E dalla ventiquattrore tira fuori una lettera che ci passiamo seduti in cerchio. E’ sottoscritta dai numerosi figli di questa coppia di anziani che da molti anni vivono sommersi da cianfrusaglie di ogni tipo. Si giustificano per non aver segnalato prima il problema, ma ne hanno sottostimato la gravità visto che sono cresciuti, come gli abitanti della caverna di Platone, con un padre che da sempre accanito radioamatore accatastava radio, antenne, parabole, cavi elettrici. Anzi, era di un certo vanto familiare che il capofamiglia si fosse guadagnato degli onori prestando servizio come tecnico addetto ai ponti radio durante la seconda guerra mondiale. Comunque, dopo essere usciti dall’isolamento, si sono decisi a chiedere aiuto, anche perchè la situazione sta precipitando, è il caso di dirlo, a vista d'occhio. Gli ingombri hanno invaso il giardino, sono quasi sulla strada, e i genitori non riescono più a raggiungere la stanza da letto al secondo piano. Vivono, mangiano e dormono in cucina. Chiedendo un po' in giro, hanno scoperto che il problema dell’accumulo è un vero e proprio disturbo psichiatrico, noto da anni in America.
Lo chiamano Hoarding Disorder, che paradossalmente rimanda un po' alle parole ordine e roaring, ruggente, pur avendo ben poco a che fare con entrambe. Qui da noi, nella periferia culturale ed economica, è stato tradotto con il termine di “Disturbo da Accumulo”. Grazie anche a delle serie tv dedicate, la notizia della sua esistenza si sta diffondendo, insieme ai casi diagnosticati e ai centri specializzati in tecniche per la cura. Per precauzione comunque, come subodorando la provincialità ignorante degli psichiatri pubblici a cui si rivolgono, alla lettera hanno allegato una breve descrizione del disturbo presa da internet e un fascicolo informativo di una clinica italiana che se ne occupa.
Intorno al tavolo siamo tutti d'accordo che sarà abbastanza difficile fare una valutazione psichiatrica o proporre un percorso a due persone quasi novantenni. Scampate alla guerra sì, ma ora chiamate a a tener testa a un'altra linea di fuoco. Eschilo in fondo aveva ragione a dire che fino al giorno della sua morte un uomo non può dirsi felice. Non aveva immaginato però che in un’altra epoca ci sarebbero stati i servizi psichiatrici a provare a cambiarne il destino.
Terminiamo decidendo di chiedere una riunione con chi dovrebbe intervenire per mettere in sicurezza l'abitazione. E così, un paio di settimane dopo, io e il collega, appaltatori del caso per “competenza territoriale”, ci rechiamo alla riunione fissata in un ufficio dell'ASL. Sarà il tavolaccio grigio, la fredda luce del neon al soffitto o la fitta nebbia della mattina, ma ho come l’impressione di trovarmi a un komitet della periferia sovietica. Intorno a noi, varie facce stanche di vari membri di vari uffici dell'ASL e del Comune. Inaspettatamente però, è l'insofferente medico di famiglia a prendere subito la parola. O meglio, a scaricare un po' di frustrazione e disappunto per la riunione e per il tempo che gli farà perdere, vista la sua estraneità alla questione e a ogni possibile soluzione. Lui conosce da tempo i due assistiti, ma si è occupato soprattutto delle loro problematiche fisiche, pressione, diabete, colesterolo. Trattasi di brava gente, continua, si presentavano con parsimonia ed educazione, non come quegli anziani che affollano gli studi quotidianamente per farsi “controllare” o solo per scambiare qualche parola. Così quando i figli gli hanno posto il problema, si è meravigliato che due persone così tranquille potessero dargli dei grattacapi. Che comunque non ha perso tempo nel passare al geriatra. Il quale a sua volta ha respinto il colpo al neurologo. E quest’ultimo ha chiuso il cerchio del rimando di competenze concludendo che il problema è psichiatrico. Chè quei pochi punti al “mini-mental” sono già una bella fortuna a novant’anni. Per il medico di famiglia “sono stati fatti tutti gli accertamenti”. A questo punto della questione non possono che occuparsene gli psichiatri.
