinici, ma su cui si sta sviluppando fortemente l'interesse della ricerca. Il primo relatore e' il Professor H.U. Wittchen dell' Institute of Clinical Psychology and Psychotherapy, Technical University of Dresden, Germany, con l'intervento dal titolo "What can treatment for mental disorders change? From Hollywood to successful symptom management".
Il suo intervento vuole proporre le nuove sfide della ricerca nell'ambito dei trattamenti precoci, sottolineando come la durata del periodo di malattia non trattata (DUI), per quanto riguarda in particolare i disturbi d'ansia e depressivi, sia correlata alla gravita' della sintomatologia sviluppata successivamente.
Attraverso la presentazione di casi clinici viene evidenziata come la DUI sia correlata con la sintomatologia sviluppata, focalizzando l'attenzione sulla mancata diagnosi nell'infanzia e nell'adolescenza, che porta allo sviluppo di patologie early onset, con sviluppo di evitamento e peggior funzionamento sociale; con l'avanzare dell'eta' aumenta la disabilita' e peggiora la qualita' di vita. Emerge inoltre come un primo episodio di disturbo d'ansia non trattato peggiori l'esito di un episodio depressivo sviluppato successivamente.
Dati epidemiologici europei avallano ulteriormente questa tesi, sottolineando l'importanza della diagnosi precoce e del trattamento tempestivo per limitare il peso dei disturbi mentali sulla collettivita'.
Si passa ora all'intervento "Influence of duration of untreated illness on treatment response and overall clinical outcome in depressed patients" del Professor D. Baldwin Clinical Neuroscience Division, University of Southampton,UK.
Egli focalizza la sua attenzione sul trattamento precoce dei pazienti con disturbo dell'umore. La lunga durata del periodo di malattia non trattata e' correlata con un peggiore outcome dei pazienti con schizofrenia; meno certo e' l'esito per quanto riguarda i pazienti con disturbo depressivo e disturbo d'ansia, benche' vi siano sempre piu' prove in tal senso. Per esempio vengono citati studi naturalistici italiani (Altamura et al. 2007, 2008, 2010) che indicano come un lungo ritardo (piu' di dodici mesi) nell'intraprendere una terapia antidepressiva sia associato ad una durata di malattia maggiore e con maggior rischio di ricadute.
Anche un recente studio spagnolo (De Diego-Adelino 2010) ha evidenziato come una breve durata di malattia non trattata migliori l'outcome nel primo episodio depressivo, cosi' come uno studio giapponese (Okuda et al. 2010) ha messo in relazione la DUI (durata di malattia non trattata) con la risposta a fluvoxamina nell'episodio depressivo.
Concludendo, numerosi sono i fattori che possono avere peso nel determinare il peggior esito dei disturbi che non vengono trattati tempestivamente; nella schizofrenia si e' visto come possano essere in gioco anche le caratteristiche stesse dell'episodio che viene trattato dopo una DUI maggiore. Un ruolo importante e' assegnato anche alla comorbilità con altri disturbi mentali; indubbia e' dunque la necessita' di approfondire questi aspetti con dettagliati studi prospettici e su larga scala.
E' la volta adesso di un contributo italiano della scuola napoletana, "Percorsi di cura e durata della psicosi non trattata in pazienti con schizofrenia all'esordio" di A. Fiorillo, C. De Rosa, V. Del Vecchio, D. Giacco, M. Luciano – Dipartimento di Psichiatria, Università di Napoli SUN- Relatore dott. A.Fiorillo.
La durata di psicosi non trattata (DUP), intesa come il ritardo tra la comparsa dei sintomi psicotici e il primo trattamento adeguato, rappresenta uno dei fattori piu' importanti di esito della schizofrenia. I pazienti con DUP superiore a un anno hanno un rischio di ricadute tre volte maggiore, una peggiore risposta ai trattamenti e un funzionamento sociale piu' scadente rispetto ai pazienti con DUP minori. La DUP e' influenzata da diversi fattori, quali la modalità di comparsa dei sintomi, l'eta' di esordio, l'uso di sostanze, lo stigma e l'accessibilita' ai servizi psichiatrici.
Nel nostro campione, costituito prevalentemente da pazienti giovani (26 anni +/-5,4), di sesso maschile (69%), single (86%) e disoccupati (64%), abbiamo indagato: a) i percorsi di cura e gli interventi ricevuti dai pazienti con schizofrenia all'esordio; b) la durata di psicosi non trattata; c) l'associazione tra la DUP e le principali caratteristiche socio-demografiche e cliniche dei pazienti.
La DUP e' risultata, in media, di 28.5 settimane (+/- 49,2), con ampie variazioni dovute al contesto socio-culturale di riferimento. Prima di rivolgersi ad uno psichiatra, l'86% dei pazienti ha contattato altri operatori, soprattutto medici di base (50%), neurologi (21%) e psicologi (15%). Al primo contatto sanitario, i pazienti sono stati trattati con antipsicotici (24%), ansiolitici (7%) o antidepressivi (3%); il 35% ha ricevuto un intervento esclusivamente psicoterapico, mentre il 31% non ha ricevuto alcun trattamento.
Il primo contatto con i servizi di salute mentale e' stato mediato, nel 71% dei casi, dalla famiglia; per il 43% dei pazienti si e' reso necessario il ricovero, piu' spesso (29%) in TSO. Le strategie per ridurre la DUP devono tener conto del fatto che molto spesso i pazienti con schizofrenia all'esordio si rivolgono ad operatori diversi dagli psichiatri. Programmi di formazione specifici per questi operatori, associati a campagne di sensibilizzazione rivolte alla popolazione generale, potrebbero garantire un accesso piu' precoce dei pazienti con schizofrenia ai servizi di salute mentale.
E' la volta infine del coordinatore del simposio, il Professor A.C. Altamura con l'intervento dal titolo"Durata di malattia, durata di malattia non trattata ed esito clinico" Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano.
La durata di malattia non trattata (DUI), intesa come l'intervallo di tempo tra l'esordio di uno specifico disturbo psichiatrico e l'impostazione del primo trattamento farmacologico adeguato e' stata sempre piu' studiata come predittore di esito in diverse patologie, in particolare nel campo della schizofrenia e degli esordi psicotici in genere. Nell'ultimo decennio lo studio di tale variabile e' stato esteso anche ai disturbi affettivi, dove recenti evidenze scientifiche hanno riportato, come per i disturbi psicotici, un'associazione tra una lunga DUI ed un peggior outcome.
Lo studio delle cause e delle conseguenze della DUI e' di una certa rilevanza per diversi motivi, a partire dal fatto che tale variabile e' potenzialmente modificabile e che la riduzione della stessa potrebbe influenzare positivamente il decorso di diverse patologie mentali. Inoltre, una correlazione tra DUI e decorso potrebbe contribuire a chiarire le alterazioni neurobiologiche che hanno luogo con il progredire della patologia stessa. e' infatti noto come una lunga durata di malattia si associ ad una serie di alterazioni morfologiche cerebrali.
