Lo scenario è facilmente ricostruibile.
Una radiosa mattina dello scorcio iniziale di questo caldo autunno (attenzione all’ordine sostantivo/aggettivo).
Genova Quartiere Fieristico.
Siamo in sette lì all’evento Orientamenti, invitati dalla Regione Liguria a presentare e sostenere, davanti ad una gradinata vociante di quattrocento giovanotte e giovanotti, il Progetto SUN (Smart Use of Network), vale a dire un programma di intervento nelle scuole mirante a sensibilizzare ad un uso consapevole dei social.
L’ambiente è quantomai informale, il rumore di fondo dello spazio fieristico invita a fare discorsi brevi e ficcanti, in piedi col microfono, e mi sembra che complessivamente ci si riesca: via via tutti (il giornalista, il politico, l’amministrativo, l’avvocato, il funzionario di Polizia, il rappresentante dell’azienda di settore, l’educatore) espongono le loro ragioni e i loro moniti, con esempi diretti e convincenti, del tipo “mai cedere alla prova d’amore di dare la propria password a fidanzatino/a”.
Ad un certo punto mi accorgo che di noi sette “esperti” una sta proponendo il suo intervento, un altro (dirigente del Compartimento di Polizia) è intento ad ascoltare e gli altri cinque, me compreso, sono lì a dialogare con i loro telefonini (forse “ai” loro telefonini).
Beh, un po’ mi vergogno.
E meno male che nel mio intervento ho chiesto all’uditorio di esercitare tolleranza e intelligenza.
Tolleranza nei confronti di adulti che sfidando l’ideologia dominante vanno a far loro discorsi di cautela senza però indulgere e far indulgere a pessimismo o luddismo, ma anzi rinforzando la componente liberatoria della comunicazione di rete: liberatoria certamente rispetto al “mondo comunicativo di prima”, gerarchizzato differenziato e differenziante, e in questo decisamente più semplice.
Tolleranza nei confronti di chi come noi necessariamente paga sulla sua stessa pelle l’impegno a vivere pienamente, anche dal di dentro, il nuovo spazio comunicativo. Tolleranza, insomma, nei confronti di educatori non ancora pienamente capaci di autoeducarsi.
E intelligenza. Capiteci, ragazzi. Soprattutto cercate di capire che state vivendo una fase di transizione che non riguarda solo i meccanismi e le forme della comunicazione ma che investe direttamente i rapporti fra le generazioni, le forme e le attribuzioni dell’expertise, l’identità stessa delle istituzioni.
Cercate dunque di prepararvi ad essere più intelligenti di noi.
Ma per certi aspetti già lo siete.
L’altra mattina facevate casino parlando fitto fra di voi, e per questo siete stati ripresi, ma non usavate tutti il cellulare, come invece facevamo noi.
Nel vedervi la Sherry Turkle di Reclaiming Conversation: the Power of Conversation in Digital Age sarebbe stata contenta. Soltanto, vi invito ad esercitare con costanza questa vostra intelligenza istintiva (e non solo). Non lasciatevela (e non lasciatevi) imbrigliare.
Il “recupero” del dialogo diretto, con interlocutori presenti, e dunque l’uscita dalla gabbia protettiva della comunicazione social, esercitata con interlocutori né troppo lontani né troppo vicini, acquista una prospettiva particolare e particolarmente positiva una volta che i meccanismi liberatori dell’interazione di rete siano stati acquisiti e pienamente interiorizzati. Non può essere, quello del “ah il dialogo è un’altra cosa!” un alibi per svalutare o bloccare il social e questa sua componente antiburocratica e antigerarchica.
Sono sicuro che ciascuno degli “esperti” dell’altra mattina potrebbe raccontare di “capi” che rifiutano di fare posta non per esser più umani e dialoganti, ma per costringere i “sottomessi” a chiedere udienza.
Come Giandomenico Fracchia.
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