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Viviamo sempre così, dissociati tra la nostra solita vita, che prosegue la sua strada con il lavoro che, con qualche difficoltà in più, non può essere interrotto, e questa cosa surreale che colpisce un po’ a caso, sempre più forte, sempre più vicino. Tra tante brutte notizie di questo periodo ce n’è una che ci ha raggiunto all’inizio di questa settimana, ed è la scomparsa di Fausto Petrella, un maestro della nostra psichiatria, al quale siamo debitori di libri bellissimi: “Fare e pensare in psichiatria”, “Turbamenti affettivi e alterazioni dell’esperienza” tra gli altri. Lo ricorderemo su questa rubrica; per ora, dedichiamo a lui, il cui esempio ci insegna a fare ma anche a pensare, questa seconda lettera sulla storia della psichiatria e della riabilitazione, originariamente scritta agli studenti del I anno del corso TeRP dell’Università di Genova.
La necessità di un nuovo modo di affrontare la follia comincia a essere avvertito in Europa alla fine del '700. In Inghilterra accade che un membro della comunità quacchera di York muoia nel manicomio pubblico della città, e la comunità cui appartiene imputi la sua morte alla cattiva qualità dell'assistenza. Questo induce uno dei membri più autorevoli, William Tuke, a dotare la comunità di una struttura privata, di piccole dimensioni, il Ritiro, dove i membri della comunità divenuti folli possano essere trattati con l'amore e il rispetto dovuti. Il trattamento si basa su una disciplina piuttosto rigida, di carattere religioso, basata soprattutto sul valore terapeutico attribuito al lavoro; l'ambiente è confortevole e la struttura di piccole dimensioni, il livello di qualità della vita e assistenza all’interno decisamente più alto rispetto alle strutture pubbliche di quel periodo. Soprattutto, il Ritiro è importante perché è la dimostrazione di una comunità, quella dei quaccheri di York appunto, che – anziché espellere il folle – se ne fa carico non interrompendo il sentimento di appartenenza nei confronti di questo confratello più sfortunato, che è colpito da una disgrazia che potrebbe colpire chiunque altro.
Intanto in Europa si affermava nel corso del XVIII secolo la corrente filosofica dell’Illuminismo, convinta che il lume della ragione potesse illuminare le aree buie della vita dove si rifugiava la sragione (la religione, la superstizione, l’ignoranza ecc.). Tra queste la follia, per sua natura antitetica alla ragione, rappresentava per l’Illuminismo la sfida forse più difficile e affascinante. L’Illuminismo si persuase perciò che la follia avrebbe potuto essere soggiogata ed eliminata dalla ragione, se questa fosse riuscita a imbrigliarla in un concetto per lei più maneggevole: quello di alienazione, o di malattia, mentale. La malattia mentale, perciò, è la follia guardata con la lente della ragione, e questo passaggio sarà molto importante ricordarlo quando nella prossima lezione studieremo Franco Basaglia. Gli strumenti attraverso i quali quest’operazione poteva avere successo erano soprattutto tre discipline, tra i cui cultori gli illuministi erano molto ben rappresentati: medicina, pedagogia e, chiamiamola così la terza, scienze politiche, cioè la politica affrontata come se si trattasse di una scienza. Discipline, quindi, che raccoglievano in quel momento le tre radici che, nella lezione precedente, abbiamo visto avere costituito, fino a quel momento, tre approcci differenti e autonomi l’uno dall’altro alla follia. La follia quindi fu ridefinita come “alienazione mentale” (dal latino alienus, altro, diverso) e la figura che se ne sarebbe dovuta occupare era l’alienista, che era un medico, però operava anche come funzionario dello Stato, e doveva essere capace di maneggiare anche gli strumenti della filosofia, e in particolare di una sua branca, la pedagogia (una pedagogia, in questo caso, per adulti).