Nella schizofrenia, una lunga DUI e' parsa associata a deficit volumetrici corticali e sottocorticali, verosimilmente su base eccitotossica da glutammato o sulla base di un danno neuronale indotto da glucocorticoidi. Anomalie neuroanatomiche che procedono di pari passo con la malattia sono state riscontrate anche nei disturbi dell'umore, in particolare a livello delle regioni corticali frontali e di alcune aree del sistema limbico. Per quanto attiene la relazione tra DUI ed outcome, nella schizofrenia e' emersa un'associazione tra una lunga latenza ai trattamenti farmacologici ed una maggior gravità del quadro clinico, un maggior numero di ricorrenze ed un rischio suicidario piu' elevato. Nel disturbo depressivo maggiore (DDM) e nel disturbo bipolare (DB) una lunga DUI e' stata associata ad un esordio piu' precoce, una piu' lunga durata di malattia, un maggior numero di recidive e un rischio piu' significativo di cronicizzazione; inoltre, nella DDM e' emersa anche una piu' frequente comorbidità con disturbi di Asse I e nel DB piu' frequenti ospedalizzazioni ed un maggior rischio suicidario.
Infine, nei disturbi d'ansia e' stata osservata un'associazione tra una lunga DUI ed una peggior risposta alle terapie psicofarmacologiche, oltre che una piu' frequente comorbidita' psichiatrica nel disturbo di panico e nel disturbo d'ansia generalizzato (GAD); sempre nel GAD, tra una lunga DUI, un'eta' di esordio piu' precoce e una piu' lunga durata di malattia; infine, tra una lunga DUI ed un peggior outcome nel disturbo ossessivo-compulsivo.
Alla luce di tali evidenze e al fine di ridurre la latenza ai trattamenti, l'interesse della comunita' psichiatrica si sta focalizzando sugli interventi precoci, al fine di prevenire lo sviluppo della patologia, effettuare una diagnosi/un trattamento precoce e di minimizzare la disabilità e il rischio di cronicizzazione nel lungo-termine. Infine, sarebbe interessante i dati attinenti la DUI con la durata di malattia stessa, al fine di valutare in che modo le due variabili possono essere in grado di condizionarsi a vicenda.
Isabella D'Orta
Simposio regolare: La psichiatria ai tempi di Internet: nuove vulnerabilita', espressivita' psicopatologiche e potenzialita' terapeutiche
Coordinatore: T. Cantelmi
Eterogeneita' delle condotte additive nell'era del narcisismo digitale
T. Cantelmi Sapienza Universita' di Roma
Sono passati pochi anni da quando sono stati introdotti i primi social network. Da allora si e' assistito ad una impressionante moltiplicazione di profili personali e di gruppi di amici digitali, cosa impensbile solo pochi anni fa. La rete partecipativa incoraggia, a quanto sembra, la cultura narcisistica, l'esibizione di identita' spesso artefatte e seducenti, create ad hoc per assicurarsi l'approvazione e la simpatia di molti.
Facebook,Twitter, Myspace, Youtube, appaiono cosi' come mezzi per alimentare il culto della personalita'.
La web tv personale online 24 ore su 24 o le digital footprints (impronte digitali) lasciate in giro sui vari social network per essere riconosciuti, sono solo alcuni degli esempi che possono essere citati per dare un'idea del fenomeno. Siamo nell'era del presenzialismo digitale, dove apparire conta piu' dell'essere, dove il numero di contatti o di amici diviene la misura del grado di appeal e di valore personale.
Secondo un'indagine svolta dall'autorevole Pew Research Center, almeno un navigatore americano su due digita il proprio nome sui motori di ricerca per controllare "cosa si dice".
Tutto si gioca sui numeri, e da questi dipendono gli stati di esaltazione o depressione nel navigatore.
"I blogger sono tra i piu colpiti da questa sindrome, e spesso danno vita a infinite meta-discussioni che trasformano l'oggetto (blog) in soggetto e il soggetto (blogger) in oggetto.
Nasce la necessita di un confronto continuo finalizzato ad appagare questo bisogno di conferme" (Pereira, 2009).
E' ora stato elaborato anche un quoziente numerico, denominato QDOS per misurare questa forma di narcisismo digitale. E' infatti possibile calcolare il proprio punteggio, andando all'indirizzo web http://qdos.com, e inserendo i diversi profili di social network su cui si e attivi.
Parametro considerato non e' solo, in questo caso, il numero di volte che il proprio nome compare online (come fanno i motori di ricerca), ma anche l'impatto e la frequenza delle attivita. Un must per ogni "ego-surfer" che si rispetti.
E' pero' davvero corretto parlare di Sindrome da Narcisismo Digitale (SND)?
Secondo alcuni blogger si'.
Sono gli stessi blogger a suggerire addirittura, forse in modo provocatorio, di diagnosticarla attraverso la presenza o l'assenza di alcuni sintomi.
Criteri di inclusione nella Sindrome dovrebbero essere i seguenti segni clinici, diagnostici qualora l'individuo ne presenti almeno 5:
o essere sempre al centro della "web attenzione";
o impegnati a soddisfare i propri bisogni;
o non tollerare rinvii od ostacoli;
o seducenti, convincenti e manipolatori;
o competitivi, esibizionisti e megalomani;
o arroganti, egocentrici, intimidatori e aggressivi;
o talora sprezzanti, invadenti, insensibili;
o sentendosi superiori agli altri pretendono privilegi e riconoscimenti;
o non accettano critiche né consigli, né di dipendere da altri;
o affascinati da chi e' sotto i riflettori ma anche molto invidiosi;
o proiettano lembi del proprio sé sugli altri per soddisfare i bisogni;
o ostacolato il narcisista reagisce con scoppi di rabbia o piu' con distimia e sintomi depressivi.
Laura Buffardi, psicologa italiana in forza alla University of Georgia, ha recentemente pubblicato uno studio condotto su 130 profili di Facebooker evidenziando come il numero di amici, il tipo di immagini e i commenti associati a un profilo costituiscano una misura attendibile del grado di narcisismo dell'utente.
I narcisisti, infatti, pubblicano sulle loro pagine le foto piu glamour, quelle in cui compaiono "piu belli" e trendy, mentre i "normali" utilizzano preferenzialmente foto banali, magari scattate al volo con un telefonino o una webcam (Buffardi, 2009).
Come accade per altre sindromi, la SND potrebbe virtualmente originare accompagnarsi ad altri fenomeni psicopatologici piu' o meno persistenti, come ad esempio la Internet Addiction (IA) o dipendenza dalla Rete.
Web-addiction: il paradigma della dipendenza ai tempidi Internet
V. Caretti Universita' di Palermo
I computer, come ogni altro strumento tecologico e non, rappresentano i "mezzi" di cui l'essere umano si serve per superare i limiti imposti dalle proprie caratteristiche biologiche.
