QUELLO STRANO EROTISMO DEL SAPERE CHE LEGA IL MAESTRO ALL’ALLIEVO. Tra ricordi, spunti, riflessioni e analisi, il nuovo libro di Massimo Recalcati affronta da una prospettiva originale il “mistero” dell’insegnamento. Da Platone ai nostri giorni
di Simonetta Fiori, la Repubblica, 2 settembre 2014
«Allora è giusto quello che ho sentito dire di te», gli disse una volta un vecchio professore di filosofia al termine di una conferenza. «Potresti spiegare Lacan anche ai sassi!». Sì, è vero, pensò allora Massimo Recalcati, mi piace ripetere, sminuzzare, ridurre fino all’osso. Pensieri lungamente corteggiati e fatti danzare dalla psicoanalisi alla letteratura, dalla dimensione più intima a quella pubblica, sciogliendo la noia dei tecnicismi nel vortice della vita. Un rituale che si ripresenta integro nei libri e negli articoli dello studioso. Ma dietro questa pervicace ostinazione si nasconde un piccolo segreto, racchiuso in una nota a pie’ di pagina del nuovo saggio L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. «Ero stato un bambino considerato idiota. Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi rivolgo».
Una “vite storta”, così era considerato Recalcati, «andavo lento e ora mi rimproverano di andare fin troppo veloce». Una vite che della stortura fa oggi un vanto, perché progredire nella conoscenza non significa raddrizzarsi piuttosto capire quale sia la strada. Inseguire la stella filante del desiderio e nutrirsi del suo riflesso di luce. Ma nel cielo perturbato dell’adolescenza quella stella qualcuno deve pur accenderla. È questo il destino del maestro. Ed è questo il cuore pulsante di un libro originale e bellissimo, che sin dalla titolazione include una parola inedita per la didattica. La parola “erotismo”. «Non esiste insegnamento senza amore. Ogni maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert». La scuola come “sentinella dell’erotismo del sapere”, della possibilità del risveglio. Il luogo che ti conduce altrove, «di fronte al nuovo, all’inaudito, all’imprevisto». L’urto che ti costringe a pensare.
Per continuare:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/09/02/quello-strano-erotismo-del-sapere-che-lega-il-maestro-allallievo35.html
«Allora è giusto quello che ho sentito dire di te», gli disse una volta un vecchio professore di filosofia al termine di una conferenza. «Potresti spiegare Lacan anche ai sassi!». Sì, è vero, pensò allora Massimo Recalcati, mi piace ripetere, sminuzzare, ridurre fino all’osso. Pensieri lungamente corteggiati e fatti danzare dalla psicoanalisi alla letteratura, dalla dimensione più intima a quella pubblica, sciogliendo la noia dei tecnicismi nel vortice della vita. Un rituale che si ripresenta integro nei libri e negli articoli dello studioso. Ma dietro questa pervicace ostinazione si nasconde un piccolo segreto, racchiuso in una nota a pie’ di pagina del nuovo saggio L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. «Ero stato un bambino considerato idiota. Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi rivolgo».
Una “vite storta”, così era considerato Recalcati, «andavo lento e ora mi rimproverano di andare fin troppo veloce». Una vite che della stortura fa oggi un vanto, perché progredire nella conoscenza non significa raddrizzarsi piuttosto capire quale sia la strada. Inseguire la stella filante del desiderio e nutrirsi del suo riflesso di luce. Ma nel cielo perturbato dell’adolescenza quella stella qualcuno deve pur accenderla. È questo il destino del maestro. Ed è questo il cuore pulsante di un libro originale e bellissimo, che sin dalla titolazione include una parola inedita per la didattica. La parola “erotismo”. «Non esiste insegnamento senza amore. Ogni maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert». La scuola come “sentinella dell’erotismo del sapere”, della possibilità del risveglio. Il luogo che ti conduce altrove, «di fronte al nuovo, all’inaudito, all’imprevisto». L’urto che ti costringe a pensare.
Per continuare:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/09/02/quello-strano-erotismo-del-sapere-che-lega-il-maestro-allallievo35.html
IL LIBRO L’ora di lezione, di Massimo Recalcati (Einaudi, pagg. 162, euro 14)
LAVORO: RENZI, BASTA TOTEM E TABÙ. INVESTIMENTI IN ITALIA
di Redazione, agi.it, 3 settembre 2014
“Non sono preoccupato dalle regole del lavoro, ma non si puo’ vivere di tabu’ e totem. Bisogna sapere che il lavoro non si crea cambiando le regole. I posti di lavoro si creano con gli investimenti delle imprese”. Lo ha detto Matteo Renzi a radio Rtl. “La sfida è andare a prendere investitori e dire loro ‘venite in Italia’. Per fare questo servono regole chiare per la giustizia, meno burocrazia e trasparenza politica. Per questo facciamo la riforma della giustizia, della pubblica amministrazione d facciamo la legge contro la corruzione”, ha aggiunto il presidente del consiglio.
