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Settembre 2013 I – Riti e psicoanalisi, scuola e giovani, amori e legami

10 Set 13

A cura di Luca Ribolini

Com’è umano celebrare riti
di Giovanni Santambrogio, ilsole24ore.com, 1 settembre 2013
 
Carl Gustav Jung, padre della psicologia analitica, in uno scritto del 1939 confessa: «Non posso tornare alla chiesa cattolica, non posso sperimentare il miracolo della messa; so troppo al riguardo. So che è la verità, ma la verità in una forma che non posso più accettare». Cattolica era la famiglia del nonno Carl Gustav divenuto poi protestante in seguito alla predicazione e alla frequentazione del filosofo Friedrich Schleiermacher. Il pensiero religioso e la fede entrano in modo marcato nella formazione di Jung, costituendo un tratto distintivo della sua ricerca e motivo di divergenza con Freud. Nel 1934 scrive: «Sono grato ai miei avi teologi di avermi trasmesso una base cristiana». La sensibilità per gli archetipi religiosi anima una dotta e complessa produzione di saggi che accompagna gli ultimi trent’anni della vita del grande maestro, morto nel 1961 all’età di ottantasei anni.
I testi più significativi di questa stagione sono Psicologia e religione(1938), Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità(1942), Il simbolismo della messa (1942) e Risposta a Giobbe (1952), tutti raccolti insieme a studi sulle religioni orientali nel volume XI dell’Opera omnia edita da Bollati Boringhieri a cura di Luigi Aurigemma.
Il simbolismo della messa viene ora riproposto in volume singolo e la sua lettura acquista un particolare significato in tempi di desacralizzazione e di indifferenza per la dimensione spirituale e il senso religioso dell’uomo. La religiosità e le sue manifestazioni non sono confinabili in un catalogo delle illusioni – sostiene Jung –, al contrario si presentano come peculiarità della storia delle civiltà e di ogni singola persona; il sacro è un’espressione del profondo, influenza la struttura psichica, entra nell’esperienza concreta di ciascuno portando la persona a imbattersi e a scoprire la presenza del mistero nell’esistenza. Che nome dare a questa scoperta? Come definirla? Per Jung si entra nelle mappe della coscienza, nei territori della personalità, nella dialettica tra il Sé e l’Io.
In particolare, lo studio del rito della messa consente di avvicinarsi a «un mistero ancora vivo, le cui origini risalgono ai primordi della cristianità»: si incontra l’essenza e il cuore del cristianesimo. La celebrazione rinnova l’ultima cena di Gesù in compagnia degli apostoli quando viene istituito il sacramento dell’Eucaristia che rende presente e contemporanea, nel pane e nel vino consacrati, la persona di Cristo. Jung compie un’attenta lettura di ogni parte del rito (offertorio, consacrazione, comunione, preghiere dopo la comunione) servendosi dei testi sacri e delle interpretazioni teologiche. Il sacrifico di Cristo, il figlio di Dio, gli consente di rintracciare nella struttura dell’individuo le radici della libertà e la disponibilità al dono e all’offerta di sé. Uno specifico capitolo affronta poi «i paralleli al mistero della trasformazione» recuperando dagli studi etnologici il rito atzeco del «teoqualo» (del mangiare il dio) descritto dal frate Bernardino da Sahagun che fu missionario in Messico dal 1529; oltre al teoqualo, Jung propone, descrive e spiega la visione di Zosimo di Panopoli, filosofo e alchimista del terzo secolo, che, nel sonno, si imbatte in un sacerdote sacrificante, Ion, dal quale apprende misteriosi tormenti.
Jung mostra tutta la sua curiosità nella ricerca delle tracce antropologiche e nella lettura delle risposte date al divino e al mistero dell’esistenza. L’indagine diventa ricostruzione di riti, scoperta di simboli, esame di testi e frammenti scritti provenienti dalle tradizioni filosofiche, alchemiche, magiche. Ci si imbatte in un capitolo denso di conoscenze esoteriche e di rimandi a libri di storia delle religioni, a trattati gnostici e a racconti tratti dai classici. Tutti materiali che porteranno alla composizione del tanto citato Libro rosso pubblicato nel 2010 da Bollati Boringhieri.
Jung nel saggio Il simbolismo della messa non si pone intenti dottrinali, pur riconoscendo al cristianesimo una grandezza che altre fedi non posseggono. Afferma, invece, che la messa «si può chiamare rito del processo d’individuazione», un’esperienza che trasmette «l’unità della molteplicità, l’uomo unico in tutti» che, in psicologia, costituisce un tratto distintivo dell’inconscio.
Il cristianesimo arriva così a trasformare le antiche celebrazioni dei misteri riservate a pochi eletti in «manifestazioni pubbliche, rendendo quante più persone possibili partecipi del mistero». È la persona, la personalità, lo psichico che cambiano. Jung, dopo un lungo e intrigante percorso, conclude che «lo psicologo moderno si rende conto di non poter produrre che la descrizione, formulata in simboli scientifici, di un processo psichico la cui vera natura trascende la coscienza altrettanto quanto il segreto della vita o quello della materia. Egli non ha in alcun modo spiegato il mistero, né quindi lo ha fatto appassire. Lo ha soltanto avvicinato un po’ di più». Ovvero invita a non censurare il sacro, dice di non demonizzarlo perché sarebbe un errore fatale dagli imprevedibili sviluppi individuali e sociali.
Fede e senso religioso sono costitutivi della persona. Jung concludeva la nota accennata all’inizio con queste parole rivelatrici di un dramma in corso: «Non posso più dire: “Questo è il corpo di Cristo” e intenderlo così. Non posso. Per me non è più vero: non esprime la mia condizione psicologica. Ma extra ecclesiam, nulla salus. Allora le cose diventano veramente terribili, perché non si ha più alcuna protezione, non si è più nel consensus gentium, non si è più nel grembo della madre misericordiosa. Si è soli, a faccia a faccia con i demoni dell’inferno».
Carl Gustav Jung, Il simbolismo della messa, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 168, € 15,00
 