Quello che possiamo considerare il primo psichiatra in senso moderno fu Philippe Pinel, un medico che operò in Francia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, e pubblicò nell’anno 1800 un libro fondante, un trattato – che definisce come vedete medico-filosofico – sull’”alienazione mentale”, dove sono chiariti, già nel frontespizio, i rapporti vincolanti dell’autore con il potere politico. E’ un funzionario dell’imperatore, non più di Bajazet, ma di Napoleone. La tradizione racconta – non si sa se però questa scena sia avvenuta davvero, almeno nel modo in cui è stata tramandata – che prima di quel volume che avrebbe ispirato per la prima parte del XIX secolo tutti gli psichiatri, Pinel abbia liberato nel 1793, durante la Rivoluzione, dalle catene i folli agitati che si trovavano presso l’ospizio di Bicètre, di cui era direttore. Gli era accanto in quel momento Jean Baptiste Poussin, che la storia definisce infermiere-capo, ma io proporrei di considerare più come un operatore misto, un po’ infermiere e un po’ TeRP. Se Pinel era il medico-filosofo, il detentore di un sapere teorico, Poussin era il detentore di un sapere pratico sulla follia e secondo molti storici il suo ruolo nella liberazione dei folli fu più importante di quello di Pinel. La psichiatria nasce dunque con una promessa di liberazione: per controllare ed estirpare la follia non erano più necessarie le catene – dalle quali abbiamo visto quanto era rimasto colpito Menavino – ma avrebbe dovuto essere sufficiente il soggiogamento psicologico della mente dell’alienato da parte della mente dell’alienista, che gli avrebbe fatto da guida verso la guarigione, cioè da mente protesica (come una stampella in ortopedia) finché la sua mente non funzionava bene. Per operare questo soggiogamento l’alienista poteva valersi della parola, della suggestione, dello stratagemma, proprio come aveva fatto padre Antero.
Confrontiamo ora due monumenti. Uno è quello che i parigini eressero a Philippe Pinel di fronte all’ospedale della Salpétrière, e non credo che nessuno di voi abbia difficoltà a capire subito quale dei due personaggi (la figura più grande in piedi e quella più piccola accoccolata ai suoi piedi) è l’alienista, cioè Pinel, e quale l’alienato: intanto c’è una sproporzione tra le dimensioni dell’uno e dell’altro, poi la diversa posizione, uno accovacciato ai piedi dell’altro. Questo potrebbe farci pensare al rapporto tra un adulto e un bambino (la psichiatria, e ancor più la riabilitazione psichiatrica, erano infatti considerate una pedagogia per adulti), ma potrebbe anche fare pensare, almeno a quelli di noi che conoscono Genova, a un altro monumento, quello a Cristoforo Colombo di fronte alla Stazione Principe, dove pure l’Ammiraglio e l’indigeno sono rappresentati con le stesse dimensioni e nella stessa posizione. Teniamo a mente questo paragone perché ci sarà utile quando nel nostro terzo incontro parleremo di Frantz Fanon e di Basaglia.
Jean-Dominique Etienne Esquirol era un allievo-collega di Pinel che tradusse nella pratica molti dei suoi insegnamenti. Fu lui, tra l’altro, uno dei primi alienisti a visitare nel 1821 il villaggio di Geel e a trarre di lì qualche suggerimento su come dovevano essere concepiti i manicomi. Lodò la straordinaria disponibilità degli abitanti, ma si lamentò del fatto che quando i malati si agitavano gli strumenti di contenzione fossero utilizzati al di fuori di un controllo medico. Da quell’incontro furono influenzati i manicomi, che furono dotati di una colonia agricola che aspirava a somigliare a Geel, ma anche Geel fu trasformato e posto sotto l’autorità medica dello psichiatra perdendo così parte della sua originalità. Esquirol pensava che per l’attuazione del “trattamento morale” fosse necessario costruire un luogo pensato apposta: una delle sue frasi più celebri fu che “il manicomio è uno strumento di guarigione: nelle mani di un medico abile, è l’agente terapeutico più potente contro le malattie mentali”. Per questo fece costruire nei sobborghi di Parigi, a Charenton, un prototipo di manicomio che corrispondesse esattamente alle sue idee, e servisse da modello per tutti gli altri. Il manicomio di Charenton era fuori città (ora è dentro, ma è la città che si è espansa), ma non troppo distante da Parigi, e disponeva di ampi campi per l’ergoterapia; metà dello spazio era riservato agli uomini, metà alle donne, e i diversi padiglioni ospitavano i diversi tipi di pazienti, con i meno gravi più vicino all’ingresso e i più gravi via via sempre più in profondità.
