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Resistenze. Tra Freud e Derrida (con Lacan)

14 Feb 15

A cura di Fabio Milazzo

«Nel corso della cura psicoanalitica, si dà il nome di resistenza a tutto ciò che, negli atti e nei discorsi dell’analizzato, si oppone all’accesso di questi al proprio inconscio»[1]. Così Laplanche e Pontalis, nella loro enciclopedia, descrivono il termine «resistenza», concetto centrale per l’intero edificio metapsicologico freudiano. A quale bisogno risponde il concetto? A quello di spiegare l’impasse di quelle analisi che non conducevano alla delucidazione del sintomo e all’emersione del suo, presunto, senso nascosto. Per essere più corretti le resistenze di certi pazienti refrattari a ipnosi e suggestioni hanno sollecitato la piega metapsicologica freudiana; questa si contraddistingue proprio per essere una postura clinica che attraverso la parola vuole attraversare il muro difensivo eretto dall’analizzante.  Un concetto liminare, dunque, quello di «resistenza», che pone una separazione netta tra un al di qua e un al di là freudiano.

Il termine resistenza segna una sorta di limes tra una tecnica basata sulla comunicazione del senso nascosto del sintomo e una che si serve delle difese messe in campo dall’analizzante per accedere al rimosso. In altre parole, se inizialmente le resistenze sono un ostacolo, in seguito divengono un mezzo, diremmo la via d’accesso privilegiata, per raggiungere la ragione che tiene in piedi le nevrosi. Derrida, pensatore che si è sempre interessato- pur rimanendo all’interno di confini extra-territoriali- della psicoanalisi, si è a lungo confrontato con il concetto di resistenze giudicandolo fondamentale per cogliere il carattere disseminale della psicoanalisi. La psicoanalisi e la sua ragione, attraverso l’analisi del concetto di resistenza, vengono sviscerate per cogliere al di là dell’ovvio, di ciò che ormai è un patrimonio culturale condiviso, gli elementi obliati di un sapere che fa dello scacco e dell’ostacolo la via d’accesso privilegiata al «rimosso e al segreto delle nevrosi»[2]

E’ quanto possiamo valutare in un testo che è appena stato tradotto per le edizioni Orthotes: «Resistenze. Sul concetto di analisi» di J.Derrida. Il volumetto, molto agile, è stato curato da Michele Di Bartolo, insegnante di storia e filosofia nei licei, che con competenza e arguzia è riuscito a restituire non soltanto l’eco della tagliente prosa derridiana ma anche il sottinteso celato nelle pieghe di un testo pensato per essere pronunciato a viva voce. «Résistances» è infatti il testo di una conferenza preparata da Derrida per un convegno su «La nozione di analisi» tenutosi alla Sorbona tra ottobre e novembre del 1991.

Nel testo della conferenza abbiamo la possibilità di valutare il corpo a corpo che Derrida intraprese con il concetto di resistenza a partire dalla lettura de «L’interpretazione dei sogni». Secondo la sua lettura la psicoanalisi, a cento anni dalla sua nascita, è afflitta da due resistenze che la fanno vacillare ma che al contempo ne mostrano la natura precaria di sapere sempre sospeso tra la dimensioni empirica e quella trascendentale. La prima è una resistenza che proviene dall’esterno, una sorta di addomesticamento per inerzia legato alla diffusione del discorso freudiano e all’assuefazione ai suoi concetti che smettono così di interrogare in profondità il malessere della società risultando inutili «come un medicinale scaduto in fondo a una farmacia». Questa sorta di abitudine all’ordine del discorso freudiano è riscontrabile quasi quotidianamente attraverso l’uso irriflesso e, spesso banalizzato, di concetti problematici come quelli di «lapsus», «inconscio», «nevrosi», «isteria». Si è smarrita la forza penetrante di un sapere che risultava tanto più incisivo quanto più estranee erano le sue categorie alle orecchie di una società non avvezza a  pensare lo psichico in ordine al sessuale. Derrida, però, presenta una seconda resistenza alla psicoanalisi, ben più sotterranea della prima e, quindi, più pericolosa proprio perché non immediatamente visibile. Una sorta di processo auto-immunitario attraverso il quale la psicoanalisi ha vaccinato se stessa nei confronti di ogni delirio positivista. Proprio il concetto di «resistenza» mina fin dall’inizio la metapsicologia freudiana ponendola di fronte ad un paradosso insolubile: la condizione che consente l’indagine è al contempo ciò che è condizionato dal sintomo che si vuol indagare. Disseminazione delle regole formali che presiedono ad ogni giudizio logico, crisi del principio di causa ed effetto, decostruzione della piena presenza e, quindi, del «logocentrismo». Secondo Derrida il discorso freudiano contiene in abbozzo i paradossi che abitano l’intera costruzione metafisica occidentale ma, a differenza della narrazione filosofica, sono presenti anche gli anti-corpi in grado di lanciare la psicoanalisi al di là degli steccati entro cui prova ad affondare il proprio dispositivo clinico-teorico.