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-09-01/come-umano-celebrare-riti-084318.shtml?uuid=Ab5G2ESI&fromSearch


Tutto quello che avreste voluto sapere sulla psicanalisi. Parla lo psicanalista Stefano Bolognini, il primo italiano ad essere eletto presidente dell’Ipa (International Psychoanalytical Association)

di Filippo La Porta, europaquotidiano.it, 4 settembre 2013

Allo psicanalista Stefano Bolognini, primo italiano ad essere eletto presidente dell’Ipa (International Psychoanalytical Association), ho chiesto tutto quello che avrei voluto chiedere sulla psicanalisi e che finora non avevo mai chiesto.
La gente dice: «Faccio analisi…», ma in realtà ha solo iniziato una psicoterapia. Qual è la differenza fondamentale tra le due cose?
La differenza è la stessa che c’è se due persone vivono insieme o se si vedono una volta alla settimana. In analisi, a parte il setting (lettino invece che sedia), la frequenza contribuisce alla profondità dell’esplorazione e al legame emotivo tra analista e paziente. È una “convivenza psichica”.
La psicanalisi è un fatto culturale, un insieme di teorie psicologiche su alcuni aspetti del funzionamento mentale dell’uomo, ma è in primo luogo una terapia. Ha senso cominciare una analisi  solo come avventura intellettuale ed esperienza conoscitiva?
Quando trent’anni fa parecchi intellettuali intraprendevano un’analisi per arricchire il mondo interno, più che per curarsi cambiando, molto spesso scoprivano che l’intellettualizzazione poteva essere almeno in parte una difesa. Ora quel tipo di richiesta non c’è più: l’analisi richiede un sacrificio economico che un tempo era più sostenibile, e poi la gente “se la racconta” molto meno, va al nocciolo della questione: cioè al disagio e al bisogno.
La psicanalisi serve per capire alcuni problemi dell’individuo ma perché è usata spesso, e impropriamente, per capire la società?
L’applicazione della psicoanalisi alla vita dei gruppi e delle società inizia nel 1921, quando Freud scrive Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Il modello della vita psichica individuale non può essere applicato pari pari alla psicologia della società nel suo insieme; ciononostante non vanno nemmeno negate certe analogie tra certi assetti psichici e fantasmatici dei grandi gruppi e quelli di un singolo. La qualità di questi rilevamenti dipende da chi la fa..
Nella psicanalisi c’è un primato dello psichico sul morale. Lo psicanalista tende a non giudicare. In Italia, diceva Flaiano,  abbiamo un solo nemico, «l’arbitro delle partite di calcio, perché emette un giudizio». Tutto questo può deresponsabilizzarci?
Nell’ambito della perversione, la confusione tra bene e male è strategicamente manipolata in modo   da disorientare il soggetto e da fargli perdere il contatto interno con queste distinzioni di base.La tecnica della psicoanalisi richiede l’esercizio della sospensione, in attesa delle associazioni del paziente; e per potersi aprire all’esplorazione della propria vita interna il paziente deve potersi sentire ascoltato con una buona neutralità da parte dell’altro. Ma quando la confusione ha un’origine perversa, l’analista deve chiarire la dinamica di tutto ciò. La psicoanalisi implica l’assunzione di una responsabilità cosciente da parte del paziente: ad esempio, il paziente non è “colpevole” dei suoi desideri repressi o coscienti, se non li attua; ma ne è “responsabile”, e quando matura ne riconosce la presenza e il senso. Può desiderare di uccidere un nemico (non possiamo “decidere” sentimenti e fantasie); ma dovrà responsabilmente non fare ciò.