Voluta o casuale, la citazione di “totem e tabù” non può non riportare alla mente l’omonimo titolo (che, completo, è ‘Totem e tabù: somiglianze tra vita mentale dei selvaggi e dei nevrotici’) della raccolta di saggi pubblicato nel 1913 da Sigmund Freud.
https://www.agi.it/politica/notizie/lavoro_renzi_basta_totem_e_tabu_investimenti_in_italia-201409030938-pol-rt10023
Voluta o casuale, la citazione di “totem e tabù” non può non riportare alla mente l’omonimo titolo (che, completo, è ‘Totem e tabù: somiglianze tra vita mentale dei selvaggi e dei nevrotici’) della raccolta di saggi pubblicato nel 1913 da Sigmund Freud.
https://www.agi.it/politica/notizie/lavoro_renzi_basta_totem_e_tabu_investimenti_in_italia-201409030938-pol-rt10023
GABRIELE SALVATORES: “VI RACCONTO UN GIORNO D’ITALIA”. Oltre 46 mila i filmanti (per un totale di 2 mila ore) spediti dagli italiani per comporre il nuovo film del regista che sarà nelle sale il 23 settembre. “E’ stato come portare gli italiani a una seduta di psicoanalisi collettiva” – racconta
di Cristiana Allievi, iodonna.it, 4 settembre 2014
Aver vinto un Oscar non mi ha fatto sedere, anzi. Quando si ha la mia fortuna, si deve osare…». Parola di Gabriele Salvatores. Ed ecco il risultato, 90 minuti che volano, rapendo lo spettatore. C’è chi impasta il pane alle quattro di mattina, chi opera bambini in fin di vita, chi galleggia in una navicella spaziale e chi si sveglia ogni mattina su una nave cargo in mezzo al mare. Ma ci sono anche detenuti, anziani, volontari, spazzini in Italy in a day, versione italiana di Life in a day coprodotta da Rai, Indiana e dallo stesso Ridley Scott, il cui progetto originale è un esperimento volto a incrociare media, comunicazione e tecnologia. E Gabriele Salvatores, il regista che da almeno un ventennio si interessa dell’impatto dell’evoluzione tecnologica sul nostro comportamento, non poteva non sentire il richiamo. Il suo film è stato presentato Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, ed è riuscitissimo. A lui è spettato l’onere di selezionare 46 mila video che gli italiani gli hanno mandato per descrivere la loro giornata, per la precisazione quella del 26 ottobre 2013, e di farne un film vero, che andrà al cinema solo il 23 settembre, e poi passerà su Rai Tre il 27 dello stesso mese.
Dica la verità, ha visionato personalmente più di 2 mila ore di materiale che le sono arrivate?
Ho creato un team, 45 ragazzi della scuola di cinema e comunicazione che hanno fatto la prima selezione tecnica, escludendo video con problemi di audio, troppo autoreferenziali o troppo “finti”. Il loro lavoro ha scremato 15 mila video.
A questo punto?
È scattato il sistema delle stellette che esprimeva il livello di gradimento, e sono rimasti 8 mila video. A quel punto sono subentrato io, da lì in avanti ho visto tutto personalmente.
Come si è sentito?
Molto responsabilizzato. In tantissimi si rivolgevano direttamente a me, dicendo “Gabriele, la mia paura è rimanere sola…”, oppure “Salvatores, questa è la mia giornata, mi puoi aiutare?”. La domanda che ha dominato, dentro di me, è stata “con quale criterio scelgo uno al posto dell’altro?”.
Con lo scorrere delle immagini il ritmo incalza, le emozioni anche. Con “Italy in a day” si ha la sensazione di osservare una grande, unica, coscienza, che si manifesta in varie azioni, persone, vite…
Bella questa immagine! A me viene in mente una seduta di psicanalisi collettiva, appunto, una specie di coscienza che emerge non necessariamente da un ragionamento, ma che si compone in flash sinceri. Uno dei motivi per cui il pubblico resta coinvolto è che si riconosce, il quel gesto, quella carezza o quel comportamento….
Il suo ruolo di regista qual è stato?
Fare un lavoro che non si vede (ride, ndr), che percepisci solo se è una cosa voluta. Per raccontare storie umane occorre scomparire, gli agganci visivi e spettacolari ci sono, ma il mio tentativo è stato di non farli notare.
La musica ha un ruolo importante nel film, e fa sicuramente centro.
Non conoscevo il progetto collettivo di Deproducers, ma conoscevo i singoli musicisti per le loro provenienze (Vittorio Cosma, ex PFM; Gianni Maroccolo, fondatore dei Litfiba con Pelù; Riccardo Sinigallia, autore, arrangiatore e produttore; Max Casacci, Subsonica, ndr). Gli ho chiesto una cosa molto difficile, creare un’unità e allo stesso tempo aderire alle diverse emozioni, un lavoraccio.
Si era trovato altre volte nella situazione di dover decifrare qualcosa, a livello sociale, come in questo caso?
Spesso, quando la vita mi ha chiesto cose più complicate. Sono del 1950, mia madre è mancata due anni fa, mio padre ha 95 anni e pian piano sta tagliando i fili che lo tengono in vita. Ho pensato molto alla morte, ma arrivi a capirla quando ti tocca, e realizzi di essere solo un passeggero.
Lavorando ai video degli italiani che idea si è fatto del suo ruolo in questo Paese?
È la prima volta che mi fanno una domanda simile. Come essere umano devo provare a capire il più possibile questa avventura sulla terra. Ma avendo scelto un lavoro in cui mi prendo il diritto di raccontare la realtà, ho anche il dovere di restituire qualcosa alla vita. Dopo che Mediterraneo ha vinto l’Oscar avrei potuto lavorare in quella direzione, invece ho scelto cose più complicate, che magari altri non hanno la possibilità di fare.
http://www.iodonna.it/personaggi/interviste/2014/salvatores-venezia-intervista-5013137250.shtml
Dica la verità, ha visionato personalmente più di 2 mila ore di materiale che le sono arrivate?