Molto piu' di altre tecnologie, pero', gli strumenti informatici si trasformano in un vero e proprio sistema ambientale che l'uomo finisce per "abitare".
Il rischio che si corre e' che il computer, da mero mezzo, si tramuti in fine.
Cio' avviene quando il rapporto qualitativo, limitato nel tempo e nelle funzioni con lo strumento tecnologico, si estende, tanto da diventare strumento d'elezione necessario per la realizzazione e l'espressione del Se'.
Questo e' quanto si riscontra nelle dipendenze tecnologiche, ovvero quelle forme di addiction in cui il ricorso ai videogiochi, a Internet e a tutto il corollario di funzioni da cui e' possibile accedere attraverso il computer, diventa un rifugio nel quale poter regolare gli stati emotivi.
A cura di:Giulia Piccinini,Elena Barletta,Caterina Muzio
Simposio speciale Fattori di rischio e precursori dei disturbi d'ansia
Coordinatore:P. Castrogiovanni (Siena)
Risk factors and precursors of obsessive-compulsive disorders
E.Hollander Impulsive and Autism Spectrum Disorders Program,Albert Einstein College of Medicine, Montefiore Medical Centre,New York,USA
Sono stati identificati diversi fattori di rischio ambientali e genetici che aumentano la vulnerabilita' individuale allo sviluppo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) o ad altri disturbi correlati appartenenti allo stesso spettro quali la dismorfofobia e disturbi della sfera autistica.
I fattori di rischio e i precursori comprendono anomalie nell'attivazione di circuiti fronto-striatali,meccanismi infiammatori e immuni,quale un'aumentata attivita' infiammatoria sistemica e corticale,attivita' epilettica e comorbidita'.
Diversi polimorfismi di singoli nucleotidi sono stati identificati come geni responsabili di effetti minori in tali condizioni. Similmente,la variazione del numero di copie (CNV),come ad esempio microdelezioni o microduplicazioni,hanno effetti capaci di causare modificazioni in specifiche regioni codificanti o promotrici di singoli geni. I fattori epigenetici individuati potrebbero svolgere un importante ruolo nello sviluppo di disturbi dello spettro ossessivo compulsivo. Modelli animali di DOC e autismo suggeriscono che la modulazione di specifici sistemi puo' liberare dal predominio dei sintomi a vari stadi di sviluppo. Questo suggerisce che l'effetto moltiplicativo dei fattori di rischio genetici e ambientali gioca un importante ruolo non solo nei disturbi d'ansia quali Disturbo post-traumatico da stress,ma anche negli altri disturbi quale DOC e disturbi ad esso correlati.
Risk factors and precursors of PTSD
J.Zohar Department of Psychiatry Chaim Sheba Medical Center,Tel Hashomer,Israele
Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD)e' chiaramente precipitato dall'esposizione al trauma,anche se differenze nell'esposizione non determinano del tutto né lo sviluppo né la prognosi del PTSD. In anni recenti si e' sviluppato un crescente interesse nell'identificazione di fattori di rischio clinici e biologici che aumentano la somiglianza che PTSD sviluppera' in seguito all'esposizione al trauma.Poco si sa sui fattori predittivi di PTSD e sull'immediata risposta al trauma. I sintomi che frequentemente sono associati al PTSD includono,tra gli altri,una significativa reazione simil panico,distress pronunciato,risposta dissociativa e passata storia di ansia e depressione. Questi sintomi possono riflettere l'intensita' o la severita' dell'esperienza corrente,un tratto individuale pre-esistente o una pre sensibilizzazione a un trauma precedente. I fattori di rischio qui nominati riflettono l'esistenza di una diatesi genetica o di precoci esperienze di vita quali ad esempio abuso precoce. Quest'ultimo potrebbe condurre a cambiamenti della personalita' e di abilita' cognitive oppure essere esso stesso la conseguenza di questi fattori.
Allo stesso modo i fattori associati alle caratteristiche ereditabili dai genitori (esempio:psicopatologia) potrebbero aumentare il rischio di PTSD attraverso l'aumentata esposizione all'incuria o all'abuso.
In uno studio semiprospettivo,sono stati comparati 2.362 veterani che svilupparono PTSD (in accordo con i criteri del DSM-IV) con un uguale numero di veterani che non svilupparono PTSD.
Il confronto e' avvenuto su fattori personali(assetto comportamentale,cognitivo,abilita' linguistica ed eeducazione)e sulle caratteristiche e funzioni svolte nell'esercito (esempio grado e addestramento).In questo studio né l'assetto comportamentale né l'addestramento si sono dimostrati predittivi di PTSD.
I fattori predittivi trovati sono essenzialmente non specifici ,come il funzionamento cognitivo, l'educazione, grado e la posizione durante il trauma. Sembrerebbe che altri parametri,per esempio variabili fisiologiche e psicologiche,necessitano di essere sviluppate al fine di trovare un valido strumento per valutare la vulnerabilita' al PTSD che segue l'esposizione al trauma.
Fattori di rischio e precursori del disturbo di panico
G. Perna Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Casa di Cura Villa San Benedetto, Hermanas Hospitalarias, Albese con Cassano (Como)
Il disturbo di panico e' una delle patologie psichiatriche piu' comuni nella popolazione generale ed e' da tempo riconosciuta l''importanza di fattori genetici e ambientali nella sua patogenesi. L'esordio del disturbo e' in genere situato nella prima eta' adulta e diversi studi scientifici suggeriscono l'esistenza di alcuni fattori di rischio e precursori del disturbo la cui individuazione potrebbe permettere di impostare campagne di prevenzione primaria e secondaria. Tra i principali fattori che hanno dimostrato una correlazione significativa possiamo annoverare indubbiamente la familiarita' per il disturbo di panico che e' indicativa del carico genetico.
Tra i fattori di rischio biologici vanno segnalati la presenza di disturbi respiratori cronico-ostruttivi in eta' infantile, irregolarita' respiratorie in infanzia, ipersensibilita' all'anidride carbonica e la ridotta variabilita' cardiaca. La presenza di ansia da separazione in infanzia e allo stesso modo perdite significative si sono dimostrati predittivi dello sviluppo del disturbo di panico anche se la loro specificita' va ancora definita. Precursori del disturbo di panico sembrerebbero essere la fobia sociale e la fobia scolare in eta' infantile analogamente alla presenza di attacchi di panico in eta' infantile. Sulla base dei dati presenti e' possibile ipotizzare che una appropriata educazione respiratoria nelle persone ad alto rischio per disturbo di panico analogamente ad un programma di potenziamento della resilienza e alla riduzione dei livelli di anxiety sensitivity possano favorire la prevenzione primaria e secondaria del disturbo.