La psicanalisi dà a ciascuno un’ebbrezza di protagonismo. L’analista fa della nostra esistenza una narrazione avvincente. Non si rischia di gratificare il narcisismo delle persone?
Sì. Però in molti casi questo è esattamente ciò di cui alcune parti poco evolute del paziente hanno bisogno. Non si tratta, il più delle volte, di coccolare un narcisista, bensì di rifornire di valorizzazione e di senso di sé persone (o parti interne di esse) che non hanno trovato un contenitore ricettivo nella loro fase evolutiva. Accanto a questi ci sono poi i narcisisti veri: quelli allora troveranno la risposta tecnica esattamente opposta, finalizzata a renderli coscienti del loro modo di essere e a trasformarlo.
Non ho mai iniziato un’analisi perché mi insospettisce la relazione non paritaria con l’analista, il quale tende “naturalmente” ad abusare del potere che si ritrova.
La relazione non è paritaria e non può e non deve esserlo, perché l’analista ha una responsabilità funzionale fondamentale nel lavoro con l’altro. Però sul piano umano c’è parità assoluta tra i due: sono due persone, e come tali devono trattarsi.
Ciò che avviene, in modo pianificato, nel corso della relazione psicanalitica, è avvenuto per secoli normalmente, è stato «prodotto, con felice spontaneità, dalla devozione e dall’affetto» (Adorno), senza bisogno dell’“artificio” delle sedute, e della loro liturgia. Davvero prima di Freud l’umanità stava tanto peggio?
La psicoanalisi, quando è svolta bene, fornisce all’individuo in modo più mirato e consapevole ciò che gli serve per crescere. Ci sono molte persone che sanno relazionarsi con gli altri con profondità e con empatia, che sono doti naturali preziose. Però l’empatia psicoanalitica è tecnicamente un’altra cosa: ha una complessità tecnica diversa, ad esempio implica la sintonizzazione con diverse parti del paziente che sono in contrasto tra loro, come l’affetto e l’odio sperimentati al tempo stesso verso una stessa persona…
Ci sono altri modi oltre alla psicanalisi di elaborare il disagio, come ad esempio la danza (così mi disse una volta lo psicanalista Elvio Fachinelli)?
Sì, ci sono altri modi, diversi da caso a caso, che possono aiutare molto una persona; ma svolgono un’azione diversa e più settoriale, quando non più superficiale. Queste attività possono essere utili, ma raramente sono davvero trasformative in senso strutturale e duraturo.
Per alcuni terapeuti oggi l’inconscio si è quasi dissolto: la gente non reprime né rimuove più niente (il potere non ci vieta nulla, ci chiede anzi di godere, perché ciò è funzionale ai consumi). Ma allora il nostro problema non è tanto “liberarci” quanto rafforzare un io sempre più fragile.
Sì, è così. Non nel senso che l’inconscio non esista più in assoluto, ma nel senso che è meno represso, mentre l’Io centrale è più debole, frammentato e confuso. Una volta la gente aveva bisogno di liberarsi di un Super Io opprimente; oggi ha più bisogno di reintegrarsi, di trovare “oggetti” (nel senso di persone e relazioni) affidabili e di riuscire a costruire relazioni dotate di senso e di consistenza. L’uomo contemporaneo è spesso presuntuoso, confuso e francamente più bisognoso di quanto pensi.

http://www.europaquotidiano.it/2013/09/04/tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere-sulla-psicanalisi/

 

