Saba e la “colpa” d’essere vulnerabili e mortali: “La vetrina”
2 Mag 20
A cura di Sabino Nanni
In un’epoca di grave difficoltà e pericolo, come l’attuale, si regredisce: si torna all’illusione infantile di poter ottenere da chi sostituisce i genitori (le autorità, le istituzioni) una protezione “perfetta” che renda invulnerabili; da qui la pretesa di alcuni di poter ricominciare a vivere normalmente solo quando il rischio sia ridotto a zero, e non esista più traccia di preoccupazioni e d’incertezze. C’è l’idea assurda che, se tale pretesa viene frustrata, ciò debba essere necessariamente colpa di qualcuno: o delle persone stesse che corrono il rischio, o delle autorità che non riescono a risparmiarlo alla gente. È un’idea dannosa: porta a conflitti fra autorità e cittadini, che si attribuiscono reciprocamente tale vera o presunta “colpa”, nel momento in cui le critiche dovrebbero essere fondate e costruttive, e sarebbe necessario un rapporto di collaborazione. Se portata all’estremo, la pretesa di una protezione “perfetta” diventa anche pericolosa: porta, in ultima analisi, al desiderio di cessare di vivere del tutto. Umberto Saba c’illustra questo tipo di sentimenti e pensieri ne “La vetrina”.
Qui il Poeta, ammalato e immobilizzato nel letto, osserva un mobile antico della sua stanza. Dietro una vetrina, ci sono stoviglie che appartennero alla madre, ed altre ereditate dai suoi avi:
….. Altre vi sono cose
cui guardo con rimorso oggi ed affanno,
e così lieto le guardavo un giorno,
che di nuove acquistarne avevo brama.
Ciascuna di esse a un tempo mi richiama che fu sì dolce, che per me non fu tempo, che ancor non ero nato, ancora non dovevo morire…………….
…………………………………
……… E in un m’accora
strano pensiero, che mi dico: Ahi, quanta pace era nel mondo prima ch’io nascessi; e l’ho turbata io solo. Ed è un mendace
sogno; è questo il delirio, amiche cose.
………………………………………..
…………………… Nel buio,
tornar nel buio dell’alvo materno,
nel duro sonno, onde più nulla smuove,
non pur l’amore, soave tormento…
Le antiche stoviglie evocano un passato idealizzato e perduto, e questo si accompagna ad un assurdo rimorso, come se fosse stato il Poeta, nascendo, a turbare quel Paradiso gettando su sé stesso la maledizione che accomuna i mortali: la fragilità, la vulnerabilità, il dover provvedere a sé stessi, senza poter contare su di una protezione “infallibile” da parte di chi li dirige. Pur riconoscendo che tale idea è delirio, il senso di colpa legato alla sua nascita spinge il Poeta a desiderare un ritorno nel buio dell’alvo materno, dove i tormenti della vita (anche il pur soave amore) sono sconosciuti. Lo spinge a desiderare un ritorno ad un’epoca anteriore all’inizio della vita; ritorno che, per una persona adulta, non può essere altro che la morte.
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