Ho creato un team, 45 ragazzi della scuola di cinema e comunicazione che hanno fatto la prima selezione tecnica, escludendo video con problemi di audio, troppo autoreferenziali o troppo “finti”. Il loro lavoro ha scremato 15 mila video.
A questo punto?
È scattato il sistema delle stellette che esprimeva il livello di gradimento, e sono rimasti 8 mila video. A quel punto sono subentrato io, da lì in avanti ho visto tutto personalmente.
Come si è sentito?
Molto responsabilizzato. In tantissimi si rivolgevano direttamente a me, dicendo “Gabriele, la mia paura è rimanere sola…”, oppure “Salvatores, questa è la mia giornata, mi puoi aiutare?”. La domanda che ha dominato, dentro di me, è stata “con quale criterio scelgo uno al posto dell’altro?”.
Con lo scorrere delle immagini il ritmo incalza, le emozioni anche. Con “Italy in a day” si ha la sensazione di osservare una grande, unica, coscienza, che si manifesta in varie azioni, persone, vite…
Bella questa immagine! A me viene in mente una seduta di psicanalisi collettiva, appunto, una specie di coscienza che emerge non necessariamente da un ragionamento, ma che si compone in flash sinceri. Uno dei motivi per cui il pubblico resta coinvolto è che si riconosce, il quel gesto, quella carezza o quel comportamento….
Il suo ruolo di regista qual è stato?
Fare un lavoro che non si vede (ride, ndr), che percepisci solo se è una cosa voluta. Per raccontare storie umane occorre scomparire, gli agganci visivi e spettacolari ci sono, ma il mio tentativo è stato di non farli notare.
La musica ha un ruolo importante nel film, e fa sicuramente centro.
Non conoscevo il progetto collettivo di Deproducers, ma conoscevo i singoli musicisti per le loro provenienze (Vittorio Cosma, ex PFM; Gianni Maroccolo, fondatore dei Litfiba con Pelù; Riccardo Sinigallia, autore, arrangiatore e produttore; Max Casacci, Subsonica, ndr). Gli ho chiesto una cosa molto difficile, creare un’unità e allo stesso tempo aderire alle diverse emozioni, un lavoraccio.
Si era trovato altre volte nella situazione di dover decifrare qualcosa, a livello sociale, come in questo caso?
Spesso, quando la vita mi ha chiesto cose più complicate. Sono del 1950, mia madre è mancata due anni fa, mio padre ha 95 anni e pian piano sta tagliando i fili che lo tengono in vita. Ho pensato molto alla morte, ma arrivi a capirla quando ti tocca, e realizzi di essere solo un passeggero.
Lavorando ai video degli italiani che idea si è fatto del suo ruolo in questo Paese?
È la prima volta che mi fanno una domanda simile. Come essere umano devo provare a capire il più possibile questa avventura sulla terra. Ma avendo scelto un lavoro in cui mi prendo il diritto di raccontare la realtà, ho anche il dovere di restituire qualcosa alla vita. Dopo che Mediterraneo ha vinto l’Oscar avrei potuto lavorare in quella direzione, invece ho scelto cose più complicate, che magari altri non hanno la possibilità di fare.
http://www.iodonna.it/personaggi/interviste/2014/salvatores-venezia-intervista-5013137250.shtml
IL DRAGONE SI SCOPRE DEPRESSO: CADE L’ANATEMA DI MAO, I CINESI VANNO DALLO PSICANALISTA
di Corrado Vitale, secoloditalia.it, 4 settembre 2014
La Cina è più vicina? In principio fu il ping pong ad avvicinare il Dragone all’Occidente. Oggi pare sia il lettino dello psicanalista. Sarà lo stress, il nuovo culto del successo, il logorio della vita moderna, sta di fatto che in Cina esplode l’interesse per la psicologia e la psicoterapia:territori inesplorati negli anni del maoismo, quando pesava l’anatema ideologico pronunciato dal Grande Timoniere contro queste “decadenti pratiche borghesi”. Una legge ha tolto recentemente l’emergo ai “medici dell’anima” Sono soprattutto le nuove generazioni a manifestare un’inedita curiosità per le nuove opportunità e frontiere che queste discipline possono aprire, nella speranza di poter risolvere problemi personali e sociali. Tutto questo era impensabile solo qualche anno fa. Da un po’ di tempo non è raro trovare persone che decidono di rivolgersi a terapisti aggrappate al desiderio di vedere alleviati i propri problemi esistenziali. «Il popolo cinese – spiega Huang Hsuan yin, uno studioso del fenomeno del boom della psicoterapia – dopo il crollo del maoismo è alla ricerca di qualcosa di nuovo, qualche punto di riferimento a lungo termine che non sia solo materiale». Durante una conferenza internazionale sulla psicoterapia svoltasi a Shanghai quest’estate sono comunque state messe in evidenza le contraddizioni di fondo tra come la materia viene concepita e praticata in Occidente e le tradizioni cinesi. In particolare, si è fatto notare come, al contrario della cultura occidentale, dove le scienze psicologiche puntano di regola a costruire e rafforzare l’individuo e la sua personalità, in Cina continua a prevalere una visione orientale: che anche sul lettino dello “strizzacervelli” ambisce a superare il singolo e a sottomettere la persona al contesto sociale. Insomma, non è detto che Sigmund Freud al di là della Grande Muraglia possa alla fine rendere più simile la società cinese a quella occidentale.