Meno Freud, più Dna: così si entra nella mente
 
di Marco Privato, lastampa.it, 4 settembre 2013

Come si dice da 2 mila anni, «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1,1-18). Curioso trovare una suggestione biblica tra gli studi delle neuroscienze. Eppure è così: il cervello assorbe parole, esperienze ed eventi che lasciano tracce organiche nel Dna e, dunque, proprio nel profondo della «carne». Al punto da modificare le direttrici biochimiche e fisiologiche che orchestrano l’organismo. Così, Gianvito Martino, direttore della divisione di Neuroscienze del San Raffaele Milano, ospite, lo scorso weekend, del Festival della Mente di Sarzana, ha anticipato i dettagli del suo nuovo saggio, «Il cervello gioca in difesa. Storie di cellule che pensano» (Mondadori), in libreria da fine settembre.
«Se un tempo il dialogo tra ambiente e cervello era dominio della psicoanalisi, oggi la neurologia riconosce le basi molecolari di questo rapporto, innanzitutto confermandone l’esistenza e poi spiegandone le ragioni». Possiamo quindi affermare che siamo quello che pensiamo e viviamo. Non è uno slogan, ma il risultato delle reazioni che avvengono nel «tempio dell’intelletto», sotto la pressione dell’ambiente: ogni memoria lascia un messaggio, una «cicatrice» a livello organico.
Ben inteso, i vissuti non sconvolgono l’integrità del Dna, ma il suo modo di «lavorare». Precisa, infatti, Martino che «l’esperienza modifica non tanto la struttura del Genoma, quanto la sua funzionalità». È una scoperta preziosa, dato che testimonia come più importante di cosa ci sia scritto in questo «libretto d’istruzioni» sia piuttosto come viene letto: il Dna è una raccolta di «ricette» per cucinare proteine, gli esecutori biologici che regolano i processi di quel laboratorio che è il corpo umano. Come il mago conosce certi «abracadabra» così l’ambiente recita continuamente il Genoma, come leggendo da un enorme «formulario» e cambiandoci giorno dopo giorno.
Ad attivare o disattivare le «formule» del Dna sono fattori che si trovano vicini ai geni e ne controllano l’attività. Così «l’esperienza – rosegue Martino – è in grado di “accendere” e “spegnere” geni che a loro volta danno istruzioni all’organismo». E il professore torna alla metafora del libro polisemico, dove i geni sono parole o frasi: «Silenziare un gene è come usare un correttore per cancellare intere digressioni, mentre attivare un gene è come usare un evidenziatore per risaltarne altre: dal senso ultimo che risulta nella lettura di questo Genoma, “visto e corretto” dai vissuti, l’organismo apprende come cambiare e comportarsi».
La plasticità del cervello rispetto agli eventi, così, ricorda la plasticità del sistema immunitario. Quando un trauma fisico, chimico o biologico – come nel caso dell’invasione di patogeni – mette in pericolo l’organismo, specifiche cellule «ordinano» al Dna di produrre le difese. In modo simile il cervello «è in grado di processare le esperienze negative, contemplabili proprio come risposte infiammatorie anomale, e quindi respingerle».
Questa «vita sommersa» e questa vitalità del cervello sono l’ulteriore sorpresa di un organo che si rivela sempre più complesso e dinamico.
Martino ricorda, sempre nel parallelo con i sistemi di difesa dalle malattie, che «il cervello, per tanto tempo, è stato considerato impenetrabile dal sistema immunitario, sia per via della struttura, avvolta da importanti barriere protettive, sia perché la risposta immunitaria porta con sé l’infiammazione, potenzialmente molto dannosa. Ma poi si è pensato che, dopotutto, data l’importanza dell’organo che contiene l’Io biologico, l’immunità potesse e dovesse operare anche in questo “santuario”». La prova che effettivamente è così è stata poi trovata nell’evidenza che alcune malattie neurodegenerative sono scatenate proprio dall’infiammazione di neuroni che, in seguito, muoiono, come nel caso del Parkinson.
http://www.lastampa.it/2013/09/04/scienza/tuttoscienze/meno-freud-pi-dna-cos-si-entra-nella-mente-MDo34lCHarm7dmb9sccBNO/pagina.html