Mentre i trattamenti propriamente medici che questi primi alienisti avevano a disposizione non differivano molto da quelli di cui disponevano i medici della generazione di Pompeo Sacco, la vera novità era rappresentata dal “trattamento morale”, chiamato così perché allora ciò che oggi consideriamo il corpo si chiamava «il fisico», e ciò che consideriamo la psiche si chiamava «il morale». Quindi con «morale» allora si intendeva ciò che noi oggi chiamiamo «psicologico», o meglio ancora «psicosociale».
Il trattamento morale può essere rappresentato come un triangolo i cui pilastri erano costituiti da tre azioni: isolare; suddividere; attivare. Innanzitutto isolare: questa esigenza nasceva dalla constatazione da parte degli alienisti che spesso sembrava che fossero le famiglie, con i loro conflitti, e la società “moderna” (allora) che aveva reso la vita più complessa e competitiva con l’urbanizzazione e l’industrializzazione, a determinare o aggravare l’alienazione mentale. Si pensava che occorresse perciò, per guarire il soggetto, sottrarlo per qualche tempo all’influenza della famiglia e della società, collocarlo in una situazione ideale nella quale l’alienista avesse la possibilità di orientare tutto in direzione della guarigione del soggetto, per poi restituirlo guarito al suo ruolo nella famiglia e alla società. Possiamo quindi immaginare il manicomio come una lavatrice, nella quale il panno viene inserito sporco (malato) e dopo un certo trattamento ce lo restituisce pulito (guarito). Come vedremo, questa illusone durò una settantina d’anni, poi ci si rese conto che isolare il soggetto dal suo contesto e porlo in una realtà artificiale era dannoso, perché si abituava a quella situazione artificiale e poi non era più in grado di affrontare la normalità. Tuttavia la tentazione di portare via il soggetto anche per periodi lunghi da contesti stressanti è ancora oggi molto forte negli operatori, perché nella psichiatria se qualcosa è venuto in mente a qualcuno nel corso degli anni, vuol dire che un qualche fondamento ce l’ha, e perciò non è detto che non ritorni in mente anche a noi.
Spesso infatti anche oggi nella mente di operatori, familiari o magistrati il ricovero in strutture residenziali, soprattutto se isolate e lontane, ha ancora a che fare con questa illusione.
Il secondo pilastro del trattamento morale è suddividere, fare ordine nel marasma dell’alienazione mentale che occorreva distinguere innanzitutto dalla normalità, e poi doveva essere divisa tra categorie diverse anche al suo interno. La prima esigenza nasceva dal dover decidere chi aveva bisogno del manicomio e chi no. In realtà nasceva anche da esigenze legate al diritto penale e civile, figli anch’essi dell’Illuminismo, che avevano bisogno che gli alienisti dicessero loro chi era normale, e quindi doveva rispondere dei suoi atti, e chi era alienato, e perciò doveva essere sottoposto a una legislazione speciale, pensata apposta per lui. Pinel fu anche tra i primi a studiare la «follia ragionante» che era una forma clinica in cui convivevano ragione e alienazione di mente; quindi stabilire chi era alienato e chi no si presentò subito molto difficile. Ma occorreva anche suddividere all’interno dell’alienazione mentale le diverse forme in cui può presentarsi. Pinel, oltre che fondatore della psichiatria, è autore di una delle prime “nosografie” mediche (la classificazione, cioè delle malattie). Nacque così, con Pinel, Esquirol e la loro scuola, una classificazione delle alienazioni mentali sulla base dei sintomi clinici, alla quale ne seguirono molte altre tanto che anche adesso regna molta incertezza in proposito. Poi prese piede anche, per la necessità di distribuirli nel manicomio in gruppi omogenei sulla base dei bisogni, un secondo modo di classificare in base a quello che oggi chiamiamo un «assessment» che distingueva agitati, semi-agitati, tranquilli, “sudici” (che erano quelli che non potevano provvedere alla pulizia personale), alcoolisti ecc. E per ogni gruppo c’era il suo padiglione e la sua organizzazione dell’assistenza.
