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SALA 21 – QUARTO. 7-18 maggio, diario genovese

19 Mag 18

A cura di Paolo F. Peloso

Da un paio di settimane mi capita quasi di passare più tempo alla “Sala 21” – le ex cucine del manicomio di Quarto da sei mesi circa rese fruibili dall’impegno del Coordinamento per Quarto e della ASL come sala d’incontri con più di 200 posti – che a casa mia (sonno escluso). Si è cominciato lunedì 7 con “La città che cura” seconda edizione, che ha aperto la settimana “180×40” e con la siglatura del “Patto per la salute mentale”. Un patto col quale ci si propone di ribaltare i termini di un altro “patto”, in quel caso tacito, con il quale Genova ha tentato di considerare risolto il problema dell’assistenza psichiatrica. Vi rifocilliamo per bene – rispetto alla media nazionale – in personale e posti letto specialistici (ospedalieri e residenziali), ma accontentatevi di poco quanto a opportunità di lavoro, case, spazi di accoglienza per non dire del ridimensionamento imbarazzante e drammatico che hanno subito da una decina d’anni sussidi e opportunità d'intervento economico per chi oltre che malato è proprio povero. Insomma: vi diamo parecchio da un punto di vista strettamente sanitario, ma arrangiatevi per il resto!
Invece no: istituzioni, servizi e associazioni – che cominciano a diventare, almeno per quanto riguarda i familiari, un’entità più rappresentativa – hanno siglato un patto: la città deve curare, non può far finta di niente. Di impegni concreti, di risorse materiali, non c’è molto: ma l’impegno pare a un drastico ribaltamento di indirizzo che dovrebbe portare in primo luogo a un maggiore coinvolgimento di altre istituzioni, associazioni, persone – della città insomma – nella programmazione, anche a livello locale, dei territori; e il resto speriamo che segua.
Ancora nella mattinata una bella sorpresa: le prime copie del libro postumo di Antonio Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, pubblicato dalle edizioni Alphabeta di Merano nella collana 180, sui primissimi anni quando Slavich era l’unico collaboratore di Franco Basaglia a Gorizia. Ma su questo avremo occasione di ritornare presto, spero.     
Poi, il pomeriggio per me è proseguito con l'inaugurazione della mostra fotografica "Manicomio. Figure della contestazione" e l’inizio delle presentazioni librarie alla Biblioteca Lercari e alla Berio, ed è stato soprattutto l’occasione per un incontro piacevole con persone con le quali ci sono interessi comuni: Marica Setaro, Oreste Pivetta, Eugenio Borgna, Annacarla Valeriano, Antonio Esposito e Dario Stefano Dell’Aquila e, per chi si è fermato, l’occasione per mostrare qusta città che in certe sere di primavera sembra voler esibirsi in tutto il suo fascino secolare e segreto per far bella figura di fronte all’ospite. La sera, lo spettacolo “Ti stai sbagliando mi riprendo la vita” alla sala di “Music for peace”, questa volta fuori dall'ex-manicomio, al lato opposto della città, un monologo sull’esperienza di recovery scritto da Patricia Deegan. Interpretazione affascinante e il piacere e la sorpresa di ritrovarci in un centinaio e riconoscerci come un gruppo: operatori, pazienti, familiari, volontari, ma anche curiosi. Per una sera diversa, a ragionare soprattutto, condotti dalla recitazione inappuntabile e appassioata e dalla musica, di malattia mentale e di farcela sul serio a guarire.