C’è chi annuisce con l’espressione del “ha ragione, c’è poco da fare” e chi si guarda intorno stranito come se avesse perso le coordinate dell'orientamento abituale. Io e il collega pur rimanendo un po' spiazzati dal tono diretto, guardiamo con gratitudine il medico di base, almeno per averci sottratto alla spirale dei ritualistici discorsi istituzionali, con le parole generiche che diventano ammiccanti e infine scontate e direttive. Per cui quando un problema è strano, non è risolvibile con la ragionevolezza e finisce per dare troppi fastidi, allora è la Psichiatria che se la deve sbrigare. E in questo caso deve farlo alla svelta. Perchè gli ingombri oramai sono a vista, quasi in strada e potrebbero causare un incidente. E questi vecchietti tenaci non vogliono proprio saperne di andarsene in una comoda casa di riposo. Lasciando che venga eliminata quella robaccia inutilizzabile accumulata negli anni come a scandire l’esistenza. O a fare da guscio protettivo dalla solitudine, dall’abbandono. Ma soprattutto, nel caso dovesse succedergli qualcosa, i figli hanno già fatto sapere che riterranno responsabili le parti chiamate in causa.
Per tagliare corto, ecco dunque che viene portato in scena il fantasma della denuncia, da scongiurare come la peste. E per farlo bisogna dare una risposta al problema nel più breve tempo possibile, per dire che qualcuno se ne sta occupando. Perché il fare, qualcosa, qualunque cosa, è già una giustificazione.
Rassegnati, come due gendarmi ci ritroviamo così sull'uscio di casa dei due arzilli novantenni, e subito siamo sorpresi dall'ospitalità della coppia, dai loro visi sereni e dalle espressioni languidamente sperdute nelle lande della dimenticanza. Non sono affatto preoccupati che due sconosciuti, per di più psichiatri, si presentino in una mattina qualunque a svolgere una valutazione qualunque, col mandato di porre fine alla sregolatezza della loro vita. Anzi ci onorano offrendoci il posto più ambito per una gelida mattinata invernale, vicino alla stufa a legna che occupa metà della stanza in cui si sono auto-confinati. Col collega ci guardiamo: la benevolenza sarà dovuta al “decadimento cognitivo”? Oppure perchè ci siamo presentati come medici e attingiamo furbescamente agli onori che un tempo remoto destinava ai nostri antenati, un mondo ormai confinato solo nei residui di memoria di questi due quasi centenari? Magari è solo il carattere delle persone, che sostiene la vita di ognuno come una colonna portante. Quel carattere che nessuno sa ben spiegare cosa sia, forse perchè è sfuggente come un nucleo magmatico e si manifesta all'esterno solo per attimi, per dare forma al modo in cui viviamo la vita. E la malattia. Ci accompagnano quindi in perlustrazione e dopo esser passati per corridoi diventati cunicoli, stanze come strette catacombe, tra materiali elettronici di ogni tipo, essere saliti tra i vari piani incuneando il corpo di traverso su per le scale intasate di riviste ingiallite come pergamene, aver sbattuto un paio di volte la testa contro dei soppalchi artigianali costruiti per restringere ogni lembo d'aria di questa casa asfittica come un'arca di Noè cibernetica, siamo felici di riuscire a riemergere al mondo, alla vita. Felici almeno quanto la strana coppia di salutarci, di dirci addio. Già, perchè non saremmo proprio in grado di fornire quelle psicoterapie o farmacoterapie che le cliniche del settore raccomandano. Restiamo convinti che in una situazione simile, per due persone così fragili, anche il fare meno invadente potrebbe essere un trauma. Speriamo che venga dato quantomeno un supporto nel riassettare la babele. Ne parliamo coi figli, poi con gli assistenti sociali e i referenti dell’ASL. Passando con l'auto dopo qualche mese, però, ritrovo gli stessi depositi a vista.
Se in quest’occasione avevo in qualche modo provato l’emozione insperata di entrare nel reality “Sepolti in casa”, diversi anni prima mi ero sentito come sulla scena di un set cinematografico, a casa delle due zie di Cary Grant in “Arsenico e vecchi merletti”, con un teletrasporto temporale agli anni quaranta. Anche se per la verità, ora che ci ripenso, l’aspetto della protagonista richiamava più quello di una Maga Magò nella fiaba de “La spada nella roccia”.