Ansia sociale: prodromi tra clinica e pratica
S. Pallanti Dipartimento di Psichiatria, Universita' di Firenze
La diagnosi di fobia sociale accomuna la fobia di situazioni specifiche (come ad es. parlare di fronte ad un uditorio, mangiare o scrivere in pubblico) e l'ansia sociale di tipo generalizzato (presente in tutti i contesti che richiedono una interazione con gli altri). Quest'ultima, cosi' definita, appare evidentemente in continuum con tratti temperamentali quali la timidezza e il il disturbo evitante di personalita' (DEP).
Il riconoscimento precoce dei soggetti a rischio e delle forme cliniche, prodromiche, ha indubbiamente, considerato l'impatto educativo e le complesse comorbidita', importanti implicazioni preventive
A cura di:Elena Barletta,Caterina Muzio,Giulia Piccinini
Simposio regolare: Tollerabilita' delle terapie antipsicotiche e aderenza ai trattamenti: un update
Coordinatore A. Bellomo (Foggia)
Disturbi metabolici in pazienti trattati con farmaci antipsicotici
F. Centorrino Mclean Hospital and Harvard Medical School, Belmont, MA USA
I pazienti con disturbi affettivi maggiori e disturbi psicotici hanno rischio aumentato di sviluppare sindromi metaboliche. Essi inoltre ricevono frequentemente la prescrizione di antipsicotici atipici, anch'essi ritenuti correlati allo sviluppo di tali sindromi. Questa lettura si propone di valutare i rischi suddetti e la loro associazione con la terapia con farmaci psicotropi, soprattutto antipsicotici.
Tale studio prospettico si sta conducendo al Mc Lean Hospital e il suo obiettivo e' quello di comparare la prevalenza della sindrome metabolica nei pazienti con disturbi affettivi e psicosi con quella nella popolazione generale, con particolare focalizzazione sulle variabili eta' e genere. Un'analisi preliminare e' stata condotta nel 2010 su 208 pazienti interni con diagnosi di disordini affettivi maggiori (diagnosi di disturbo bipolare, depressione maggiore, disturbi dell'umore NAS secondo il DSM IV) e disturbi psicotici (diagnosi di schizofrenia, disturbo schizoaffettivo, disturbo psicotico NAS Secondo il DSM IV).
Si e' valutata in essa la correlazione tra specifici pattern terapeutici e serie comorbilita' metaboliche. L'analisi ha dimostrato che pazienti di giovane eta', con disturbi affettivi e psicotici, in terapia con almeno un antipsicotico atipico mostravano, quando comparati alla popolazione generale, una prevalenza significativamente aumentata di sindromi metaboliche, anche gravi. In particolare la prevalenza della sindrome metabolica in pazienti di eta' inferiore ai 29 anni in terapia con antipsicotici atipici e' stata del 21.1% (11.4% nella popolazione generale). I pazienti in terapia on clozapina e/o olanzapina rispetto a quelli in terapia con ziprasidone o aripiprazolo hanno un rischio maggiore di sindrome metabolica. Alla luce di tali considerazioni appare evidente che variazioni metaboliche negative nei pazienti psichiatrici possano avere insorgenza precoce incrementando il rischio di serie complicanze quali obesita', patologie cardiovascolari e cerebrovascolari, diabete, anche in eta' giovanile. Risulta pertanto evidente come una pronta identificazione di quest'ultime attraverso un attento monitoraggio ed il conseguente intervento tempestivo siano necessari ed indispensabili.
Il monitoraggio cardiologico in pazienti trattati con antipsicotici
G. Di Sciascio Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Universita' di Bari Aldo Moro
A seguito dei notevoli recenti progressi in campo psicofarmacologico si assiste oggi alla realizzazione di un cambiamento nel concepire l'assistenza psichiatrica. La storia del trattamento farmacologico dei disturbi psichiatrici ha infatti assunto obiettivi nuovi, dal proposito di ottenere la remissione o comunque la miglior gestione possibile del sintomo alla piu' adeguata ed efficace gestione del paziente. Questa svolta ha di fatto portato in luce alcuni aspetti della terapia farmacologica connessi alla sua capacita' di incidere sia sul piano psicopatologico sia sul piano della salute fisica. In questa ottica proprio il trattamento psicofarmacologico dei disturbi mentali, in particolare quello con antipsicotici, rappresenta uno degli aspetti piu' problematici dell'azione psichiatrica, tenendo in considerazione il fatto che in molti pazienti alla risposta clinica adeguata si associa la comparsa di effetti collaterali importanti, tanto da compromettere talvolta il risultato terapeutico e sicuramente responsabili di una riduzione della qualita' e della quantita' di vita dei pazienti stessi.
Tale dato appare ancora piu' rilevante soprattutto se si tiene conto del fatto che tali pazienti, spesso presentano in comorbidita' patologie internistiche (patologie cardiometaboliche) che risentono fortemente delle collateralita' indotte dal trattamento con antipsicotici (diabete mellito, ipercolesterolemia, incremento ponderale ed allungamento dell'intervallo QT).
Alla luce di queste e di altre considerazioni sembra opportuno sottolineare la necessita' di mettere in atto adeguate procedure di monitoraggio clinico nei soggetti sottoposti a tali terapie.
Gestione clinica della iperprolattinemia indotta da terapie antipsicotiche
R. Brugnoli Sapienza Universita' di Roma, Ospedale S. Andrea
Nell'ambito della terapia con antipsicotici l'iperprolattinemia e' un importante e comune evento avverso, tuttavia esso risulta notevolmente sottostimato. Nell'ambito dell' ampia gamma di molecole antipsicotiche attualmente in commercio e disponibili, e' pero' possibile individuare quali interferiscono maggiormente con il metabolismo della prolattina. Gli antipsicotici tradizionali, il risperidone, il paliperidone, l'amisulpride e le benzamidi sostituite sono definiti prolactin – raising ("aumentatore" di prolattina); la clozapina, l'olanzapina, la quetiapina, l'aripiprazolo e lo ziprasidone sono invece definiti Prolactin-sparing ("risparmiatore" di prolattina).
La sottostima dell'iperprolattinemia e' probabilmente legata alla concezione che i problemi che derivano dalle variazioni di questo ormone siano riconducibili ad evidenti segni clinici (principalmente amenorrea e galattorrea nelle donne, impotenza e meno frequentemente ginecomastia negli uomini). In realta' l'iperprolattinemia e' responsabile in ambedue i sessi di problematiche importanti nel breve e nel lungo termine.
Nell'uomo rilevano: perdita della libido, impotenza, disturbi dell'eiaculazione, ridotta spermatogenesi, ginecomastia e raramente galattorrea. Nel lungo termine possono comparire sintomi come osteoporosi da carenza di testosterone, aumento ponderale e in qualche caso disturbi dell'umore. Nella donna, a breve termine, possono comparire disturbi della regolarita' del ciclo mestruale, tensione mammaria, galattorrea, riduzione della libido, disfunzione orgasmica, acne e irsutismo. Nel lungo termine le conseguenze dell'iperprolattinemia possono portare all'osteoporosi da carenza di estrogeni, all'aumento ponderale, al tumore al seno e all'endometrio e a disturbi cardiovascolari. Meno evidenti, ma non per questo trascurabili, appaiono l'entita' e le modalita' di correlazione con lo sviluppo di alterazioni dell'umore.
