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Salvate il bambino Charlie

10 Lug 17

A cura di Sarantis Thanopulos

Intervenendo sulla faccenda del piccolo Charlie, Chiara Saraceno si è chiesta: «chi ha il diritto di decidere il bene di un bambino, i genitori, i giudici, i medici?».
Se il senso di responsabilità non fosse considerato un privilegio, una rendita di posizione o una patata bollente da scaricare nelle mani del primo incauto, la domanda non ci sarebbe apparsa come aporia irrisolvibile.
I genitori non dispongono della vita dei figli. Se mettono in pericolo la loro salute devono essere limitati nel loro agire e perfino esonerati dalle loro funzioni. Viceversa essi possono contestare e impedire con i mezzi leciti a loro disposizione, ogni decisione di medici, o di altri «esperti», che potrebbe danneggiare i loro figli.
Gli inevitabili conflitti sono di competenza dei giudici e dei legislatori. Le soluzioni non sono mai ottimali, è sufficiente che siano buone, funzionali o che si eviti, in mancanza del meglio, il peggio.
Sono abbastanza chiare le competenze di coloro che devono decidere il bene dei bambini e non ci sono problemi insuperabili con il dispositivo giuridico che regola gli eventuali conflitti. Nondimeno siamo alle prese con una crescente diffidenza sulla correttezza e efficacia delle decisioni, che nasconde la sfiducia sulla possibilità stessa di decidere.
Ne deriva un’anarchia decisionale, un pestarsi i piedi gli uni degli altri. I genitori si considerano i migliori giudici e esperti, gli esperti si designano da sé come autorità suprema di sapere, i giudici si sostituiscono volentieri ai genitori e agli esperti. La ricerca di un equilibrio tra poteri decisionali diversi fondato sul confronto e sulla mediazione, slitta in questo modo nella confusione.
La richiesta dei genitori di Charlie di prolungare il più possibile la vita del loro figlio, si è scontrata apparentemente con un fatto oggettivo: l’insostenibilità economica delle cure necessarie (tenendo conto delle tantissime altre situazioni in cui si potrebbe avanzare una domanda analoga). Tuttavia, la solidarietà collettiva con il tenace rifiuto dei due genitori di rinunciare all’«accanimento terapeutico», non è un atteggiamento irrazionale che nega i limiti che pone la vita reale o rifiuta di fare il lutto di una perdita inevitabile.
Riflette la percezione crescente di un’ingiustizia di fondo nell’impostazione globale della ricerca e della cura medica, dove, come Massimo Villone ha sottolineato, «le risorse umane, organizzative e finanziarie si concentrano su settori -e su malattie- che possono generare profitti».
La domanda di Saraceno sarebbe stata più precisa se avesse avuto come suo oggetto le condizioni di un decidere responsabile. Finché la logica della speculazione minerà la nostra possibilità di farsi carico dei problemi etici, l’unica istanza reale di decisione sarà il puro arbitrio. Il venir meno di una ragionevole contrattazione (che implica un’accettabile parità tra i contraenti), rende indecidibili tutte le questioni di comune interesse e quindi anche le questioni umanitarie.
Il non poter influire sulle decisioni che riguardano il futuro della nostra salute fisica e psichica e l’enorme disparità delle possibilità di cura tra ricchi e poveri, genera disperazione che sottende, determinandolo, il conflitto tra genitori, medici e giudici.
La «missione impossibile» che Trump (demolitore della riforma sanitaria di Obama) ha lanciato (seguito a ruota dal Vaticano) per «salvare» il bambino Charlie, pur fasulla sul piano reale, è efficace sul piano emotivo delle aspettative magiche. Non difende il bambino, ma l’idea della salvezza. I problemi restino irrisolti, la fede nella magia potrebbe guadagnarci.
 

 

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