Tra banco e cattedra rispettare la distanza

di Ferdinando Camon, la Stampa, 4 settembre 2013
 
Le famiglie pensano che nelle classi c’è di tutto, tranne amori e innamoramenti: e invece è tutta una rete intricata di relazioni felici o infelici, gelosie, sospiri, sogni. Sedendosi in cattedra, il professore guarda la classe e pensa: questa è innamorata dl quello, che però ama quell’altra, che di lui non vuol saperne. Per noi insegnanti, la cosa più importante dell’anno è lo svolgimento del programma. Per gli studenti, la cosa più importante è questa rete segreta di relazioni, come nascono, come c’intrecciano, come cambiano.
È questa rete che li segna per la vita. Non si pensa mai a possibili relazioni tra studentesse e professori, perché, se ci sono, devono restare virtuali. Ora si scopre che a Saluzzo un professore di scuola media superiore aveva relazioni sessuali con un paio di studentesse. E si sta cercando di ricostruire il passaggio dal rapporto didattico, tra professore che consegna il mondo e studentesse che lo ricevono, a un rapporto erotico, lui che le ama e loro che lo amano. Pare una distanza infinita. Ma non lo è. Per la studentessa, provare sentimenti di attrazione e attaccamento verso il professore è un fenomeno di crescita. La studentessa che studia Dante o Petrarca o Leopardi li studia di più se ama chi glieli insegna. Fin qui, credo che il lettore mi segua. Dove temo che mi abbandoni è un passo dopo: quando dico che il rapporto insegnante-allievo non è molto dissimile dal rapporto psicanalista-paziente.
Certo, l’allievo non è un paziente, ma neanche chi va in analisi lo è. E semplicemente uno che vuole capirsi e, se possibile, cambiarsi, migliorarsi. Si crede sempre che questo risultato si ottenga con l’intelligenza, col ragionamento, in un lavoro d’interpretazione in gara con l’analista. Anche Freud, per molti anni, lo credeva. A un certo punto si accorse che nelle analisi che lui conduceva saltava fuori sempre una sorpresa: la donna in analisi s’innamorava di lui, cioè sviluppava per lui quel sentimento di attrazione, sudditanza, sommissione, amore che si chiama «transfert». Una passione fortissima, che assorbe e annulla ogni altro sentimento. Per anni Freud considerò il transfert un ostacolo, una «resistenza». Credeva che bisognasse distruggere la resistenza. Sbagliava. La donna che s’innamora dell’analista non va rimproverata o scacciata, e naturalmente non va sposata, ma studiata e capìta. L’innamoramento della paziente per l’analista è un formidabile strumento di comprensione. Colui che va in analisi ricrea nel transfert i sentimenti di dipendenza e di sudditanza (verso la madre, il padre, il capo, il padrone… ) che hanno segnato la sua vita, e analizzando il transfert in realtà si analizza la sua vita. Se l’analista cede all’innamoramento della paziente e la sposa, l’analisi muore. E così la studentessa che s’innamora del professore: mostra un bisogno e una volontà di crescita, di maturazione, di valorizzazione, è il suo modo di diventare donna, e il professore dovrebbe guidare questa crescita, non approfittarne.
C’è una distanza tra la poltrona dell’analista e il lettino della paziente. Su quella distanza poggia l’analisi. C’è una distanza tra banco e cattedra. Su quella distanza poggia l’insegnamento. Se distruggi quella distanza, distruggi l’insegnamento. Le studentesse «devono» innamorarsi del professore, il professore di cuí le studentesse non s’innamorano è un cattivo professore, ma il professore non deve innamorarsi delle studentesse, se s’innamora delle studentesse è un cattivo professore.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/04Sep2013/04Sep20138d66641ee9ac2563c4ba2753630a46c2.pdf

Non c’è niente di male a sognare l’amore. L’idealizzazione è una condizione necessaria per innamorarsi, ma senza, per questo, sacrificare il proprio io