Freud pensa le resistenze come delle forze animate dalle stesse istanze che l’Io esercita nei confronti dei contenuti inaccettabili; al contempo, come precisano Laplanche e Pontalis, «pare tuttavia che egli veda l’origine ultima della resistenza in una repulsione proveniente dal rimosso in quanto tale, nella sua difficoltà a divenire cosciente e soprattutto a essere pienamente accettato dal soggetto»[3]. L’ambiguità del concetto è strutturale e sembra oscillare tra la distanza dai contenuti rimossi e la funzione difensiva. Una porzione dell’Io sembra volersi difendere dalla guarigione non riconoscendosi del tutto in essa, in ciò che denota. Da qui Lacan avrebbe sviluppato il concetto di «jouissance», quell’al di là del piacere che orienta il soggetto verso ciò che non coincide con il suo benessere. Derrida coglie in ciò un doppio movimento che se da una parte apre la psicoanalisi a quelle zone d’ombra dello psichico fino ad allora non indagate, dall’altra impedisce quella presa adeguata all’oggetto indagato: l’inconscio. Oggetto paradossale, che rifiuta le logiche del principio di non-contraddizione e qualunque istanziazione, insomma alcuni dei presupposti che sono alla base del «logocentrismo». Per questo la psicoanalisi, di cui Derrida nel celebre scambio con Élisabeth Roudinesco dichiara essere «amico»[4], è ciò che può distruggere il primato della piena presenza, dell’archè (ἀρχή), principio e origine di concatenamenti subordinati all’ipostatizzazione dell’oggetto che si conosce. Si apre così un possibile percorso etico-politico che vede la psicoanalisi nel ruolo di macchina decostruttrice di ogni ordine del discorso basato sulla logica dell’archè, del fondamento che non può essere fondato. Se è dunque vero che Freud ne «Il disagio della civiltà» ha ritenuto problematico estendere la griglia diagnostica utilizzata per le nevrosi alla civiltà[5], è altrettanto indubitabile che indagare i sintomi di una società significa partire da quelli che interessano l’individuo, nel suo essere singolare e collettivo. Sintomatologia, analisi dei sintomi della società, è la strada che si apre ad un sapere che fa uso della psicoanalisi per individuare i disagi del vivere insieme, le oscenità e i tratti nevrotici oscenamente celati dietro pratiche collettive irriflesse. Per questo, afferma Derrida, bisogna aiutare la psicoanalisi ad aver luogo, a liberare le proprie energie destrutturanti e la propria forza d’indagine che non è perimetrabile esclusivamente nel recinto della clinica.

Una sintomatologia che valuta la possibilità di una politica dell’im-possibile, di ciò che è al di là dei principi fondanti su cui si regge ogni onto-teologia, questo il possibile percorso intravisto da Derrida per la psicoanalisi di cui si sente amico e che, a tutti gli effetti, è una pratica potenzialmente rivoluzionaria. L’amico della psicoanalisi, in tal senso, non è il solerte esecutore di un’ortodossia dogmatica che si riconosce, contrariamente allo spirito freudiano, nella celebrazione della propria liturgia, ma chi conduce la psicoanalisi sul terreno paludoso e liminare della propria condizione d’impossibilità, là dove vengono meno gli steccati disciplinari e le ibridazioni sono potenziali fattori di liberazione trascendentale. Perché si verifichi ciò è necessario che venga messo da parte il mito fondante di un «senso nascosto» da restituire al soggetto afflitto dal sintomo, «il luogo inaccessibile dell’interpretazione è, contemporaneamente, il luogo di un legame e di un taglio, di un filo reciso e annodato che l’analisi non può più sciogliere» (p.25). Le resistenze mostrano proprio che un punto nell’oscurità dell’inconscio si sottrae sempre ad ogni processo simbolico: «il senso dell’analisi sembra giocarsi tutto qui» (p.27). Derrida si avvicina così tangenzialmente a Lacan che ha individuato questo regime dell’impossibilità nel Reale, l’osso di ogni analisi, ciò che non può essere digerito, metabolizzato e che sospende la pretesa logocentrica dell’analisi e «la apre alla possibilità impossibile di un’analisi pratica, di un’analisi al di là dell’analisi» (p.27). Di quest’analisi che non teme di subordinare il proprio discorso alle pratiche tecnico-scientifiche oggi si sente particolarmente il bisogno.

J.Derrida, Resistenze. Sul concetto di analisi (1992), trad.it. di A.Busetto e M.Di Bartolo, Orthotes, Napoli 2014.



[1] Cfr.J.Laplanche-J.B.Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, trad. it. a cura di L.Mecacci e c. Puca, Laterza, Roma-Bari, p.540.
[2] Ivi, p.541.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. J.Derrida-E.Roudinesco, Quale domani, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p.229.
[5] Cfr. S.Freud, Il disagio della civiltà, in OSF, vo. X (1924-1929), Bollati Boringhieri, Torino 1989, p.629.