Come guardia medica in un piccolo paesino del Nord, ero stato chiamato di notte per una signora anziana che si era sdraiata a dormire sui gradini dell’ingresso del suo palazzo. Non era la prima volta che accadeva, mi diceva al telefono preoccupata la vicina di casa, e non c’era modo di aiutarla nonostante lei stessa si fosse rivolta a più servizi. Si era presa a cuore la vicenda perché la signora non aveva nessun parente, nessuno che le facesse visita, o solo le portasse la spesa, raccogliesse la spazzatura. E da sotto la porta di casa non era raro che esalasse un olezzo infestante il condominio. A volte venivano fuori anche degli scarafaggi. Mi ritrovai così ad entrare nottetempo, nell’abitazione di quella minuscola Maga Magò dai capelli bianchi svolazzanti da strega. Per fortuna accompagnato dalla vicina. Vincendo la paura, riuscimmo ad affrontare le scure e angustianti cataste di vestiti laceri, di spazzatura e scatoloni contenenti chissà cosa, e ad attraversare lo stretto corridoio illuminato solo dal tenue bagliore della candela accesa dall’anziana strega (già, perché tutte le utenze erano state sospese senza che a nessuno venisse in mente di verificare il motivo dei mancati pagamenti), fino alla stanza incriminata. Con Maga Magò avevamo pattuito che prima di andare in pronto soccorso per una tardiva valutazione bisognava che verificassi con i miei occhi la presenza di quei ragazzi che di notte, da molti mesi, si intrufolavano in casa sua e se ne stavano a parlare per ore senza rivolgerle l’attenzione, sfuggendo di stanza in stanza quando lei si avvicinava. Negli ultimi tempi li aveva sentiti dire cose brutte sul suo conto e così ora preferiva dormire fuori casa. La perlustrazione però fu vana, dei due amanti nemmeno la piccola ombra che la candela avrebbe potuto garantire. “Prima erano qui, se ne saranno scappati sul tetto dal balcone, andiamo in ospedale se è proprio necessario”, mi disse Maga Magò. Venni poi a sapere che ci fu più che altro un rimpallo della gestione tra vari specialisti, psichiatra, geriatra, neurologo. Di fatto, la conclusione fu la prescrizione di qualche milligrammo di risperidone e una segnalazione agli assistenti sociali.
Ho scritto dei due episodi, e ce ne sarebbero altri, perché mi è sembrata sorprendente la diffusione di questa condizione dell’accumulo che fino a poco tempo fa pensavo solo filmica. D’altra parte anche ufficialmente viene segnalata una prevalenza notevole, tra il 2 e il 6 % della popolazione generale. Come disturbo autonomo. Sembra però associarsi anche ad altri disturbi, alimentari, d’ansia, affettivi e psicotici. Un’epidemia insomma, e verrebbe da insospettirsi visto che si tratta di una nuova etichetta, aggiunta di recente alla nosografia ufficiale. Eppure le remore cospiratorie passano in second’ordine quando ci si trova di fronte a così tanti diseredati, a vedere in quanti si sono ridotti a vivere in tombe di spazzatura. La riflessione va al di là delle mere constatazioni epidemiologiche e diagnostiche, o alle ipotesi patogenetiche.
La cosa che più mi ha sorpreso nell’incontro con quelle vite è stata infatti la miseria estrema. Delle case, del tempo vissuto. Ma anche di quella dell’abbandono a cui erano state destinate. Si dirà che è una conseguenza del disturbo, o dei disturbi, delle malattie sottostanti a quest'epifenomeno dell'accumulo. Che se la psicopatologia è un disturbo della libertà (Ey), qui di libertà ne troviamo davvero poca, con l’accumulo parossistico che finisce per obliterare anche gli spazi vitali, costringendo i corpi a muoversi sempre più a fatica, fino all'immobilità.
Miseria, spazzatura, solitudine. Mi rimandavano alla vista di chi, oramai sempre più spesso, setaccia gli avanzi accumulati nei cassonetti, in scene a cui una volta assistevamo solo con le inquadrature dei film ambientati in qualche sobborgo americano. E che da un po' invece ritroviamo sotto casa.
E allora mi è sembrato possibile che esista un parallelismo tra una condizione accertata come patologica, diagnosticata come sottospecie del Disturbo Ossessivo Compulsivo, e una legata a un tentativo di sfamarsi, proteggersi dal freddo. Sopravvivere. E che il tratto unitario sia proprio la marginalità. La miseria che, finchè rimane muta e non infastidisce, non riesce a suscitare alcun interesse. La si lascia scorrere indifferente sotto agli occhi, come le vite degli anziani abbandonati che costruiscono anno dopo anno barriere per difendersi da un fuori ostile. Come a voler tener fuori proprio l'avanzata della miseria, della povertà, dell'abbandono, del nulla. Persone sconosciute o dimenticate dai servizi, da quelli assistenziali prima ancora che psichiatrici, dagli amici, dai familiari, dai gestori delle utenze. Persone ridotte a vivere come animali in un'alcova, al buio, al freddo, senza acqua e cibo che non sia quello racimolato dall'immondizia.
No, troppo semplice intravedere in tutto ciò solo una malattia, che arriva come un fulmine divino o un contagio che sta infettando l’umanità.
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