Attivare è la parte del trattamento morale che ha più a che fare con la riabilitazione, dunque con voi. Vedrete che nelle comunità e nei centri diurni si usano molte attività umane normali, dallo sport, all’arte manuale, la musica, la scrittura/lettura, l’artigianato, alle stesse attività di pulizia e di cucina che sono necessarie alla struttura per sopravvivere ecc.; bene, le stesse cose in sostanza i primi alienisti pensavano che potessero essere utili al trattamento morale. Ma, più di tutto, pensavano che fosse utile che il soggetto, una volta isolato dalla famiglia e dal suo contesto, fosse messo al lavoro. Meglio in campagna, perché si era convinti (più ancora di adesso) che l’aria aperta faccia bene, e meglio se possibile impegnandoli in un lavoro simile a quello che facevano prima della malattia e che, presumibilmente, ritornerà a fare una volta guarito. Qui di seguito vi riporto il giudizio di due dei maggiori psichiatri del XIX secolo, Pinel ed Emil Kraepelin, che alla fine del XIX secolo ha proposto una classificazione delle malattie mentali alla quale si ispirano ancora quelle di oggi, sul lavoro e sulle sue utilità. L’ergoterapia, cioè la terapia del lavoro, rappresentò per quasi tutti gli psichiatri l’anima della psichiatria. Si discusse molto: se il lavoro vada riservato ai soli tranquilli o possano farlo anche gli agitati; se sia opportuno dare agli alienati strumenti pericolosi (martelli, coltelli, falci, vanghe ecc.) per il lavoro, o no; se il loro lavoro debba essere o no retribuito; se questa retribuzione debba essere in parte accumulata per sostenere i progetti di dimissione. Un’osservazione che viene spontanea leggendo i testi dell’epoca è che quando nei manicomi si pratica di più l’ergoterapia, si pratica meno la contenzione fisica. Nelle due immagini, esempi di ergoterapia nel manicomio di Prato Zanino presso Genova. Scriveva Pinel:
«Un lavoro costante spezza la morbosa concatenazione delle idee, rinsalda le facoltà intellettive con l'esercizio, mantiene l'ordine in qualunque gruppo di alienati (…). Come ho potuto constatare personalmente sono molto pochi gli alienati che anche negli accessi di furore, devono essere allontanati da ogni occupazione pratica; che spettacolo penoso vedere in tutti gli stabilimenti [in tanti reparti, case e residenze, oggi? P.F.P.] del nostro Paese, gli alienati di tutti i tipi agitarsi senza scopo, in un movimento continuo e vano, oppure miseramente prostrati in uno stato di inerzia e di stupore!»
E Kraepelin:
«Soprattutto si deve cercare di scegliere per l'infermo una adatta occupazione, la quale, benché stimolante, non deve essere faticosa; ciò è la cosa più adatta per distrarre il pensiero dell'infermo dal suo stato intimo e per far risvegliare l'interesse per il mondo esterno, per l'abituale attività. […] Specialmente negli stati terminali della dementia praecox [primo nome che ebbe la schizofrenia], che riempiono i nostri manicomi, è molto facile, data la perdita della capacità volitiva, il pericolo di un ottundimento psichico. In tal caso le occupazioni manuali hanno un grande successo contro questo pericolo, risvegliando negli infermi, in apparenza completamente stupidi e incapaci, una sorprendente quantità di abilità».