Il martedì mi sarebbe piaciuto essere alla mattinata organizzata dai giornalisti, ma l’assistenza psichiatrica ho dovuto almeno per una mezza giornata farla, anziché parlarne e sentirne parlare. Il pomeriggio, poi, ancora il nostro gruppo ha inaugurato al Centro civico Giacomo Buranello la mostra fotografica “Sono io?!?!” frutto di un anno di lavoro sull’identità e l’immagine di sé. Un salto a Tursi, per ascoltare una folgorantre esegesi del nucleo del pensiero di Basaglia da parte di Antonello Correale. Per questo intervento soprattutto, e quello di Borgna il giorno dopo, raccomando davvero a chi li avesse persi la differita su pol. it. Mercoledì so della marcia per i vicoli: tanta gente, anche sotto la pioggia, e so che chi ha partecipato ha vissuto un bel momento. Io ero  invitato a Reggio Emilia per parlare, manco a dirlo, di 180; poi, per me, l'incontro con Borgna. Il giovedì abbiamo dato vita per le strade di Sestri Ponente e a villa Rossi allo spettacolo storico itinerante: di nuovo la sensazione di un gruppo che lavora insieme a un obiettivo e la sensazione di essere davvero nella città, in mezzo alla gente. Ho ascoltato per caso le parole di due signore che passavano mentre ci accingevamo a rappresentare, percorso un terzo circa della via, una delle scene, quella di padre Antero che a metà del Seicento racconta come convince un delirante d’avvelenamento a mangiare. «Ma che cos’è, un corteo?». «No, sono quelli della 180. Perché sono quarant’anni che…». Poi hanno proseguito la loro strada e il discorso. E poi i bambini della scuola elementare “Carducci” a festeggiare con noi e a scandire le parole di dignità di questa legge, e poi le parole di Gorizia ma poi tanta voglia di divertirsi per tutti a Villa Rossi. Lo stesso giorno o il giorno successivo la 180 è in festa nei territori: al mercato di Certosa, il centro diurno di Murta, quello di via Peschiera, nel bosco intorno a quello di Serino, sulla passeggiata Anita Garibaldi a Nervi. La sera, di nuovo in “Sala 21”, ed è la seconda volta, per lo spettacolo del Teatro dell’Ortica di Anna Solaro su testo del poeta Armando Misuri, da poco scomparso: “Quando le cose si dimenticano riaccadono”. E’ la storia della sua vita e della sua esperienza nel manicomio di Quarto che, in quello spazio liberato, fanno più impressione. Il tempo per un convegno di psichiatria venerdì, e poi sabato di nuovo in “Sala 21”, ed è la terza volta in una settimana: ad ascoltare da Gaddomaria Grassi l’esperienza del Centro di Storia della psichiatria di Reggio Emilia, e conoscere per la prima volta quel che resta di tanto tempo prigioniero nei nostri manicomi, circa 60.000 cartelle cliniche che sono storie di persone (ne espone alcune, commuoventi, Simonetta Ottani), libri e riviste dalle biblioteche dei manicomi (Fernanda Canepa proietta immagini di straordinaria bellezza per un bibliofilo), e poi il presepe di Prato Zanino, la pittura di Gino Grimaldi, le opere di Claudio Costa, Davide Mansueto Raggio e tanti altri piccoli e grandi artisti raccolte in trent’anni di attività, da poco celebrati, dall’“Istituto  per le Materie e le Forme Inconsapevoli”.
Avrebbe dovuto illustrare queste ultime Gianfranco Vendemiati, presidente e storico custode dell’Istituto, ma la mattinata ha inizio e lui non si vede. Poi, dapprima solo sussurrata, piomba su tutti come un macigno doloroso la notizia che non ci sarà, perché è stato colpito da un ictus. In tarda mattinata, proprio quando era previsto il suo intervento, quella che si è aggravato. E nel tardo pomeriggio, mentre ero incantato dalle immagini di van Gogh, Ligabue e gli altri maestri della pittura che hanno fatto esperienza della follia, mostrate dallo storico dell’arte Daniele Grosso Ferrando al munizioniere del Ducale, mi raggiunge la notizia della morte. La sera so che il concerto dell'Orchestra Giovanile Regionale del Conservatorio Paganini, già prevista in "Sala 21" è dedicata a lui.