http://www.secoloditalia.it/2014/09/il-dragone-si-scopre-depresso-cade-lanatema-di-mao-i-cinesi-vanno-dallo-psicanalista/
http://www.secoloditalia.it/2014/09/il-dragone-si-scopre-depresso-cade-lanatema-di-mao-i-cinesi-vanno-dallo-psicanalista/
PARLARE FA BENE: LA CINA SI APRE ALLA PSICOTERAPIA. Quasi sessant’anni dopo che la psicologia è stata vietata sotto Mao, l’interesse per la ‘talking cure’ occidentale ha guadagnando terreno
di Tania Branigan, The Guardian, 3 settembre, 2014
Per il giovane studente di medicina il primo anno di college trascorse in desolante solitudine. Cresciuto in un paesino povero, aveva poco in comune con i suoi ricchi coetanei cittadini. Non si era fatto amici. Nessuno lo ascoltava. Tutto quel che faceva era studiare.
Potrebbe essere una storia sulle crescenti divisioni sociali della Cina. Ma invece di invidiare gli altri studenti per i loro vantaggi, o di lamentarsi per la sua esclusione, Zhang Yin ha concluso che il problema risiedeva in lui stesso. Tormentato dal suo senso di isolamento, si rivolse a un consulente per chiedere aiuto.
Quella che era iniziata come una ricerca di senso nella propria vita divenne la sua vocazione: si occupa ora di stress e depressione all’Università di Changsha e spera di formarsi come terapeuta esistenziale. “Voglio sapere come riescono gli altri ad alleviare il loro dolore l’ansia e il disagio”, ha detto il ventiquattrenne.
L’entusiasmo di Zhang per la “talking cure” riflette una più ampia crescita d’interesse, poiché i cittadini cinesi cercano un significato, al di là del perseguimento della prosperità.
“I cinesi sono desiderosi e alla ricerca di qualcosa già da un lungo periodo di tempo dopo il crollo del maoismo. Di tanto in tanto c’è come una ‘febbre’ che traversa il paese – ha detto Huang Hsuan-ying, un etnografo che ha studiato il boom della psicoterapia in Cina a partire dal 2007 – e questo riguarda una ricerca a lungo termine di qualcosa che non è solo materiale.”
Altri suggeriscono che questo desiderio è acuito dai traumi nella storia moderna della Cina – la guerra, la carestia, la rivoluzione culturale – e dalla svolta verso le imprese private, che hanno aumentato il benessere economico, ma sradicato le identità e costretto le famiglie a spostamenti.
Sebbene le opere di Sigmund Freud siano state tradotte in cinese nel 1920, l’iniziale ondata d’interesse fu presto repressa. Sotto Mao, la psicologia è stata vietata nel 1966, e la psichiatria ha seguito un modello ampiamente medicalizzato. I servizi di salute mentale presentano in generale vistose lacune, in particolare nelle campagne.
Zhao Xudong, dell’Università di Tongji, Shanghai, ha detto che ci sono solo ventimila psichiatri nel paese. In base all’esperienza di altri paesi, appare tuttavia che in Cina, per soddisfare le esigenze della popolazione nei prossimi anni, ne occorrerebbero più di centomila.
Anche se ci sono quattrocentomila consulenti psicologici registrati presso il ministero del lavoro, molti professionisti ritengono che sia troppo facile ottenere il titolo.
L’interesse del pubblico va tuttavia ormai di pari passo con il riconoscimento ufficiale: la prima legge sulla salute mentale in Cina, in discussione da ventisette anni, è entrata in vigore lo scorso anno. Riconosce il ruolo della psicoterapia e introduce un quadro normativo per la sua pratica.
Coloro che lavorano nel campo affermano che i pazienti spesso riferiscono problemi come mal di stomaco o insonnia, e possono aspettarsi solo trattamenti a base di farmaci – anche quando si riconoscono cause psicologiche.
I giovani, e le persone con un’istruzione, sono più aperti degli anziani all’idea di una psicoterapia, piuttosto che non all’assunzione di farmaci. Zhang dice che i suoi genitori semplicemente non capiscono che cosa sia la psicoterapia.
Un’altra studentessa tuttavia ha notato che i parenti più anziani hanno cominciato a rivolgersi a lei per avere consiglio. Terapeuti famosi, come Li Zixun, appaiono nello show televisivo “La psicologia parla”, e tengono nei giornali rubriche sull’argomento. L’intervento psicologico è frequente dopo qualche catastrofe.
Ampi cambiamenti culturali stanno aiutando la fioritura della psicoterapia. Molti giovani della nuova generazione che stanno interessandosene “non possono dire ‘ti amo’ ai loro genitori, né i loro genitori possono dirlo a loro – ma vorrebbero poterlo dire ai loro figli”, ha affermato Huang, del Centro nazionale universitario australiano sulla Cina nel mondo.
Presso la Federazione Internazionale per il Convegno di Psicoterapia tenutosi a Shanghai quest’estate, alcuni relatori cinesi hanno trattato argomenti che andavano da psicocardiologia e psicoanalisi, all’applicazione delle scale di valutazione standardizzate nel trattamento di bambini con disturbo da deficit d’attenzione e iperattività.