Viviamo sempre così, dissociati tra la nostra solita vita, che prosegue la sua strada con il lavoro che, con qualche difficoltà in più, non può essere interrotto, e questa cosa surreale che colpisce un po’ a caso, sempre più forte, sempre più vicino. Tra tante brutte notizie di questo periodo ce n’è una che ci ha raggiunto all’inizio di questa settimana, ed è la scomparsa di Fausto Petrella, un maestro della nostra psichiatria, al quale siamo debitori di libri bellissimi: “Fare e pensare in psichiatria”, “Turbamenti affettivi e alterazioni dell’esperienza” tra gli altri. Lo ricorderemo su questa rubrica; per ora, dedichiamo a lui, il cui esempio ci insegna a fare ma anche a pensare, questa seconda lettera sulla storia della psichiatria e della riabilitazione, originariamente scritta agli studenti del I anno del corso TeRP dell’Università di Genova.
La necessità di un nuovo modo di affrontare la follia comincia a essere avvertito in Europa alla fine del '700. In Inghilterra accade che un membro della comunità quacchera di York muoia nel manicomio pubblico della città, e la comunità cui appartiene imputi la sua morte alla cattiva qualità dell'assistenza. Questo induce uno dei membri più autorevoli, William Tuke, a dotare la comunità di una struttura privata, di piccole dimensioni, il Ritiro, dove i membri della comunità divenuti folli possano essere trattati con l'amore e il rispetto dovuti. Il trattamento si basa su una disciplina piuttosto rigida, di carattere religioso, basata soprattutto sul valore terapeutico attribuito al lavoro; l'ambiente è confortevole e la struttura di piccole dimensioni, il livello di qualità della vita e assistenza all’interno decisamente più alto rispetto alle strutture pubbliche di quel periodo. Soprattutto, il Ritiro è importante perché è la dimostrazione di una comunità, quella dei quaccheri di York appunto, che – anziché espellere il folle – se ne fa carico non interrompendo il sentimento di appartenenza nei confronti di questo confratello più sfortunato, che è colpito da una disgrazia che potrebbe colpire chiunque altro.
Intanto in Europa si affermava nel corso del XVIII secolo la corrente filosofica dell’Illuminismo, convinta che il lume della ragione potesse illuminare le aree buie della vita dove si rifugiava la sragione (la religione, la superstizione, l’ignoranza ecc.). Tra queste la follia, per sua natura antitetica alla ragione, rappresentava per l’Illuminismo la sfida forse più difficile e affascinante. L’Illuminismo si persuase perciò che la follia avrebbe potuto essere soggiogata ed eliminata dalla ragione, se questa fosse riuscita a imbrigliarla in un concetto per lei più maneggevole: quello di alienazione, o di malattia, mentale. La malattia mentale, perciò, è la follia guardata con la lente della ragione, e questo passaggio sarà molto importante ricordarlo quando nella prossima lezione studieremo Franco Basaglia. Gli strumenti attraverso i quali quest’operazione poteva avere successo erano soprattutto tre discipline, tra i cui cultori gli illuministi erano molto ben rappresentati: medicina, pedagogia e, chiamiamola così la terza, scienze politiche, cioè la politica affrontata come se si trattasse di una scienza. Discipline, quindi, che raccoglievano in quel momento le tre radici che, nella lezione precedente, abbiamo visto avere costituito, fino a quel momento, tre approcci differenti e autonomi l’uno dall’altro alla follia. La follia quindi fu ridefinita come “alienazione mentale” (dal latino alienus, altro, diverso) e la figura che se ne sarebbe dovuta occupare era l’alienista, che era un medico, però operava anche come funzionario dello Stato, e doveva essere capace di maneggiare anche gli strumenti della filosofia, e in particolare di una sua branca, la pedagogia (una pedagogia, in questo caso, per adulti).