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3 Commenti

  1. kharban@virgilio.it

    Un testo che non brilla per
    Un testo che non brilla per chiarezza. Al di là di ciò, la sensazione che se ne ricava è, comunque, quella di una topografia della mente rigidamente compartimentata, nella visione di un ragionamento “fermo” cioè incentrato su Freud e non sulla psicoanalisi che, nel XXI secolo è qualcosa di più del pensiero freudiano, e contiene tutta la sua storia successiva. L’ermeneutica che ne viene descritta sembra costituita da due campi staticamente separati dalla rimozione e dalle resistenze che vi sono connesse e non sembra minimamente influenzata dalla relazione, che rende molto più mobile e variegato lo scenario, sia a causa delle interazioni soggetto ambiente, sia a causa del dialogo analista-paziente (uso questo termine perché non ne conosco di migliori).

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    • mzfabio

      Caro Gianni, mi spiace che il
      Caro Gianni, mi spiace che il testo (credo tu ti riferisca alla mia nota di lettura) ti risulti poco chiaro ma non essendo tu più specifico (cosa desideri io chiarisca?) non so come delucidare i tuoi dubbi. Il tuo, così posto, è un appunto troppo generico e come tale lo lascio cadere.
      La conferenza di Derrida è del 1991 e nello specifico prosegue un discorso avviato con Freud già ai tempi di “Freud e la scena della scrittura” per questo deve essere situato alla luce di ciò e non ha alcuna pretesa di esaustività relativamente al discorso psicoanalitico nella sua interezza. Il concetto di “resistenza” (insieme a quello di rimozione) è funzionale alle logiche decostruttive di Derrida e in tale luce deve essere situato; non ha invece alcun legame con la “clinica”, ambito cui tu fai riferimento, semplicemente perché a Derrida non interessa problematizzare secondo questa chiave di lettura. Qualunque ermeneutica del testo che non tenga in conto la specificità del corpo a corpo derridiano con i testi di Freud rischia di mancare il bersaglio perché non tiene in conto elementi quali la critica al logocentrismo, la decostruzione della piena presenza, la disseminazione dei discorsi e, più in generale, l’attacco alla metafisica classica, tutti elementi centrali per la filosofia di Derrida.
      Spero ci legga anche il curatore della conferenza che, qualora lo desideri, può contribuire a chiarire e situare ancora meglio la conferenza.

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      • mzfabio

        Allego il commento del
        Allego il commento del traduttore del volume recensito Michele Di Bartolo:

        “Nel raccogliere l’invito di Fabio Milazzo a intervenire in questa discussione sorta intorno al suo articolo, vorrei in primo luogo ringraziarlo per aver dato spazio nella sua rubrica al saggio di Derrida che ho curato per l’editore Orthotes in collaborazione con Anna Busetto. Derrida è un autore complesso e sebbene questo testo non sia uno dei suoi più difficili, per comprenderlo pienamente (ammesso che ci sia mai una comprensione completa) occorre, come ha osservato Milazzo nella sua risposta all’intervento di Gianni Guasto, una conoscenza dei suoi scritti precedenti. Nell’introduzione ho provato a fornire un quadro che consenta di collocare Resistenze entro la produzione derridiana, sia per fornirne una chiave di lettura, sia per offrire dei riferimenti bibliografici a chi voglia ricostruire il complesso dialogo tra Derrida e la psicoanalisi, intesa come teoria, come pratica e come istituzione.

        Sono d’accordo con queste due affermazioni di Guasto:

        1. La Psicoanalisi “nel XXI secolo è qualcosa di più del pensiero freudiano, e contiene tutta la sua storia successiva”.
        Il problema del rapporto tra Freud, la sua teoria, la sua scuola e l’istituzione che in qualche modo continua a portare il nome del padre è, secondo Derrida, uno dei nodi fondamentali da sciogliere per liberare il potenziale decostruttivo della psicoanalisi. La psicoanalisi ha una storia e questa storia merita di essere ricordata, ma anche ripensata. Si tratta, in fondo, della storia di un’eredità, di un lascito, di una filiazione. Ed è proprio entro la scena dei diritti di successione, che è in fondo la scena originaria della psicoanalisi come istituzione, che si annida, secondo la lettura derridiana, una delle resistenze della psicoanalisi a se stessa.

        2. La relazione “rende molto più mobile e variegato lo scenario” ermeneutico.
        Secondo Derrida la psicoanalisi, sotto la vecchia parola “analisi”, nominerebbe qualcosa come un nuovo concetto di analisi, capace di mettere in discussione tutta la storia di questa nozione. Un’analisi che non è solo un sapere, ma anche un fare, un’analisi effettiva ed affettiva che si colloca a cavallo della discontinuità tra dimensione epistemica e dimensione pratica della soggettività. D’altro canto Derrida rileva che proprio la nozione di resistenza all’analisi rischia di reinscrivere la relazione analitica entro una logica di sapere/potere.

        La complessità del discorso meriterebbe una riflessione più approfondita, che non può essere svolta in questa sede. Non posso che rimandare alla lettura diretta dell’autore.

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