A tratti l’evento prendeva un po’ l’aria una riunione di appassionati sostenitori, con giovani accoliti che dopo le relazioni correvano a farsi fotografare accanto agli oratori. Nei Convegni cinesi spesso insieme agli esperti vengono invitati semplici appassionati. Una donna, alla quale era stato chiesto perché prendesse parte all’evento, ha risposto: “Perché ho tre figli”.
Huang ha detto che molti fanno una formazione ma non diventano professionisti, o abbandonano il lavoro subito dopo averlo iniziato. I costi nel pubblico sono tenuti piuttosto bassi – circa 70 yuan (€7) l’ora – ma mentre le sedute private possono costare dieci volte tanto, è difficile avere una base stabile di clienti.
A volte i problemi riflettono mere differenze culturali, per esempio un’incomprensione degli aspetti formali della pratica occidentale: “Non riescono a capire perché debbano vederti ogni settimana alla stessa ora. ‘Se mi piaci, perché non possiamo andare fuori a cena?‘ domandano”
Molti dei presenti al Convegno di Shanghai hanno identificato contraddizioni più fondamentali tra la psicoterapia come viene praticata in Occidente e la tradizione cinese. Hanno sostenuto che la cultura occidentale cerca di costruire un sé più forte, mentre la cultura orientale cerca di superare il sé; o che i pensatori europei e statunitensi tendono a concentrarsi sull’individuo, mentre il pensiero cinese considera la persona nel suo contesto.
“L’armonia viene prima: l’individuo viene poi”, ha detto Zhong Jie, un professore assistente all’Università di Pechino. Ha citato il caso di una paziente che lo ha lasciato quando si è resa conto che il trattamento la stava portando ad affrontare il conflitto che aveva con il marito.
Altri vedono inattesi parallelismi e convergenze tra aspetti del pensiero tradizionale cinese – soprattutto il Taoismo – e la psicoterapia.
Bao Tiankui fa sedute di gruppo: una risposta concreta alla mancanza di terapeuti qualificati, ma che potrebbe sembrare piuttosto inadatta a una cultura così profondamente riservata per quel che riguarda il mondo emotivo.
I partecipanti cinesi sembrano in un primo momento avere un forte senso di auto-protezione, ha detto. Una volta che tuttavia iniziano ad aprirsi, in realtà sono ben disposti a discutere dei loro problemi e ad avvicinarsi al gruppo.
“Il pensiero cinese e la psicoanalisi – penso che sia un buon incontro”, ha detto Teresa Yuan, un’argentina che ha insegnato in Cina fin dalla metà degli anni ’90. “Forse per la psicoanalisi ci sarà un nuovo inizio che può essere alimentato dal pensiero cinese”.
Segnalato da:
http://www.marcofocchi.com/di-cosa-si-parla/parlare-fa-bene-la-cina-si-apre-alla-psicoterapia
Potrebbe essere una storia sulle crescenti divisioni sociali della Cina. Ma invece di invidiare gli altri studenti per i loro vantaggi, o di lamentarsi per la sua esclusione, Zhang Yin ha concluso che il problema risiedeva in lui stesso. Tormentato dal suo senso di isolamento, si rivolse a un consulente per chiedere aiuto.
Quella che era iniziata come una ricerca di senso nella propria vita divenne la sua vocazione: si occupa ora di stress e depressione all’Università di Changsha e spera di formarsi come terapeuta esistenziale. “Voglio sapere come riescono gli altri ad alleviare il loro dolore l’ansia e il disagio”, ha detto il ventiquattrenne.
L’entusiasmo di Zhang per la “talking cure” riflette una più ampia crescita d’interesse, poiché i cittadini cinesi cercano un significato, al di là del perseguimento della prosperità.
“I cinesi sono desiderosi e alla ricerca di qualcosa già da un lungo periodo di tempo dopo il crollo del maoismo. Di tanto in tanto c’è come una ‘febbre’ che traversa il paese – ha detto Huang Hsuan-ying, un etnografo che ha studiato il boom della psicoterapia in Cina a partire dal 2007 – e questo riguarda una ricerca a lungo termine di qualcosa che non è solo materiale.”
Altri suggeriscono che questo desiderio è acuito dai traumi nella storia moderna della Cina – la guerra, la carestia, la rivoluzione culturale – e dalla svolta verso le imprese private, che hanno aumentato il benessere economico, ma sradicato le identità e costretto le famiglie a spostamenti.
Sebbene le opere di Sigmund Freud siano state tradotte in cinese nel 1920, l’iniziale ondata d’interesse fu presto repressa. Sotto Mao, la psicologia è stata vietata nel 1966, e la psichiatria ha seguito un modello ampiamente medicalizzato. I servizi di salute mentale presentano in generale vistose lacune, in particolare nelle campagne.
Zhao Xudong, dell’Università di Tongji, Shanghai, ha detto che ci sono solo ventimila psichiatri nel paese. In base all’esperienza di altri paesi, appare tuttavia che in Cina, per soddisfare le esigenze della popolazione nei prossimi anni, ne occorrerebbero più di centomila.
Anche se ci sono quattrocentomila consulenti psicologici registrati presso il ministero del lavoro, molti professionisti ritengono che sia troppo facile ottenere il titolo.
L’interesse del pubblico va tuttavia ormai di pari passo con il riconoscimento ufficiale: la prima legge sulla salute mentale in Cina, in discussione da ventisette anni, è entrata in vigore lo scorso anno. Riconosce il ruolo della psicoterapia e introduce un quadro normativo per la sua pratica.