Aderenza ai trattamenti antipsicotici: un update
A. Bellomo Universita' di Foggia
Da diverso tempo e' aperto il dibattito circa la definizione di Aderenza ai trattamenti farmacologici e riguardo i criteri utilizzabili per la misurazione quantitativa della stessa. L'Organizzazione Mondiale della Sanita' nel 2003 ha proposto una definizione di aderenza in termini di "comportamento del paziente che si allinea alle raccomandazioni del terapeuta". tale definizione rsulta tuttavia, seppur formalmente corretta, piuttosto ambigua dal punto di vista quantitativo. Allo stesso modo la letteratura propone un range di valori di cut off molto ampio con percentuali oscillanti tra il 10 ed il 90 %. Ad incrementare l'ambiguita' di tali dati vi e' il fatto che molti di questi studi utilizzano metodi di indagine diversi fra loro che vanno dalla conta numerica delle compresse assunte dal paziente, al monitoraggio dei relativi effetti collaterali, al dosaggio dei metaboliti di alcuni farmaci nel sangue.
Sono state proposte anche indagini basate sull'intervista del paziente che tuttavia risultano meno attendibili. A queste difficolta' oggettive si aggiunge anche la scarsa attenzione dedicata negli anni al tema dell' aderenza e della compliance sia nella quotidianita' clinica che negli studi scientifici. Solo una bassa percentuale di studi (5% di quelli condotti sulla schizofrenia e 1-2% di quelli condotti sul disturbo bipolare) hanno indagato anche sui livelli di aderenza ai trattamenti.
Viste le notevoli ripercussioni dell'aderenza sulla prognosi del paziente, sull'assistenza e sulla spesa sanitaria si rende evidente la necessita' di non tralasciare ma anzi valutare attentamente tale aspetto. Cio' non puo' ovviamente prescindere dall'elaborazione di idonei strumenti di rilevazione e di valutazione quantitativa.
A cura di:Caterina Muzio,Giulia Piccinini,Elena Barletta
SIMPOSIO SPECIALE DISTURBI PSICOTICI ALL'ESORDIO: CHE FARE?
Coordinatore: M. Casacchia
Dopo il benvenuto da parte del coordinatore del simposio, professor M. Casacchia, si inizia con l'intervento dal titolo "Una prospettiva evolutiva sugli interventi precoci, dalla salute mentale ed il rilevamento degli stati mentali a rischio dei giovani ai servizi per i primi episodi: evidenze dai trials e dagli studi longitudinali anglossassoni e prospettive di intervento" del professor D. Fowler, School of Medicine, Health Policy & Practice, UEA; Mental Health Research Lead, Faculty of Health, UEA, Norwich, UK.
L'intervento precoce nel campo degli esordi psicotici e' dimostrato essere un forte elemento a favore di un miglior recupero sociale per la maggior parte dei pazienti con questo tipo di patologia.
E' emerso come il recupero possa essere quasi immediato e sia sintomatologico che sociale, oppure piu' ritardato nel tempo e richiedere un intervento piu' intensivo, in base anche alla eterogeneita' della patologia presentata.
Il relatore sottolinea l'importanza in particolare della Cognitive Behavoiur Therapy focalizzata sul recupero sociale e ne mostra le recenti evidenze scientifiche riscontrate.
La parola viene passata ora al prof. Masafumi Mizuno, del Department of Neuropsychiatry, Toho University School of Medicine, Tokyo, Japan. per l'intervento dal titolo "Gestione del caso e riabilitazione negli interventi dei servizi per gli esordi psicotici in Giappone" di M. Mizuno, T. Nemoto, H. Kobayashi. Department of Neuropsychiatry, Toho University School of Medicine, Tokyo; Keio University School of Medicine, Tokyo, Japan
Come sottolineato nella presentazione dell'ospite anche dal prof Casacchia, questo intervento e' volto a mettere in risalto l'importanza degli sforzi messi in atto gia' da tempo in Giappone per rendere l'assitenza psichiatrica piu' flessibile e non basata solo sulle strutture ospedaliere.
Il relatore, un pioniere in tal senso, si occupa dell'approccio community-based soprattutto per quanto riguarda l'early psychosis, per evitare ospedalizzazioni prolungate in pazienti che si gioverebbero maggiormente di un trattamento di tipo diverso.
Alcuni centri d'eccellenza stanno sviluppando progetti di intervento precoce fra cui vengono citati il Tokyo Youth Club (Tokyo), il Department of Neuropsychiatry of Toyama University Hospital (Toyama), il Sendai At-risk Mental State and First Episode (SAFE) service (Sendai), e il Il Bosco of Toho University Omori Medical Center (Tokyo). Proprio quest'ultimo, diretto da Mizuno ed unico nel suo genere, viene presentato nelle sue attivita' e obbiettivi, fra cui uno specifico training cognitivo volto a rilevare e a migliorare la sintomatologia negativa ad alto impatto sul funzionamento sociale dei pazienti schizofrenici. I risultati sono davvero promettenti in tal senso.
E' ora la volta dell'intervento "Il programma strategico GETUP per l'implementazione e la valutazione di interventi innovativi per l'esordio psicotico nei Dipartimenti di Salute Mentale italiani" di M. Ruggeri , G. de Girolamo , M. Gennarelli , P. Brambilla A. Lasalvia , G. Neri L. Bocchio , C. Perlini M.E. Bertani , C. Bonetto , D. Cristofalo , S. Bissoli , F. Pileggi , P. Rucci , A. Fioritti , P. Santonastaso , F. Giubilini , D. Ghigi , M. Miceli , A. Cocchi , S. Scarone , S. Torresani
Relatrice dott.ssa S.Tosato
Numerosi dati presenti in letteratura dimostrano che gran parte del deterioramento clinico e sociale dei soggetti affetti da disturbi psicotici si instaura entro i primi 5 anni dall'esordio, il che sta ad indicare che occorre intervenire precocemente nei pazienti al primo episodio psicotico, per ottenere una rapida remissione dei sintomi, prevenire il deterioramento del funzionamento, migliorare le capacita' di coping ed adattive, e fornire, al paziente ed ai suoi familiari, informazioni precise su origini, evoluzione e fattori di rischio per possibili ricadute del disturbo. Gli interventi psicosociali specifici per il trattamento degli esordi psicotici sono risultati efficaci in alcuni studi clinici randomizzati, ma ben pochi sono gli studi che hanno esaminato l'efficacia di questi interventi nella pratica clinica.
