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Sentirsi “intero” in un rapporto: lo “holding” in Shakespeare, Baudelaire, Winnicott

30 Dic 19

A cura di Sabino Nanni

        Noi tutti tendiamo a ritenere cosa ovvia che ogni individuo si senta tutt’uno (e non diviso in frammenti), si senta sé stesso e non un altro, si senta interamente contenuto nel proprio corpo. Perciò, tendiamo a considerare come appartenenti ad un’altra “razza” o “specie”, a noi completamente sconosciuta, i pazienti psichiatrici più gravi: quello che si sente “sparso” nell’ambiente esterno (il cosiddetto “transitivismo” o perdita dei confini dell’Io dello schizofrenico), quello che si sente alternativamente qualcuno oppure qualcun altro (il “disturbo dissociativo dell’identità”   ), quello che, trovandosi da solo in un ambiente aperto, si sente come dissolversi nell’aria (l’agorafobia con attacchi di panico), e tanti altri. È proprio così? Davvero noi della “razza normale” nasciamo dotati di un rapporto sano con noi stessi? Davvero questo rapporto sano non viene mai meno? Proviamo a confrontare il modo in cui sentono sé stessi i pazienti più gravi col comportamento di certi individui che giudichiamo “singolari”, ma non anormali.
        A volte incontriamo persone che appaiono, più che malate, sconclusionate e noiose: persone che, nelle lunghe e prolisse descrizioni di quel che han fatto, non sembrano arrivare mai al dunque. Winnicott sostiene che un caso del genere è quello del “paziente che descrive ogni dettaglio del suo weekend, e si sente soddisfatto quando riferisce tutto, benché l’analista ritenga che non è stato fatto alcun lavoro terapeutico. Talora si deve interpretare tale comportamento come significativo del bisogno del malato d’essere conosciuto, in ogni particolare della sua vita, da un’unica persona. Ciò vuol dire sentirsi integrato (“riunito” nelle sue varie parti) almeno nella persona dell’analista. Tutto questo è molto comune nell’infanzia: una persona che, da bambino, non ha avuto nessuno che “mettesse insieme” i suoi “pezzi”, inizia la sua evoluzione con un handicap nel compito dell’auto-integrazione, e probabilmente non può acquisire o mantenere tale integrazione con fiducia”. Ecco, l’infanzia: se riteniamo d’essere nati già sentendoci “interi”, è perché ci siamo dimenticati di quando eravamo bambini. Se non ci soccorre la memoria, è il Poeta a ricordarci come eravamo nell’infanzia; a farci presente che anche da adulti, come allora, a volte sentiamo il bisogno di un intimo rapporto con qualcuno che “metta insieme” i nostri “pezzi”. Lo fa Baudelaire con questi splendidi versi:

Et pourtant aimez-moi, tendre cœur ! soyez mère,
Même pour un ingrat, même pour un méchant ;
(E tuttavia amami, tenero cuore, siimi madre! / anche quando sono un ingrato, anche quando sono malvagio)

        Il Poeta, qui, assegna all’amata un compito squisitamente materno: quello di contenere, nella sua mente e nel suo animo, l’intera persona del figlio, anche nelle sue parti a lei sgradite. “Essere madre” anche di un ingrato, anche di un malvagio, non vuol dire approvare o apprezzare il figlio qualunque cosa faccia; significa amarlo al punto da ridimensionare le pretese del narcisismo materno, ossia rinunciare all’idea del figlio “perfetto”, che esiste soltanto nella fantasia, e comprendere ed accettare il figlio reale. Una madre fragile “chiuderebbe gli occhi” di fronte ai comportamenti biasimevoli del figlio, senza neppure concedergli la sua riprovazione; gli aspetti malvagi di questi resterebbero come “amputati”, privi della possibilità d’integrarsi col resto della personalità.
        Un rapporto come quello che sto descrivendo si ritrova poche volte nel corso della vita; ed anche quando lo si incontra, riesce ad essere pienamente efficace soltanto nei momenti di particolare intimità e sincerità. Per lo più, anche nei rapporti più stretti, riusciamo ad essere solo parzialmente sinceri. Il risultato è che ogni relazione (con il coniuge, col figlio, con ciascuno degli amici, con i colleghi, ecc.) pone in risalto e dà vita solo ad un aspetto particolare del nostro mondo interno. Quasi sempre, a “rimettere insieme” questi nostri “pezzi”, dobbiamo provvedere noi stessi, appoggiandoci ad un “oggetto interno” (una persona dentro la persona) particolarmente prezioso: la madre arcaica interiorizzata.
        Spesso, tuttavia (quasi sempre? sempre?) occorre ritrovare quest’apporto materno anche in una persona del presente. Se siamo in particolare difficoltà, questa persona non può che essere un terapeuta, nei momenti più fecondi della cura. L’alternativa, riservata ai più fortunati, è una persona di cui siamo profondamente innamorati (e da cui siamo contraccambiati), nel periodo in cui il sentimento è particolarmente intenso ed il rapporto è esclusivo. Shakespeare ce lo illustra nel sonetto XXXI:

Thou art the grave where buried love doth live,
Hung with the trophies of my lovers gone,
Who all their parts of me to thee did give,
That due of many, now is thine alone.
Their images I loved, I view in thee.
And thou (all they) hast all the all of me.

(Tu sei la tomba dove, sepolto, vive l’amore / attorno a cui sono appesi i trofei dei miei amori passati, / che tutti diedero a te la mia parte di me; / ciò ch’era patrimonio di molti è ora tuo soltanto. / Le loro immagini che amai io vedo in te, / e tu (tutti loro) hai tutto di me intero)
        Di solito, di un amore di questo genere, viene messo in evidenza l’aspetto “folle”; e tale è se l’Io (la parte razionale e realistica della nostra mente) viene completamente travolto dai sentimenti, e perde ogni forma di controllo. Tuttavia è facile che ci sfugga l’aspetto sano di un’esperienza sana di amore: si ha, qui, una sorta di “regressione al servizio dell’Io”, ossia il ritorno (temporaneo, ma di fondamentale importanza) ad un rapporto duale ed esclusivo; un rapporto che consente di riunificare, in un solo oggetto e in un solo soggetto, ciò che era frammentato in innumerevoli esperienze di vita, e che rischiava di non ritrovare più una sua unità e una sua coerenza.

 
 

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