Coloro che lavorano nel campo affermano che i pazienti spesso riferiscono problemi come mal di stomaco o insonnia, e possono aspettarsi solo trattamenti a base di farmaci – anche quando si riconoscono cause psicologiche.
I giovani, e le persone con un’istruzione, sono più aperti degli anziani all’idea di una psicoterapia, piuttosto che non all’assunzione di farmaci. Zhang dice che i suoi genitori semplicemente non capiscono che cosa sia la psicoterapia.
Un’altra studentessa tuttavia ha notato che i parenti più anziani hanno cominciato a rivolgersi a lei per avere consiglio. Terapeuti famosi, come Li Zixun, appaiono nello show televisivo “La psicologia parla”, e tengono nei giornali rubriche sull’argomento. L’intervento psicologico è frequente dopo qualche catastrofe.
Ampi cambiamenti culturali stanno aiutando la fioritura della psicoterapia. Molti giovani della nuova generazione che stanno interessandosene “non possono dire ‘ti amo’ ai loro genitori, né i loro genitori possono dirlo a loro – ma vorrebbero poterlo dire ai loro figli”, ha affermato Huang, del Centro nazionale universitario australiano sulla Cina nel mondo.
Presso la Federazione Internazionale per il Convegno di Psicoterapia tenutosi a Shanghai quest’estate, alcuni relatori cinesi hanno trattato argomenti che andavano da psicocardiologia e psicoanalisi, all’applicazione delle scale di valutazione standardizzate nel trattamento di bambini con disturbo da deficit d’attenzione e iperattività.
A tratti l’evento prendeva un po’ l’aria una riunione di appassionati sostenitori, con giovani accoliti che dopo le relazioni correvano a farsi fotografare accanto agli oratori. Nei Convegni cinesi spesso insieme agli esperti vengono invitati semplici appassionati. Una donna, alla quale era stato chiesto perché prendesse parte all’evento, ha risposto: “Perché ho tre figli”.
Huang ha detto che molti fanno una formazione ma non diventano professionisti, o abbandonano il lavoro subito dopo averlo iniziato. I costi nel pubblico sono tenuti piuttosto bassi – circa 70 yuan (€7) l’ora – ma mentre le sedute private possono costare dieci volte tanto, è difficile avere una base stabile di clienti.
A volte i problemi riflettono mere differenze culturali, per esempio un’incomprensione degli aspetti formali della pratica occidentale: “Non riescono a capire perché debbano vederti ogni settimana alla stessa ora. ‘Se mi piaci, perché non possiamo andare fuori a cena?‘ domandano”
Molti dei presenti al Convegno di Shanghai hanno identificato contraddizioni più fondamentali tra la psicoterapia come viene praticata in Occidente e la tradizione cinese. Hanno sostenuto che la cultura occidentale cerca di costruire un sé più forte, mentre la cultura orientale cerca di superare il sé; o che i pensatori europei e statunitensi tendono a concentrarsi sull’individuo, mentre il pensiero cinese considera la persona nel suo contesto.
“L’armonia viene prima: l’individuo viene poi”, ha detto Zhong Jie, un professore assistente all’Università di Pechino. Ha citato il caso di una paziente che lo ha lasciato quando si è resa conto che il trattamento la stava portando ad affrontare il conflitto che aveva con il marito.
Altri vedono inattesi parallelismi e convergenze tra aspetti del pensiero tradizionale cinese – soprattutto il Taoismo – e la psicoterapia.
Bao Tiankui fa sedute di gruppo: una risposta concreta alla mancanza di terapeuti qualificati, ma che potrebbe sembrare piuttosto inadatta a una cultura così profondamente riservata per quel che riguarda il mondo emotivo.
I partecipanti cinesi sembrano in un primo momento avere un forte senso di auto-protezione, ha detto. Una volta che tuttavia iniziano ad aprirsi, in realtà sono ben disposti a discutere dei loro problemi e ad avvicinarsi al gruppo.
“Il pensiero cinese e la psicoanalisi – penso che sia un buon incontro”, ha detto Teresa Yuan, un’argentina che ha insegnato in Cina fin dalla metà degli anni ’90. “Forse per la psicoanalisi ci sarà un nuovo inizio che può essere alimentato dal pensiero cinese”.
Segnalato da:
http://www.marcofocchi.com/di-cosa-si-parla/parlare-fa-bene-la-cina-si-apre-alla-psicoterapia
TRADIMENTI E PERDONO: RECALCATI RACCONTA L’AMORE CHE RESISTE. Applausi in San Sebastiano per lo psicanalista che guida il pubblico lungo un coinvolgente viaggio nel rapporto di coppia. Dimostrando che i sentimenti possono superare le aggressioni dell’età del tutto e subito
di Cristina del Piano, gazzettadimantova.gelocal.it, 5 settembre 2014
I sentimenti possono superare le aggressioni di un’epoca dove il cosiddetto diktat «tutto e subito» sembra diventato legge? E’ una riflessione a tutto campo sui rapporti di coppia quella che propone Massimo Recalcati, tra i più noti psicanalisti italiani. Da una parte le relazioni che si esauriscono nel giro di breve e dall’altra i sentimenti che resistono al desiderio del “nuovo”, alle lusinghe della società in cui viviamo. E al mondo ipersessualizzato di oggi l’autore di “Non è più come prima” (ed. Raffaello Cortina) contrappone un elogio al perdono nella vita amorosa.