Il Programma Strategico GET UP (Genetic Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis) e' centrato su di uno studio controllato randomizzato che confronta l'effectiveness a 9 mesi di un trattamento psicosociale integrato basato sulle lineeguida per i pazienti all'esordio psicotico ed i loro familiari vs. il trattamento di routine attualmente fornito dai servizi psichiatrici pubblici in Italia. Nell'ambito dello studio vengono valutati parametri clinici, sociali, genetici e relativi alle alterazioni morfofunzionali cerebrali. Il campione di riferimento e' costituito dai pazienti all'esordio psicotico e dai loro familiari che giungeranno all'attenzione dei Centri di Salute Mentale (CSM) randomizzati ai due bracci e localizzati in alcune aree dell'Italia Centro-Settentrionale (Veneto, Emilia-Romagna, Milano, Bolzano, Firenze; catchment area di circa 10 milioni di abitanti) nell'arco di un periodo di 12 mesi. Questo studio contribuira' ad affinare le modalita' operative e ad identificare i vantaggi e i limiti di una applicazione su vasta scala dei trattamenti specifici per l'esordio psicotico e contribuira' anche ad individuare il peso relativo dei fattori biologici, psicologici ed ambientali nell'esordio psicotico e la loro capacita' di condizionare il decorso e la risposta ai trattamenti, con implicazioni cliniche e speculative di cruciale importanza.
Si conclude infine con l'intervento del coordinatore del simposio, professor M. Casacchia, con l'intervento "Disturbi psicotici all'esordio: gli interventi modificano il destino biopsicosociale?"
Il disturbo schizofrenico presenta un esordio precoce nella vita di una persona rispetto ad altre malattie mentali gravi. Poiche' piu' e' precoce l'insorgenza e piu' sono profonde le conseguenze, e' opportuno da parte dei servizi di salute mentale intervenire piu' precocemente nella identificazione del disturbo ai suoi esordi.
Peraltro e' dimostrato che la maggiore precocita' dell'esordio determina disturbi cognitivi piu' gravi ed un quadro psicopatologico piu' rilevante con una maggiore possibilita' di ricadute e di ricoveri. La precocita' puo' essere determinata dalla familiarita' e, in questi casi, non e' possibile attuare nessun intervento preventivo. In altri casi, invece, e' possibile mettere in atto interventi che riducano il rischio dell'insorgenza della malattia. L'uso della cannabis e' fra i fattori piu' implicati nell'esordio precoce della malattia. Un'attenzione particolare agli stili comportamentali dei giovani per quanto attiene l'uso della cannabis e' una mission progressivamente piu' importante per i servizi di salute mentale che devono collegarsi con i servizi delle dipendenze per curare tempestivamente la dipendenza per evitare o ridurre il rischio d'insorgenza della patologia mentale.
La stessa presentazione della malattia condiziona la tempestivita' di intervento: l'esperienza clinica e i dati di letteratura confermano che l'esordio improvviso ed eclatante di un quadro schizofrenico in un giovane comporta, pur nella sua drammaticita', una maggiore possibilita' di risoluzione in quanto la famiglia e' in grado di riconoscere la patologia del figlio e richiedere un intervento urgente dei servizi psichiatrici. Diverso e' il caso in cui il quadro clinico si manifesta lentamente e subdolamente. In questi casi, come noto, la prognosi e' piu' sfavorevole in quanto e' piu' difficile intercettare, da parte della famiglia e dei servizi, i prodromi della psicopatologia. In questi casi un buon servizio deve mettere in atto una serie di campagne di informazione sui comportamenti a rischio dei giovani per incrementare la loro accessibilita'.
Inoltre, il notevole sviluppo della valutazione dei deficit cognitivi, come quelli relativi alla vigilanza, alla memoria e all'attenzione, ha stimolato i servizi a operare una riabilitazione cognitiva precoce per ridurre i deficit cognitivi considerati come mediatori della psicopatologia ingravescente.
I dati sulla possibilita' di prevenire e di cambiare i destini delle persone con incipiente disturbo schizofrenico non sono univoci. Verranno discussi alcuni aspetti relativi, comunque positivi e incoraggianti, che derivano dai trattamenti orientati al recovery.
Isabella D'Orta
Simposio regolare S2
LE BASI BIOLOGICHE DELL'ATTACCAMENTO:DAL LABORATORIO ALLA CLINICA
Ansia di separazione e panico: un modello animale
D. D'Amato Istituto di Neuroscienze del CNR, Sezione Neuroscienze Comportamentali, Roma
Il disturbo di panico/agorafobia (PD) ed il suo precursore disturbo d'ansia da separazione (SAD) sono patologie comuni (prevalenza:5-6%) e debilitanti. Sono ormai note evidenze sperimentali del fatto che alcune risposte specifiche (iperventilazione, ansia acuta) a miscele d'aria arricchite in CO2, osservabili nei soggetti ad alto rischio per PD/SAD siano un parametro trasferibile in laboratorio per meglio comprendere la natura di questi disturbi. Da questi studi emerge inoltre come un fattore comune nei soggetti che soffrono di PD sia rappresentato da stress precoci che conducono ad un attaccamento ansioso (Battaglia et al., 2010).
Sono state trasferite queste informazioni dall'uomo all'animale per mettere a punto un modello di attacco di panico nel topo ove sia possibile un' analisi sperimentale sia dei fattori genetici che di quelli ontogenetici coinvolti. Basandoci sull'endofenotipo rappresentato dall'ipersensibilità all'ipercapnia nei soggetti umani con PD, abbiamo sviluppato un modello animale che presenta lo stesso endofenotipo.
Gli animali vengono manipolati durante lo sviluppo in modo tale da disturbare la formazione del legame di attaccamento con la madre e questi topi presentano un'ipersensibilità alla CO2 in quanto mostrano una alterazione dei parametri respiratori sia durante lo sviluppo che in eta' adulta. La manipolazione precoce consiste nella sostituzione giornaliera della femmina madre per i primi giorni di vita. Nonostante la quantità di cure materne rimanesse inalterata, e' stato verificato un deficit nel comportamento di attaccamento, Oltre alla risposta respiratoria all'ipercapnia e ipossia, e'stato analizzato il profilo neurochimico, comportamentale e ormonale in condizioni di base e in seguito a esposizione a stress in eta' adulta. La manipolazione comporta variazioni a livello serotoninergico e dell'amigdala. L'alterata risposta respiratoria e' stata valutata in animali di 15-20 giorni e si mantiene stabile nel tempo. Infine l'ereditabilita' di questo tratto ontogeneticamente acquisito ed il ruolo della componente genetica e di quella ambientale vengono valutati per una migliore comprensione del fenomeno e per mettere a punto trattamenti farmacologici e comportamentali piu' efficaci.
