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Ricordando l’epoca delle passioni tristi

2 Mar 22

A cura di Gerardo Favaretto

 In un momento in cui il termine crisi sembra cosi' persistente da diventare quasi strutturale ripropongo alcune mie considerazioni all'uscita del testo "sulle passioni tristi" di Benasayag e Smith chiaramente datato ( è del 2004) ma , a me pare , ancora in grado di dare qualche suggestione .




 

 
Non capita spesso di prendere in mano un testo e considerare che il ragionamento attraverso il quale ti conduce proponga un punto di vista originale.
 Tutti i testi fanno pensare;  dato che  questo sta nel patrimonio genetico della scrittura, ma un libro che sviluppa a partire dalla  rilettura, forse inconsapevole e in parte casuale ,  di quella fenomenologia dell’attesa, di cui Ernst Bloch ci aveva dato uno esempio positivo e memorabile   nel suo “ Principio speranza”,   rappresenta effettivamente  una occasione di affrontare un ragionamento complessivo da un punto di vista originale.
L’intuizione iniziale di descrivere uno scenario del sentire comune, della “ emozione collettiva” ha , probabilmente, il valore di  giustificare “L’epoca delle passioni tristi” e il suo buon successo editoriale.
 Pur partendo da un  oggetto di discussione assai complesso che corrisponde a quella misteriosa quanto plurindagata, categoria che sono i “ giovani”,  gli autori propongono subito un ragionamento che si  basa  sul  rovesciarsi del “sentimento d’attesa”   da positivo , la speranza di un futuro migliore e soddisfacente ,  a negativo   , l’angoscia per un futuro minaccioso e frustrante.
Non solo il futuro sembra prometterci più nulla di buono, non solo la soluzione ai nostri problemi e alle nostre difficoltà , riassumibili nel sentimento in un melanconico sentimento di morte , sembrano allontanarsi,  ma , addirittura l’aspettativa del domani diventa  , in una prospettiva “ triste”,  un vuoto , il nulla , la mancanza di qualsiasi garanzia rispetto al fatto che sia opportuno impegnarsi in una attesa.

  
L’intuizione originale sta , fuor di ogni discussione,  nel respiro epocale del ragionamento; nel recupero di  un contesto generale in cui questa dimensione di “ attesa  di nulla”  o  della nullificazione del  valore dell’attesa  che gli autori definiscono ricorrendo ad un  termine spinoziano come “epoca passioni tristi”. A questo autore dobbiamo dunque  l’accattivante titolo del libro.
A ben vedere si tratta, per una volta,  l’opportuno indagare  un rovesciamento del ragionamento tipico  dei professionisti della psicoterapia: invece che ricostruire ipotesi su un  passato di conflitti e mancanze delle persone conosciute e curante durante la loro attività professionale,  i due colleghi si pongono il problema di capire , attraverso di loro,  che cosa “ci” aspetta e quali sono gli scenari che consentono agli psicoterapeuti, oggi , di poter garantire ai  propri  assistiti una prestazione professionale utile. Questo interrogativo ricorda quella provocatoria intervista a  James Hilmann che uscì anni fa con il titolo di “ 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio” in cui si rimproverava agli psicoterapeuti una mancata attenzione per il contesto vitale delle persone accecati da un laboratorio introspettivo  sempre più astratto e lontano dalle cause della sofferenza, dell’infelicità, dell’ingiustizia.
Ma sarebbe superficiale non cogliere anche un secondo livello cui il testo allude : l’empasse del simbolico , territorio principe della psicoterapia , crisi di una rappresentazione che viene svuotata dall’impatto  negativo delle passioni tristi   nella sua stessa funzione di significazione, quindi di legame e di valore sociale.
Il   contesto di oggi , del nostro esserci è molto  difficile da disegnare ; da cosa sono caratterizzate le   culture occidentali ,  quali le caratteristiche della società e quali i valori :  molti hanno costruito una abitudine a  esorcizzare la  paura di attentati o di  catastrofi sulle quali sono , comunque ,  sempre puntualmente aggiornati. Ma  ci si confronta con culture diverse dove  il futuro è accessibile dal sacrificio, come accadeva per gli eroi greci che cercavano immortalità nella morte, così  chi  si immola anche in atti disumani e distruttivi  sfida la nostra comprensione portando   valori che se non rappresentano di  per sè un futuro,  si  comprendono  “ divinamente “ ,  condivisi  esclusivamente dall’ etica di gruppi specifici ciechi a qualsiasi visione di esistenza alternativa a quegli stessi principi .
 