Quello che possiamo considerare il primo psichiatra in senso moderno fu Philippe Pinel, un medico che operò in Francia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, e pubblicò nell’anno 1800 un libro fondante, un trattato – che definisce come vedete medico-filosofico – sull’”alienazione mentale”, dove sono chiariti, già nel frontespizio, i rapporti vincolanti dell’autore con il potere politico. E’ un funzionario dell’imperatore, non più di Bajazet, ma di Napoleone. La tradizione racconta – non si sa se però questa scena sia avvenuta davvero, almeno nel modo in cui è stata tramandata – che prima di quel volume che avrebbe ispirato per la prima parte del XIX secolo tutti gli psichiatri, Pinel abbia liberato nel 1793, durante la Rivoluzione, dalle catene i folli agitati che si trovavano presso l’ospizio di Bicètre, di cui era direttore. Gli era accanto in quel momento Jean Baptiste Poussin, che la storia definisce infermiere-capo, ma io proporrei di considerare più come un operatore misto, un po’ infermiere e un po’ TeRP. Se Pinel era il medico-filosofo, il detentore di un sapere teorico, Poussin era il detentore di un sapere pratico sulla follia e secondo molti storici il suo ruolo nella liberazione dei folli fu più importante di quello di Pinel. La psichiatria nasce dunque con una promessa di liberazione: per controllare ed estirpare la follia non erano più necessarie le catene – dalle quali abbiamo visto quanto era rimasto colpito Menavino – ma avrebbe dovuto essere sufficiente il soggiogamento psicologico della mente dell’alienato da parte della mente dell’alienista, che gli avrebbe fatto da guida verso la guarigione, cioè da mente protesica (come una stampella in ortopedia) finché la sua mente non funzionava bene. Per operare questo soggiogamento l’alienista poteva valersi della parola, della suggestione, dello stratagemma, proprio come aveva fatto padre Antero.
Confrontiamo ora due monumenti. Uno è quello che i parigini eressero a Philippe Pinel di fronte all’ospedale della Salpétrière, e non credo che nessuno di voi abbia difficoltà a capire subito quale dei due personaggi (la figura più grande in piedi e quella più piccola accoccolata ai suoi piedi) è l’alienista, cioè Pinel, e quale l’alienato: intanto c’è una sproporzione tra le dimensioni dell’uno e dell’altro, poi la diversa posizione, uno accovacciato ai piedi dell’altro. Questo potrebbe farci pensare al rapporto tra un adulto e un bambino (la psichiatria, e ancor più la riabilitazione psichiatrica, erano infatti considerate una pedagogia per adulti), ma potrebbe anche fare pensare, almeno a quelli di noi che conoscono Genova, a un altro monumento, quello a Cristoforo Colombo di fronte alla Stazione Principe, dove pure l’Ammiraglio e l’indigeno sono rappresentati con le stesse dimensioni e nella stessa posizione. Teniamo a mente questo paragone perché ci sarà utile quando nel nostro terzo incontro parleremo di Frantz Fanon e di Basaglia.
Jean-Dominique Etienne Esquirol era un allievo-collega di Pinel che tradusse nella pratica molti dei suoi insegnamenti. Fu lui, tra l’altro, uno dei primi alienisti a visitare nel 1821 il villaggio di Geel e a trarre di lì qualche suggerimento su come dovevano essere concepiti i manicomi. Lodò la straordinaria disponibilità degli abitanti, ma si lamentò del fatto che quando i malati si agitavano gli strumenti di contenzione fossero utilizzati al di fuori di un controllo medico. Da quell’incontro furono influenzati i manicomi, che furono dotati di una colonia agricola che aspirava a somigliare a Geel, ma anche Geel fu trasformato e posto sotto l’autorità medica dello psichiatra perdendo così parte della sua originalità. Esquirol pensava che per l’attuazione del “trattamento morale” fosse necessario costruire un luogo pensato apposta: una delle sue frasi più celebri fu che “il manicomio è uno strumento di guarigione: nelle mani di un medico abile, è l’agente terapeutico più potente contro le malattie mentali”. Per questo fece costruire nei sobborghi di Parigi, a Charenton, un prototipo di manicomio che corrispondesse esattamente alle sue idee, e servisse da modello per tutti gli altri. Il manicomio di Charenton era fuori città (ora è dentro, ma è la città che si è espansa), ma non troppo distante da Parigi, e disponeva di ampi campi per l’ergoterapia; metà dello spazio era riservato agli uomini, metà alle donne, e i diversi padiglioni ospitavano i diversi tipi di pazienti, con i meno gravi più vicino all’ingresso e i più gravi via via sempre più in profondità.