Così giovedì 17, dopo che la domenica 180×40 era terminata con la medaglia della Città di Genova a Bruno Orsini relatore in Parlamento della legge 180 – non ho mai amato la Democrazia cristiana ma certo a leggere in questi giorni il contratto per il nuovo governo viene da rimpiangere tutta quella generazione di politici che, con limiti e contraddizioni, sentiva ancora la responsabilità che nasceva dall’eco della Resisenza – di nuovo in una “Sala 21” gremita per la commemorazione di Gianfranco Vendemiati. Non è passata neppure una settimana da quando lo aspettavamo lì, in quella stessa sala. E ora, più che alle parole dei vivi che si alternavano al microfono, mi sorprendo attento ad ascoltare il silenzio dei morti: Antonio Slavich, Claudio Costa, Gianfranco Vendemiati. La loro preoccupazione principale: essere in ogni momento fedeli a se stessi. E tenere davvero il malato, ciascun malato, al centro. Uomini non per tutte le stagioni. Credo che sia questo essere controcanto, l’insoddisfazione che negli ultimi anni solo Vendemiati, dei tre, era rimasto a testimoniare ciò che soprattutto ci mancherà. Non un pittoresco o folclorico mugugno di sottofondo, sia chiaro questo che ci accompagnava, ma una scelta di muoversi "in direzione ostinata e contraria”, una strutturale insoddisfazione piena di dignità perché quello che si fa non è mai abbastanza. Solo questo, credo infondo, può aiutarci a tenere la dialettica aperta e salvare dal rischio dell’appiattimento delle opinioni e dell’omologazione delle pratiche che incombe su questo tempo nel quale le ideologie sono morte e gli ideali paiono essere volati via e averci abbandonato. Dell’allineamento e dell’obbedienza. Ben vengano i patti tra persone e istituzioni, insomma, credo che la figura scomoda di Vendemiati, il suo essere d’intralcio alle semplificazioni, ci ricordi; ma attenzione a non venire mai, del tutto, a patti con la realtà. Ad alzare la voce, quando occorre. A non rassegnarci né rappacificarci con le cose come sono (come “devono” essere), o con il ritmo sempre troppo lento con cui cambiano in meglio (quando, cambiano in meglio!).
Ma non basta ancora: trascorre solo un giorno, ed eccomi di nuovo in “Sala 21”, per la quinta volta in neppure quindici giorni, ora la sera per assistere allo spettacolo “Addio mia arte. Gino Grimaldi, i colori dell’arte nell’ombra della follia” di Novella Limite con Gianni Antinoro, Sara Damonte, Roberto Panzani, Nicolò Parodi, Simone Russo, dedicato alla vita e all’opera del pittore Gino Grimaldi (1889-1941), ambientato nella prima metà degli anni ’30 e composto di parti video e parti in scena con le quali si entra nella vita del pittore, il suo rapporto con il manicomio, quello con le voci interiori, con i personaggi potenti e coloratissimi ai quali ha dato vita. E’ uno spettacolo che non esito a definire bellissimo e suggestivo, dove tra luci trabordanti e ombre spaventose, colori sgargianti, affollamento di corpi e conturbanti figure androgine come punti di domanda sul mistero del sesso, la sua opera prende vita sulla scena e ritorna in certi momenti palpitante come quando sgorgava dalle sue mani ed era fissata per noi. Ma dove, al contempo, viene messa in scena la triste quotidiana realtà del manicomio, i suoi regolamenti inutilmente vessatori, i ruoli stupidamente irrigiditi e il loro peso per i ricoverati, una psichiatria fatta soprattutto di disciplinamento fine a se stesso e di un rapporto asimmetrico tra corpo e istituzione. Ed è uno spettacolo nato a Cogoleto nel quale mi pare che quella comunità ritrovi – oltre il muro – finalmente un rapporto con questo gigante feroce che l’ha per quasi un secolo abitata e condizionata, i suoi enormi spazi oggi abbandonati e vuoti, il suo fascino e il suo dolore, e anche i tesori che – oggi che si è arreso alla legge 180 ed è stato costretto ad aprirsi – possono essere appropriati dalla cittadinanza ed entrano giustamente a far parte della storia, la memoria, l’identità e la vita culturale della cittadina rivierasca.
 
 
Nell’immagine: Gianfranco Vendemiati rappresentato tra altri personaggi, tra i quali don Gallo e Fabrizio De André, dal “Collettivo Artistico Quarto Pianeta” a Quarto.
          
Nel video allegato: Lo spettacolo “Addio mia arte”.

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