La melanconia invade la nostra epoca , i territori dell’occidente ;  una melanconia etica tendono a ribadire fra  le righe  gli autori , non  è quel genere di melanconia che ricorda le grandi aspirazioni al sapere , all ‘evolversi della conoscenza  che combatte con lo spettro del nulla,  oggetto delle grandi rappresentazioni rinascimentali  che ci hanno appassionato nel “Saturno e la melanconia “  di Klibansky, Panowsky e Saxl ;   non è neppure  la tristezza di chi ha perduto qualcosa nell’ombra dell’oggetto come dicono gli psicoanalisti,   ma  è quella passione di chi  di non ha altro che attendere la fine di un percorso oramai privo di sorprese,  se non  quelle devastanti e negative che ci  informano, puntualmente ,  che potrà certo andare peggio di così. E’ la melanconia impenetrabile , indicibile, annichilente del nulla che fa che ciascuno sia non Uno ma Solo, privo di legami ,  immerso in  una  caricatura sociale  dell’”esserci” prodotta dalla formidabile e instancabile  macchina delle rappresentazioni sociali.   Molto illuminate da questo punto di vista l’esempio del paziente che apprendendo dal telegiornale l’esistenza di un caso di “mucca pazza”  mentre sta mangiando una bistecca ha una importante e giustificatissima crisi di angoscia perché  percepisce una minaccia che invece i familiari , abituati ormai allo shock delle notizie televisive,  non recepiscono come allarmante;  continuano tranquillamente a masticare la loro carne mentre sono  informati che la  carne che stanno mangiando potrebbe essere  letale . Loro contano che  il prossimo telegiornale racconterà la storia di “qualcun altro” per cui lo è stata .
Forse quello che però gli autori non riescono a dirci completamente  , ciò di cui non riescono a parlare  è la perdita di responsabilità nei confronti del pensiero. L’avere assunto , desiderio e pensiero, traiettorie divergenti è una cosa difficile da analizzare al di fuori di un contesto strettamente clinico e di lettura di un mondo individuale.  Ritrovare quei movimenti che rendono difficile il pensare ,  e quindi obbiettivamente triste ogni condizione di consapevolezza sembra essere un obbiettivo al di fuori della portata degli autori.
Si tratterebbe , in altre parole di passare dal piano dell’interpretazione a quello della ricostruzione dei processi costruttivi e distruttivi che caratterizzano l’identità e l’identificarsi nei contesti cui gli autori stanno facendo riferimento. A più riprese il libro è percorso da riferimenti alla pratica clinica e di consultazione , alle richieste che  vengono portate nell’ambito di un servizio ambulatoriale. A queste, in modo sempre, opportunamente,  non sistematico, seguono ragionamenti su questioni centrali ; l’educazione , l’etica , unicità e molteplicità, desiderio e ripetizione…. Insomma riaffiorano, in maniera non organizzata ma piacevole a sfogliarsi,  tutte le tematiche che riguardano non solo il lavoro psicoterapeutica ma anche l’evoluzione della visone del mondo che lo sostiene. Si vedano per esempio le parti su “ etichetta e molteplicità della persona” o “etichetta e determinismo” senza dimenticare le necessarie riflessioni sulla complessità e “molteplicità” del mondo contemporaneo. Non a caso gli autori, francesi ,fanno riferimento con molta disinvoltura ad autori diversi, da Spinoza , all’immancabile Lacan da Freud a Plotino  senza privarsi di qualche autocitazione.
Nel  mettere insieme questi elementi  gli autori ci portano ad affrontare un importante trasformazione nel nostro punto di vista di psicoterapeuti che provo a sintetizzare in qualche  domanda ; esiste un declino nell’ambito del lavoro simbolico da cui emerge la necessità di un interesse più diretto ai fenomeni dell’esserci, della individualità , della relazionalità,  della stessa organizzazione sociale ? Cosa comporta il passaggio dalla tecnica,  alla strategia relazionale,  alla rilettura in chiave etica e , poi  pedagogica ossia ,   ridiscutere  e ridisegnare sullo sfondo di questo nuovo e tormentato scenario i   valori su cui si fonda  il percorso psicoterapico ? Assistiamo a una riscoperta del  trattamento morale  teso in questa nuova edizione a un  recupero del  lavoro di “solidificazione” della responsabilità  e dei “legami” così dissolti nel Nulla ? E poi, è davvero questo,  un punto di vista epocale e il recupero dell’ “etica del legame e della responsabilità”  è  una risposta a questa crisi?

 

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