di un Lettore e Umberto Galimberti, D – Repubblica, 7 settembre 2013

Vorrei parlare di un amore nato nell’adolescenza sui banchi di scuola, quelli neri e solidi di un tempo, che con la loro greve stabilità sembravano garantirci un sicuro ancoraggio al luogo, al gruppo e a tutti i nostri illusori sentimenti e fin’anche alle loro più audaci aspettative. Era facile, con tutta la vita davanti, nutrirsi di eternità, non importa se effimere e rinnovabili, la nostra fede era anch’essa rinnovabile ed eterno appariva anche l’amore. Quel primo amore, romantico e, in una più realistica definizione, “mai consumato”, nutrito dalla più insana idealizzazione e lacerato all’improvviso da un inaspettato abbandono, ha resistito tenacemente, per chissà quali meccanismi inconsci, all’elaborazione del lutto, elaborando esso stesso una dimensione sacra, trascendente, mistica, e come tutti i “paradisi perduti” ha finito per esercitare un “eterno” nefasto richiamo. I miei tentativi di riscatto l’hanno radicato sempre più in fondo, in quelle profondità dove non ci è dato avventurarci con la mente, ma dalle quali una memoria involontaria sa riportare alla luce il bene perduto, ineffabile e sublime, per alienarci l’esistenza reale anche faticosamente realizzata. Così è stato. La vita ha fatto il suo corso regolare, studi, matrimonio, figli, una professione generosamente esercitata e generosa di consensi, ma anche una vita consapevole della sua sistematica spoliazione dei valori emotivi più veri e profondi, rivolti altrove. Riguardandola ora, la definirei ”sopravvivenza”, caratterizzata da un indistinto potenziale inespresso. Adesso, giunta a quella età nella quale si è colti dall’ansia di “lasciare tutto in ordine”, io avverto un’ansia ben più profonda e radicale, diciamo “retrospettiva”, di conciliare la mia vita con i suoi vissuti esistenziali, trovarne un ordine anche “postumo”, riconoscerne un senso o limitarne almeno il non-senso, per ritrovare il valore e il piacere di morire sana, dopo una vita da “malata”. Lettera firmata
La sua lettera mi commuove e penso non richieda un’analisi psicologica che distruggerebbe la raffinatezza del suo sentimento e la grazia della sua malinconia. Una malinconia che si fa complice del suo sguardo sulla fine della sua vita che, alla luce di quell’amore non vissuto, le dà l’immagine di essersi arresa a una semplice sopravvivenza. E questo nonostante il conforto di una cultura acquisita nelle sue modulazioni e nelle sue sfumature ricercate tra le più idonee a descrivere e a custodire, nella sua narrazione, quell’amore non vissuto, ma profondamente radicato nella sua anima. Lei parla di quell’amore come di un’«insana idealizzazione». E io le chiedo: perché “insana”? Senza idealizzazione l’amore non nasce, perché, per innamorarsi, occorre che l’altro ci appaia speciale, straordinario, unico.
Amore, infatti, non è passiva soddisfazione, ma attiva creazione. E l’idealizzazione è un atto creativo che vuol vedere specchiato nell’altro il riflesso della propria anima che non accetta di vivere per sempre nel chiuso della sua interiorità. E perciò crea l’immagine dell’altro a cui si affida, portandosi fuori di sé, “alienandosi”, come lei dice, sospinta dalla fascinazione per l’altro che lei stessa ha creato. Ma Hegel ci insegna che dall’alienazione bisogna poi tornare in sé, per non essere estraniati, per non rimanere prigionieri dell’immagine che, con la nostra idealizzazione, abbiamo creato dell’altro che, quando ci lascia, ci porta via l’anima che non ci siamo ripresa. «Nell’idealizzazione – scrive Freud – l’io diventa sempre meno esigente, più umile, mentre l’oggetto sempre più magnifico, più prezioso, fino a impossessarsi da ultimo dell’intero amore che l’io ha per sé, di modo che, quale conseguenza naturale, si ha l’autosacrificio dell’io. L’oggetto ha per così dire divorato l’io».
Idealizzare non è “insano”, perché senza idealizzazione non prenderebbe mai avvio l’amore. Insano è lasciare l’amore che uno ha per sé interamente nell’immagine che ha creato dell’altro, restando così senza amore per sé. Di qui il non-senso che viene ad assumere la nostra esistenza. Perché non c’è esistenza che possa reggersi senza quell’amore per sé che abbiamo alienato nell’altro, senza più riprendercelo. Anche se, dalla narrazione che lei fa della sua vita e dal desiderio che lei esprime di «riconciliarsi con i suoi vissuti esistenziali», a me pare che già si sia incamminata verso la sua anima che da lontano la sta chiamando.
http://periodici.repubblica.it/d (n. 856)
 
 
La fine del peccato. Dobbiamo costruire una religione laica. La psicanalista spiega perché il nostro senso morale ha perso ogni riferimento all’autorità