Ma è possibile superare l’offesa di un tradimento o di un abbandono? Parte da questo quesito l’applauditissima conferenza di Recalcati in San Sebastiano. «Il nostro tempo considera l’amore come una merce destinata prima o poi a scadere – attacca – non crede in sostanza nell’amore eterno. Siamo nell’epoca degli amori liquidi, inconsistenti».
Come dire se l’estasi si esaurisce, o si accetta una vita senza desiderio o bisogna cambiare l’oggetto come si farebbe con un frigorifero o un telefonino. «E’ una menzogna pensare che il “nuovo” sia per forza sinonimo di gioia – spiega Recalcati – in questo libro ho voluto dimostrare che esiste un’altra faccia dell’amore. Ovvero quello che aspira all’eternità e di cui parlano anche i poeti». Ma nessun patto, come spiega il relatore, ci potrà assicurare che questi sentimenti dureranno per sempre.
«Il paradosso – osserva – è che vorremmo che l’incontro d’amore con una persona, avvenuto come direbbe Jacques Lacan nella contingenza più pura, trasformasse questa casualità in un destino, in una necessità. Rendendo quell’incontro una ripetizione infinita perché “ancora” è la parola dell’amore». E Recalcati si sofferma anche sul “miracolo” dei sentimenti veri. «La fedeltà non è una prigione, né una gabbia – spiega – se si trasforma in un sacrificio bisogna liberarsi. La fedeltà diventa una postura dell’amore perché trasforma lo stesso in nuovo, non c’è bisogno di andare altrove per trovarlo. Come quando guardiamo un’alba sorgere: l’abbiamo vista mille volte ma non ci stancheremmo mai di ammirarla, ogni volta ci appare diversa, nuova».
Recalcati accompagna il pubblico in questa indagine sui sentimenti. Cosa amiamo di una persona? «L’amore ideale si scioglie come neve al sole – osserva – a volte basta un calzino stonato o una parola sbagliata, quello che dura invece rende l’altro insostituibile. La vita che si sente amata riceve un fondamento, trova un senso». E per rendere ancora più attuale il concetto, lo psicanalista prende a prestito anche il brano “A te” di Jovanotti (tu mi hai raccolto come un gatto e mi hai portato con te, ndr) . Il pubblico è attentissimo. Coinvolto. E l’itinerario di Recalcati continua.
C’è spazio per citare Camus, Heidegger, Il viaggio in Italia di Goethe. Senza dimenticare alcuni passi del Vangelo. Ma cosa succede quando in un rapporto importante intervengono tradimento o abbandono e poi un ritorno? C’è chi non è in grado di perdonare, come evidenzia Recalcati, perché resta fedele a quell’idea di amore che ora si è rotta e non esiste più.
E c’è anche una seconda via del perdono, in sé “sublime e atroce”, che assomiglia al lutto anche se l’oggetto d’amore in questo caso non è scomparso. «Chi si pente – spiega – è perché ha avuto la percezione di aver tradito innanzitutto se stesso». Il perdono diventa quasi un’esperienza di resurrezione. Solo attraverso il perdono l’amore che sembrava finito nello spergiuro può tornare in vita. Donare la vita all’amore significa dare una seconda chance. «Questo libro – scrive del resto l’autore – elogia il perdono come lavoro lento e faticoso che non rinuncia alla promessa di eternità che accompagna ogni amore vero».
http://gazzettadimantova.gelocal.it/mantova/cronaca/2014/09/05/news/tradimenti-e-perdono-recalcati-racconta-l-amore-che-resiste-1.9877508
I sentimenti possono superare le aggressioni di un’epoca dove il cosiddetto diktat «tutto e subito» sembra diventato legge? E’ una riflessione a tutto campo sui rapporti di coppia quella che propone Massimo Recalcati, tra i più noti psicanalisti italiani. Da una parte le relazioni che si esauriscono nel giro di breve e dall’altra i sentimenti che resistono al desiderio del “nuovo”, alle lusinghe della società in cui viviamo. E al mondo ipersessualizzato di oggi l’autore di “Non è più come prima” (ed. Raffaello Cortina) contrappone un elogio al perdono nella vita amorosa.
Ma è possibile superare l’offesa di un tradimento o di un abbandono? Parte da questo quesito l’applauditissima conferenza di Recalcati in San Sebastiano. «Il nostro tempo considera l’amore come una merce destinata prima o poi a scadere – attacca – non crede in sostanza nell’amore eterno. Siamo nell’epoca degli amori liquidi, inconsistenti».
Come dire se l’estasi si esaurisce, o si accetta una vita senza desiderio o bisogna cambiare l’oggetto come si farebbe con un frigorifero o un telefonino. «E’ una menzogna pensare che il “nuovo” sia per forza sinonimo di gioia – spiega Recalcati – in questo libro ho voluto dimostrare che esiste un’altra faccia dell’amore. Ovvero quello che aspira all’eternità e di cui parlano anche i poeti». Ma nessun patto, come spiega il relatore, ci potrà assicurare che questi sentimenti dureranno per sempre.
«Il paradosso – osserva – è che vorremmo che l’incontro d’amore con una persona, avvenuto come direbbe Jacques Lacan nella contingenza più pura, trasformasse questa casualità in un destino, in una necessità. Rendendo quell’incontro una ripetizione infinita perché “ancora” è la parola dell’amore». E Recalcati si sofferma anche sul “miracolo” dei sentimenti veri. «La fedeltà non è una prigione, né una gabbia – spiega – se si trasforma in un sacrificio bisogna liberarsi. La fedeltà diventa una postura dell’amore perché trasforma lo stesso in nuovo, non c’è bisogno di andare altrove per trovarlo. Come quando guardiamo un’alba sorgere: l’abbiamo vista mille volte ma non ci stancheremmo mai di ammirarla, ogni volta ci appare diversa, nuova».