Mentre i trattamenti propriamente medici che questi primi alienisti avevano a disposizione non differivano molto da quelli di cui disponevano i medici della generazione di Pompeo Sacco, la vera novità era rappresentata dal “trattamento morale”, chiamato così perché allora ciò che oggi consideriamo il corpo si chiamava «il fisico», e ciò che consideriamo la psiche si chiamava «il morale». Quindi con «morale» allora si intendeva ciò che noi oggi chiamiamo «psicologico», o meglio ancora «psicosociale».
Il trattamento morale può essere rappresentato come un triangolo i cui pilastri erano costituiti da tre azioni: isolare; suddividere; attivare. Innanzitutto isolare: questa esigenza nasceva dalla constatazione da parte degli alienisti che spesso sembrava che fossero le famiglie, con i loro conflitti, e la società “moderna” (allora) che aveva reso la vita più complessa e competitiva con l’urbanizzazione e l’industrializzazione, a determinare o aggravare l’alienazione mentale. Si pensava che occorresse perciò, per guarire il soggetto, sottrarlo per qualche tempo all’influenza della famiglia e della società, collocarlo in una situazione ideale nella quale l’alienista avesse la possibilità di orientare tutto in direzione della guarigione del soggetto, per poi restituirlo guarito al suo ruolo nella famiglia e alla società. Possiamo quindi immaginare il manicomio come una lavatrice, nella quale il panno viene inserito sporco (malato) e dopo un certo trattamento ce lo restituisce pulito (guarito). Come vedremo, questa illusone durò una settantina d’anni, poi ci si rese conto che isolare il soggetto dal suo contesto e porlo in una realtà artificiale era dannoso, perché si abituava a quella situazione artificiale e poi non era più in grado di affrontare la normalità. Tuttavia la tentazione di portare via il soggetto anche per periodi lunghi da contesti stressanti è ancora oggi molto forte negli operatori, perché nella psichiatria se qualcosa è venuto in mente a qualcuno nel corso degli anni, vuol dire che un qualche fondamento ce l’ha, e perciò non è detto che non ritorni in mente anche a noi.
Spesso infatti anche oggi nella mente di operatori, familiari o magistrati il ricovero in strutture residenziali, soprattutto se isolate e lontane, ha ancora a che fare con questa illusione.
Il secondo pilastro del trattamento morale è suddividere, fare ordine nel marasma dell’alienazione mentale che occorreva distinguere innanzitutto dalla normalità, e poi doveva essere divisa tra categorie diverse anche al suo interno. La prima esigenza nasceva dal dover decidere chi aveva bisogno del manicomio e chi no. In realtà nasceva anche da esigenze legate al diritto penale e civile, figli anch’essi dell’Illuminismo, che avevano bisogno che gli alienisti dicessero loro chi era normale, e quindi doveva rispondere dei suoi atti, e chi era alienato, e perciò doveva essere sottoposto a una legislazione speciale, pensata apposta per lui. Pinel fu anche tra i primi a studiare la «follia ragionante» che era una forma clinica in cui convivevano ragione e alienazione di mente; quindi stabilire chi era alienato e chi no si presentò subito molto difficile. Ma occorreva anche suddividere all’interno dell’alienazione mentale le diverse forme in cui può presentarsi. Pinel, oltre che fondatore della psichiatria, è autore di una delle prime “nosografie” mediche (la classificazione, cioè delle malattie). Nacque così, con Pinel, Esquirol e la loro scuola, una classificazione delle alienazioni mentali sulla base dei sintomi clinici, alla quale ne seguirono molte altre tanto che anche adesso regna molta incertezza in proposito. Poi prese piede anche, per la necessità di distribuirli nel manicomio in gruppi omogenei sulla base dei bisogni, un secondo modo di classificare in base a quello che oggi chiamiamo un «assessment» che distingueva agitati, semi-agitati, tranquilli, “sudici” (che erano quelli che non potevano provvedere alla pulizia personale), alcoolisti ecc. E per ogni gruppo c’era il suo padiglione e la sua organizzazione dell’assistenza.