Disturbo d'ansia di separazione dell'adulto e lutto complicato in una coorte di 454 pazienti con disturbi d'ansia e dell'umore
S. Pini, C. Gesi, M. Muti, M. Abelli, A. Cardini, L. Lari, M. Mauri, K. Shear, V. Manicavasagar, G.B.Cassano Dipartimento di Psichiatria, Università di Pisa
Lo studio e' finalizzato ad esplorare la relazione tra ansia da separazione e lutto complicato. Recenti studi epidemiologici hanno mostrato che il disturbo d'ansia di separazione si presenta più frequentemente negli adulti rispetto ai bambini. I dati provenienti dalla letteratura suggeriscono che il disturbo d'ansia di separazione dell'adulto (ASAD) puo' insorgere a seguito di un lutto o di una minaccia di perdita. La ricerca ha dimostrato che le persone che hanno subito una perdita possono presentare una reazione al lutto clinicamente significativa definita lutto complicato (CG) con importanti ripercussioni sulla qualita' di vita dell'individuo.
Sono stati esaminati 454 pazienti psichiatrici ambulatoriali con una diagnosi di disturbo d'ansia o dell'umore secondo i criteri del DSM-IV. Per l'assessment diagnostico e' stata utilizzata la SCID-I, mentre l'ASAD è stata valutata tramite una versione adattata della Structured Clinical Interview for Separation Anxiety Symptoms (SCI- SAS-adult). I sintomi del lutto complicato sono stati indagati con l'Inventory of Complicated Grief (ICG). Per indagare l'impairment sociale e lavorativo e' stata utilizzata la Sheehan Disability Scale (SDS). Infine, gli stili di attaccamento adulto sono stati valutati tramite il Relationship Questionnaire (RQ). Dai risultati si evince che la frequenza complessiva di ASAD nel campione e' del 43%, mentre quella del CG del 23%. Gli individui con CG hanno riportato con maggior frequenza ASAD (56%) rispetto a quelli senza CG (40%) (p < ,005). I soggetti con ASAD e CG hanno ottenuto punteggi piu' elevati all'ICG ed una piu' significativa compromissione della qualità di vita, misurata dalla SDS, rispetto ai pazienti con CG senza ASAD. Si capisce quindi come lo stile di attaccamento influenzi lo sviluppo di un lutto complicato, considerando un attaccamento insicuro fattore predisponente e un attaccamento sicuro fattore protettivo rispetto all'insorgenza di un lutto complicato soprattutto quando la perdita si riferisce al compagno.
Oppiodi endogeni e stile di attaccamento in soggetti adulti
A. Troisi
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Roma Tor Vergata
Esistono due grandi circuiti, il circuito del dolore e il circuito del piacere. Il circuito del piacere è legato alla cooperazione sociale e alla buona reputazione sociale.
L'ipotesi di un legame tra funzionalità oppiodergica centrale e attaccamento sociale fu originariamente formulata da Jaak Panksepp circa 40 anni fa ed è stata successivamente confermata da molti studi condotti in differenti specie di mammiferi inclusi primati non umani. I dati sull'uomo sono molto più scarsi ma il rapido sviluppo della genetica molecolare promette di arricchire le nostre conoscenze riguardo al ruolo delle differenze individuali nella funzionalità oppiodergica centrale nella modulazione dei comportamenti di attaccamento. Lo studio in oggetto e' stato condotto in collaborazione con gruppi di ricerca dello European Molecolar Biology Laboratory e dell'Istituto di Neuroscienze del CNR. Sono stati arruolati 214 adulti (84 pazienti psichiatrici con disturbi non psicotici e 130 volontari sani) che sono stati valutati mediante specifiche scale psicometriche che misurano l'attaccamento evitante (Attachment Style Questionnaire e Relationship Questionnaire) e l'anedonia sociale (Snaith Hamilton Pleasure Scale). Questi dati psicometrici sono stati messi in relazione con il polimorfismo genetico (A118G) del gene che codifica per il recettore mu per gli oppioidi endogeni (OPRM1). In accordo con l'ipotesi dello studio, sia tra i pazienti psichiatrici che tra i volontari sani, i soggetti portatori dell'allele G totalizzano punteggi più bassi dei soggetti con genotipo AA nelle scale dell'attaccamento evitante e dell'anedonia sociale. Questi risultati indicano che la variante genetica allele G codifica per un recettore piu' sensibile del fenotipo AA. Il fenotipo GG è piu' sensibile all'esclusione sociale rispetto all'eterozigosi AG e al fenotipo AA. Questo profilo di personalita' che riguarda la risposta edonica elicitata da stimoli di natura sociale corrisponde a quanto trovato da numerose ricerche cliniche che hanno studiato le varianti del gene OPRM1 in relazione alla sensibilità al dolore fisico e ai farmaci analgesici.
Analisi dell'attaccamento nel rapporto di coppia e del temperamento affettivo nella dipendenza alcolica
L. Janiri, D. Harnic
Università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico Gemelli, Roma
Lo studio dell'attaccamento sta acquisendo una rilevanza sempre maggiore negli ultimi anni poiche' vi sono evidenze crescenti dell'esistenza di uno stretto rapporto tra stile di attaccamento insicuro e disorganizzato e vari disturbi psicopatologici. Anche il temperamento affettivo costituisce uno strumento di indagine interessante e relativamente innovativo in campo psichiatrico. Meno indagato appare invece lo studio dell'associazione tra stile di attaccamento negli adulti ed i problemi alcol-correlati.
La teoria dell'attaccamento chiarisce come il legame tra il caregiver/genitore e il bambino influenzi precocemente il rapporto tra questi e i suoi coetanei nell'infanzia e diventi cruciale nel modellare le interazioni sociali e i rapporti interpersonali nella vita adulta.
Bowlby, per primo, ha ipotizzato che le relazioni di attaccamento nell'infanzia sono simili, nella loro natura, alle relazioni sentimentali della vita adulta e che esse costituiscono il prototipo di tutte le relazioni d'amore. Molti lavori hanno sottolineato la prevalenza di un attaccamento insicuro con la presenza di una madre percepita come 'controllante' in pazienti alcol-dipendenti. Frequentemente l'alcolismo è stato correlato con l'attaccamento e l'alessitimia, sottolineando che un certo tipo di attaccamento possa predisporre all'alessitimia o associarsi a una doppia diagnosi.
Poco approfondito, invece, sembra essere stato il rapporto tra temperamento e alcolismo all'interno del quale, al momento, e' emerso il prevalere di tratti ipertimici, ciclotimici e depressivi nei pazienti alcolisti. Assai carente invece appare nel suo complesso l'analisi di entrambe le variabili (temperamento affettivo e attaccamento nel rapporto di coppia) in tale campo psicopatologico.
Se si presta attenzione anche agli aspetti relazionali dei pazienti con dipendenza da alcol, e ai sottesi aspetti temperamentali, si favorisce pertanto la compliance e, conseguentemente, si avranno maggiori probabilità di successo terapeutico.