di Franco Marcoaldi, la Repubblica, 7 settembre 2013

Mentre varco il portone della casa parigina di Julia Kristeva, il pensiero subito va alla femminista ultrabattagliera, alla giovane redattrice della rivista d’avanguardia Tel Quel, alla inquieta psicanalista e studiosa di semiotica amica di Foucault, Barthes, Derrida… E poi mi trovo di fronte una bella signora settantenne che, senza rinnegare affatto quei trascorsi, sta percorrendo itinerari che si sono arricchiti di nuove sfumature.
«La nostra eredità culturale è doppia. Da un lato il cristianesimo, dall’altro l’illuminismo, rottura irreversibile della civilizzazione europea. Tanto più qui in Francia: patria della rivoluzione francese e dei diritti dell’uomo. Nel momento in cui la nozione di peccato perde senso per la parte secolarizzata della popolazione, resta la grande preoccupazione sul significato dell’etica laica. Ebbene lo dimostra il dilemma dell’attuale governo francese, che si chiede se sia giusto insegnare una morale laica o propendere piuttosto per un insegnamento laico della morale. Perché un sistema di regole preconfezionato che vada bene per tutti ormai è impensabile. Si tratta allora di riconoscere la specificità della vita interiore di ciascuno e conseguentemente trovare la versione singolare, personale, di tali regole».
Dunque, a suo modo di vedere, l’idea di limite può essere salvaguardata solo grazie a un incrocio tra la tradizione religiosa e la modernità laica.
«Assolutamente. Il nuovo umanesimo passa attraverso una rivalutazione permanente di tutti i codici morali dell’umanità, ivi compreso quello della religione che ci precede. Quell’eredità non può essere lasciata in mano al Fronte nazionale o alle varie forme di integralismo. È necessario che nelle scuole si insegni storia della religione, per incamminarsi non verso un sistema di regole assolute, ma verso un’interrogazione ininterrotta della tradizione. Interrogazione che deve valere anche per i lasciti della rivoluzione dei Lumi. Quella stagione ha prodotto una nuova libertà, fino ad allora impensabile: sia del pensiero che del corpo, contro i differenti dogmatismi religiosi e di classe. Ma abbiamo potuto saggiare anche i rischi iscritti in tale libertà. Penso agli esiti di una liberazione borghese sfociata prima nel terrore e poi nel colonialismo; di un terzomondismo che spesso ha aperto le porte al fondamentalismo religioso. E penso anche a un femminismo su grande scala, quanto mai generoso, ma incapace di affrontare tante esigenze singolari, a cominciare dall’esperienza della maternità. Nietzsche dice che bisogna mettere un grande punto interrogativo su tutte le questioni più serie che abbiamo di fronte. Per venire a noi: cos’è il peccato? Cosa la trasgressione? Cosa la negazione della norma? Cosa la rivolta? Così come bisogna tornare a interrogarsi sull’idea di autorità.».
Proprio questo è il punto. Chi oggi ha l’autorità per stabilire il limite oltre il quale non si può andare?
«Io non sono così sicura che il concetto di limite vada scomparendo. Le faccio un esempio concreto che riguarda proprio la figura dell’autorità. Viviamo in una sorta di entusiasmo romantico legato all’enorme sviluppo della scienza medica, in base al quale, ad esempio, la vecchia figura del padre sembra non essere più indispensabile. Bene. Ciò non toglie che un bambino, per crescere, ha comunque bisogno di separarsi passionalmente e sensorialmente dalla madre. E perché questo accada deve intervenire un’autorità che gli ponga dei limiti. Tale ruolo potrà essere giocato, che so io, dal padre genetico, dal nonno materno, da un istitutore… o da uno psicanalista, se quel bambino non apprende l’idea del limite. Per certo però quel passaggio non potrà essere eluso. Perché proprio noi, eredi dell’illuminismo e delle scienze umane, sappiamo bene che una persona, per diventare adulta, ha bisogno di essere “strutturata”, dunque di appoggiarsi a una norma. Non per ottemperare ai voleri di una chiesa o di qualunque forma di confessionalismo, ma per una necessità psichica. L’autorità a cui penso sarà fondata su un sapere plurale e su diverse forme di esperienza, quindi capace di adattarsi a ciascun individuo».
Forse per noi laici europei tutto si complica a causa del fondamento religioso della morale. Diverso è il caso di quelle società orientali che hanno autonomi fondamenti laici: penso al confucianesimo.