Attivare è la parte del trattamento morale che ha più a che fare con la riabilitazione, dunque con voi. Vedrete che nelle comunità e nei centri diurni si usano molte attività umane normali, dallo sport, all’arte manuale, la musica, la scrittura/lettura, l’artigianato, alle stesse attività di pulizia e di cucina che sono necessarie alla struttura per sopravvivere ecc.; bene, le stesse cose in sostanza i primi alienisti pensavano che potessero essere utili al trattamento morale. Ma, più di tutto, pensavano che fosse utile che il soggetto, una volta isolato dalla famiglia e dal suo contesto, fosse messo al lavoro. Meglio in campagna, perché si era convinti (più ancora di adesso) che l’aria aperta faccia bene, e meglio se possibile impegnandoli in un lavoro simile a quello che facevano prima della malattia e che, presumibilmente, ritornerà a fare una volta guarito. Qui di seguito vi riporto il giudizio di due dei maggiori psichiatri del XIX secolo, Pinel ed Emil Kraepelin, che alla fine del XIX secolo ha proposto una classificazione delle malattie mentali alla quale si ispirano ancora quelle di oggi, sul lavoro e sulle sue utilità. L’ergoterapia, cioè la terapia del lavoro, rappresentò per quasi tutti gli psichiatri l’anima della psichiatria. Si discusse molto: se il lavoro vada riservato ai soli tranquilli o possano farlo anche gli agitati; se sia opportuno dare agli alienati strumenti pericolosi (martelli, coltelli, falci, vanghe ecc.) per il lavoro, o no; se il loro lavoro debba essere o no retribuito; se questa retribuzione debba essere in parte accumulata per sostenere i progetti di dimissione. Un’osservazione che viene spontanea leggendo i testi dell’epoca è che quando nei manicomi si pratica di più l’ergoterapia, si pratica meno la contenzione fisica. Nelle due immagini, esempi di ergoterapia nel manicomio di Prato Zanino presso Genova. Scriveva Pinel:
«Un lavoro costante spezza la morbosa concatenazione delle idee, rinsalda le facoltà intellettive con l'esercizio, mantiene l'ordine in qualunque gruppo di alienati (…). Come ho potuto constatare personalmente sono molto pochi gli alienati che anche negli accessi di furore, devono essere allontanati da ogni occupazione pratica; che spettacolo penoso vedere in tutti gli stabilimenti [in tanti reparti, case e residenze, oggi? P.F.P.] del nostro Paese, gli alienati di tutti i tipi agitarsi senza scopo, in un movimento continuo e vano, oppure miseramente prostrati in uno stato di inerzia e di stupore!»
E Kraepelin:
«Soprattutto si deve cercare di scegliere per l'infermo una adatta occupazione, la quale, benché stimolante, non deve essere faticosa; ciò è la cosa più adatta per distrarre il pensiero dell'infermo dal suo stato intimo e per far risvegliare l'interesse per il mondo esterno, per l'abituale attività. […] Specialmente negli stati terminali della dementia praecox [primo nome che ebbe la schizofrenia], che riempiono i nostri manicomi, è molto facile, data la perdita della capacità volitiva, il pericolo di un ottundimento psichico. In tal caso le occupazioni manuali hanno un grande successo contro questo pericolo, risvegliando negli infermi, in apparenza completamente stupidi e incapaci, una sorprendente quantità di abilità».
Nel video Pinel e la nascita della psichiatria nelle parole di Vinzia Fiorino, Valeria Paola Babini, Patrizia Guarnieri
Il teesto prosegue con la terza lettera: clicca qui per il link
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