Francesca Pompei
Simposio speciale SS5
DOLORE MENTALE E SUICIDIO: CONSIDERAZIONI TEORICHE E CLINICHE
Coordinatore: F.Gabrielli (Genova)
Trauma narcisistico e suicidio
E. Ronningstam Harvard Medical School Psychologist, McLean Hospital
Il punto centrale del simposio e' la vulnerabilita'. Sappiamo che il tentativo di suicidio nel disturbo di personalità narcisistico è meno legato all'impulsività ed e' associato ad un'elevata mortalità. Eventi di vita stressanti quali un licenziamento, la perdita di una posizione sociale, una grave malattia o un grave incidente, problematiche con il coniuge sono considerati fattori di rischio molto importanti soprattutto nei soggetti con tratti di personalita' narcisistici e con un'alta vulnerabilita'. Puo' accadere infatti che anche in individui ben funzionanti specifiche situazioni possano portare ad autoregolazione e ad operazioni soggettive interne con perdita di un oggetto interno considerato come protettivo o supportivo idealizzato.
Rischio di suicidio: esistono dei criteri per calcolare un rischio imminente?
.L. A Berman
International Association for Suicide, Prevention and Executive Director, American Association of Suicidology, Washington, USA
Da molti anni si cerca di trovare quale sia il collegamento tra l'ideazione e il piano suicidario e se ci sono fattori di rischio per calcolare un imminente rischio di suicidio. In realta' si lavora con variabili soggettive. In America esiste un numero verde per la prevenzione del suicidio (circa 140 centri sparsi per il paese). Il rischio è valutato spesso in base all'immediatezza con cui si sente di dover agire e alla sensazione di dover mettere in atto delle manovre senza le quali il soggetto potrebbe morire, soprattutto se l'individuo manifesta apertamente la volontà di uccidersi e ha in quel momento i mezzi per farlo. Il livello di rischio puo' essere stimato in "imminente", "alto", "moderato" e "basso" in base al fatto che ci sia una reale ideazione, una storia passata, una depressione o una grave malattia mentale in atto, in base alla "sensazione" che il soggetto possa agire. Tra i fattori di rischio troviamo: la presenza di un'ideazione suicidaria, l'abuso di sostanze, l'anedonia, l'ansia, l'insonnia, la sensazione di essere "in trappola", la perdita di speranza, la rabbia, la sensazione di essere abbandonati dalla famiglia e dalle figure di riferimento, la sensazione di sentirsi un peso per gli altri. Di quest'ultimo aspetto va tenuto conto in quei pazienti affetti da una grave malattia che vengono trasferiti da un reparto a maggior controllo ad uno con un'osservazione minore. Per calcolare il rischio dobbiamo quindi tenere conto sia dei fattori di rischio cronici che di quelli acuti sopra elencati. Dobbiamo stabilire se vi sia una vulnerabilità , se sono presenti fattori di rischio acuti, se vi sono fattori precipitanti e se abbiamo fattori "protettivi" ; tra questi ultimi possiamo elencare la famiglia e la religione. I fattori protettivi tuttavia, in presenza di fattori di rischio "acuti" non riducono il rischio suicidario. I 3\4 dei suicidi viene agito d'impulso ma sono preceduti da segnali che consentono di intervenire ad un livello precoce. Sfortunatamente non tutti i clinici riescono a coglierli e a intervenire tempestivamente.
Il ruolo del dolore psicologico nella fenomenologia del suicidio
M. Pompili Sapienza Università di Roma, Harvard Medica School, USA
Il concetto di intersoggettività è spesso usato come meccanismo per capire come gli esseri umani siano in grado di empatizzare gli uni con gli altri circa le esperienze, e di impegnarsi in una comunicazione significativa su di esse. Spesso l'attenzione non è posta sui motivi che hanno portato al suicidio, né sulla fenomenologia di questo atto, ma è posta piuttosto sugli elementi che caratterizzano piccole coorti di individui suicidi. La fenomenologia del suicidio affronta la questione epistemologica della trattazione delle emozioni negative puntando l'attenzione a come colmare il gap nella comunicazione della sofferenza umana. Quello che osserviamo nei nostri pazienti con tendenze suicide è ciò che Morselli chiamava dolore morale, come vergogna, senso di colpa, abbandono, noia, disforia e disperazione, ciò che Shneidman chiama psychache. La teorizzazione di Shneidman si basa sul presupposto che il suicidio sia il risultato di un dolore psicologico insopportabile sperimentato dal suicida.
Shneidman suggerisce una serie di domande chiave che possono essere rivolte alla persona che vuol commettere un suicidio che sono: "Dove senti dolore?" e "Come posso aiutarti?". Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un insopportabile dolore mentale, allora il compito principale di colui che deve occuparsi di un individuo suicida, è quello di alleviare questo dolore. Se infatti si ha successo in questo compito, quell'individuo che desiderava morire scegliera' di vivere. Questa presentazione affronta il ruolo del dolore mentale insopportabile nella determinazione del suicidio e illustra come avvicinarsi alla comprensione del dramma della mente suicida.
Alterazioni affettive e cognitive nelle sindromi suicidarie
F. Gabrielli, P. Solano Università di Genova
Shneidman ha sviluppato il concetto di "dolore mentale" (psychache), inteso come straziante combinazione di colpa, paura, vergogna, indecisione, vulnerabilità, rabbia, solitudine, delusione che portano a disperazione e sentimenti d'impotenza responsabili dell'ideazione suicidaria. Maltsberger approfondendo il concetto di dolore mentale, propone il modello dell'"inondazione affettiva": la mente, sopraffatta da sentimenti di mancanza di speranza, impotenza e dolore mentale, si abbandona al suicidio quale fuga da angosce soverchianti di disintegrazione.
Nei casi più gravi le difese messe in atto contro il dolore mentale protratto possono arrivare ad un progressivo disinvestimento nel confronti del mondo esterno: le azioni perdono significato, trasformandosi in semplici atti motori in cui la capacità di "pensare" gli stati affettivi e' persa ed aumentano gli agiti impulsivi. Il soggetto fluttua tra passività, propria delle fasi caratterizzate da vissuti depressivi e di impotenza, e mancanza di speranza ed impulsivita', che spingono all'agito . A tali modificazioni affettive si associano distorsioni cognitive tipiche degli stati suicidari quali ipergeneralizzazione e pensiero dicotomico che determina una riduzione della realta' a due categorie mentali contrapposte accompagnata da un restringimento del campo di coscienza con focalizzazione sullo psychache caratteristica della "visione tunnel" .In un campione di soggetti ospedalizzati in seguito ad un gesto autosoppressivo, sono stati esaminati i differenti pattern di correlazione tra impulsivita', mancanza di speranza e depressione, dimensioni queste che rispecchiano il particolare stato cognitivo- affettivo in cui versa il paziente suicidario, offrendo una chiave di comprensione dell'evento fondamentale per un corretto approccio terapeutico
Francesca Pompei
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