«Non sono così sicura che il mix dell’eredità greco-giudaico-cristiana combinata all’illuminismo ci renda più impotenti rispetto ad altre situazioni. Al contrario, penso che in questo crogiolo siano iscritte potenzialità di cui non andiamo abbastanza fieri. Se l’Europa è così in crisi e al fondo depressa è perché non ha utilizzato la carta migliore a disposizione: la cultura. Già Duns Scoto, nel XIII secolo, parlava della verità come di qualcosa che non appartiene né a categorie astratte né all’opacità della biologia, ma all’haecceitas, al “questo”. In ciascuno c’è un briciolo di eccezione: e qui va cercata la verità. Eccolo il vero messaggio europeo, estraneo sia alla cultura cinese che a quella araba. Vede, sin dal ’68, dagli anni del maoismo, sono in costante contatto con la cultura cinese. Una cultura che grazie alla mescolanza di taoismo e confucianesimo ha prodotto una straordinaria adattabilità al cosmo, alla natura, al flusso della vita; una società in cui i migliori lasciti confuciani garantiscono il rispetto della tradizione. Di fronte però all’esplosione della richiesta di diritti individuali, sono loro a trovarsi in difficoltà. E a individuare nella cultura europea il modello da seguire».
Se si incrina l’idea di limite, finisce anche l’idea di trasgressione. A questo punto non perde di senso anche il classico mito del Don Giovanni?
«Tutti sanno che un certo femminismo, soprattutto americano, si è mobilitato contro l’uomo seduttore, a cui tutto è permesso, e che si richiama per l’appunto al mito del Don Giovanni. Per molti versi è stata ed è una battaglia assolutamente giusta, come dimostrano ancora troppi casi in cui uomini di potere impongono il loro desiderio alle donne con brutale aggressività. Ma due sono state le conseguenze: da un lato, una crisi sempre più evidente della virilità, con l’uomo occidentale che oscilla tra impotenza e violenza; dall’altro la negazione della seduzione, elemento imprescindibiledell’erotismo».
In questo scenario, quali sono le nuove “malattie dell’anima”, per usare una sua espressione di qualche anno fa?
«Quelle legate all’indebolimento della famiglia, della scuola, in genere dei luoghi di integrazione. Senza contare il ruolo crescente dell’immagine, che rimpiazza il linguaggio e rende l’uomo parlante sempre meno parlante. Mentre il sistema di comunicazione copre ormai l’intero campo visivo sotto un’immensa tela di superficie, a scapito della profondità, del foro interiore. È in questo vuoto crescente, in quella condizione di disadattamento definita in termini psicanalitici “de-liaison”, che si inserisce con successo ogni forma di integralismo, attraverso una sorta di capitalizzazione delle pulsioni di morte inviate ai ragazzi “malati di idealità”. I quali non riconoscono più non solo la differenza tra bene e male, ma anche quella tra dentro e fuori, il sé e l’altro. A quel punto, anche il limite della morte perde di senso».
Da una parte il tradizionalismo religioso, dall’altra il nichilismo avanzante: non sembra esserci tanto spazio per un nuovo umanesimo.
«Io penso invece che quello spazio ci sia. Nell’epoca della globalizzazione, non si confrontano soltanto diverse lingue e religioni, ma anche diverse morali. A noi il compito di intessere una sorta di mantello d’Arlecchino, una specie di passerella ideale tra i codici morali di ciascuno. L’umanità ormai non ci appare più come un universo, ma come un multiverso, e mi appoggio in questo all’astrofisica e alla teoria della proliferazione degli universi possibili. Ecco perché parlo del mantello d’Arlecchino come di una nuova veste sociale e normativa, a cui deve concorrere la stessa rilettura della tradizione e la sua concezione di limite. A conclusione della sua Critica della ragion pura, Kant intravede la possibilità di un corpus mysticum di esseri razionali, in cui l’Io e il suo libero arbitrio si riuniscono con il totalmente altro da sé. È molto di più che il richiamo all’usurato concetto di solidarietà. È un incitamento a entrare in contatto con l’estraneo, a comprenderlo, salvaguardando la sua singolarità, la sua eccezione. Per riuscirci, occorre creare una nuova classe di pionieri dell’umanesimo, disposti a combattere la battaglia di una inesausta negoziazione tra differenze».
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/07Sep2013/07Sep2013dd0132f6f03b28ba38c01726d51e1a8a.pdf
http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/2013/09/07/news/julia_kristeva_dobbiamo_costruire_una_religione_laica-66074528/?ref=search

Audio  – La responsabilità dell’essere padri
da radio24.ilsole24ore.com, 6 settembre 2013
Ospite a Melog Massimo Recalcati, psicanalista e autore del libro Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Come si diventa padri, come si è eclissata questa figura fondamentale e come andrebbe riaffermata? Un gruppo di padri in giro per l’Umbria a cavallo con i loro figli autistici ci farà da testimoni.
Clicca su “Riascolta la puntata”
http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/melog/2013-09-06/responsabilita-essere-padri-095627.php?idpuntata=gSLAXqM3U&date=2013-09-06

Video – Conferenza di Massimo Recalcati: Patria senza padri: psicanalisi di una politica in crisi
Intervento di Massimo Recalcati alla Festa Democratica, Genova il 4 settembre 2013
 

 

http://www.youdem.tv/doc/259516/patria-senza-padri-psicanalisi-di-una-politica-in-crisi.htm

Fonte  http://rassegnaflp.wordpress.com

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