Recalcati accompagna il pubblico in questa indagine sui sentimenti. Cosa amiamo di una persona? «L’amore ideale si scioglie come neve al sole – osserva – a volte basta un calzino stonato o una parola sbagliata, quello che dura invece rende l’altro insostituibile. La vita che si sente amata riceve un fondamento, trova un senso». E per rendere ancora più attuale il concetto, lo psicanalista prende a prestito anche il brano “A te” di Jovanotti (tu mi hai raccolto come un gatto e mi hai portato con te, ndr) . Il pubblico è attentissimo. Coinvolto. E l’itinerario di Recalcati continua.
C’è spazio per citare Camus, Heidegger, Il viaggio in Italia di Goethe. Senza dimenticare alcuni passi del Vangelo. Ma cosa succede quando in un rapporto importante intervengono tradimento o abbandono e poi un ritorno? C’è chi non è in grado di perdonare, come evidenzia Recalcati, perché resta fedele a quell’idea di amore che ora si è rotta e non esiste più.
E c’è anche una seconda via del perdono, in sé “sublime e atroce”, che assomiglia al lutto anche se l’oggetto d’amore in questo caso non è scomparso. «Chi si pente – spiega – è perché ha avuto la percezione di aver tradito innanzitutto se stesso». Il perdono diventa quasi un’esperienza di resurrezione. Solo attraverso il perdono l’amore che sembrava finito nello spergiuro può tornare in vita. Donare la vita all’amore significa dare una seconda chance. «Questo libro – scrive del resto l’autore – elogia il perdono come lavoro lento e faticoso che non rinuncia alla promessa di eternità che accompagna ogni amore vero».
http://gazzettadimantova.gelocal.it/mantova/cronaca/2014/09/05/news/tradimenti-e-perdono-recalcati-racconta-l-amore-che-resiste-1.9877508
ISIS, LA TORTURA È UN’OSCENITÀ DI ODIO, POTERE E SADISMOISIS, LA TORTURA È UN’OSCENITÀ DI ODIO, POTERE E SADISMO
di Dacia Maraini, corriere.it, 5 settembre 2014
La tortura è sempre stata praticata. Ma negli ultimi secoli, in segreto. La tortura è l’officina del sadismo e il sadismo chiede silenzio e concentrazione, chiede clandestinità e buio. Per lo meno da quando è stata sancita eticamente la condanna della tortura e da quando la psicanalisi ha scavato nell’inconscio umano raccontando le nefandezze di una pratica che, sotto sfondi ideologici e religiosi, nasconde il piacere sensuale di pascersi del dolore altrui. Ma pure, ormai anche le religioni hanno accettato l’idea che la tortura è inutile oltreché oltraggiosa. Pare chiaro a tutti che Dio non può stare accanto alla mano che frusta, scortica, strangola, ferisce, colpisce e lapida. Prima di Cristo e prima dell’Illuminismo, ovvero del riconoscimento dei diritti dell’Uomo, Dio permetteva, eccome, la tortura, forse anche lo esigeva.
Per continuare:
http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_05/isis-tortura-un-oscenita-odio-potere-sadismo-f8f1d952-34c9-11e4-8bde-13a5c0a12f77.shtml
“PSYCHO-COMICS”
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 6 settembre 2014
Per continuare:
http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_05/isis-tortura-un-oscenita-odio-potere-sadismo-f8f1d952-34c9-11e4-8bde-13a5c0a12f77.shtml
“PSYCHO-COMICS”
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 6 settembre 2014
I fumetti, incubo dei nostri genitori, timorosi che le nostre letture si arrestassero definitivamente a Topolino, Tex, Dylan Dog se non “peggio”, hanno una forza narrativa che ora, divenuti (da tempo) genitori, rivalutiamo molto volentieri, a maggior ragione di fronte a ripetitivi videogame. La potenza e l’immediatezza visiva di quelli che ormai sono diventati più nobilmente comics sono da sempre e sempre più a disposizione anche delle cose della mente. Contemplate, come si conviene alla loro multiforme natura, da svariati punti di vista. C’è chi con le immagini entra nell’oggetto cervello, chi in coloro che l’hanno studiato o “scoperto” e nei loro metodi, chi fa diagnosi o analisi ai protagonisti dei fumetti. Chi infine riesce a entrare in sé stesso e a tradurre in arte grafica la propria sofferenza psichica.
Neurocomic recentemente uscito da Rizzoli è un viaggio nella foresta neuronale alla scoperta dei meccanismi di funzionamento del nostro cervello in fugace compagnia di neuroscienziati vecchi e nuovi da Ramòn y Cajal e Golgi, a Pavlov, Sherrington fino a Kandel. Ben congegnato nei suoi molteplici livelli (morfologia, farmacologia, elettrofisiologia, plasticità, sincronicità) ma anche un po’ neuro-fondamentalista (guai a parlar di psicologia, psicanalisi!) , risponde comunque bene allo scopo di fornire un utile e aggiornato quadro d’insieme del nostro funzionamento mentale.
Neurocomic recentemente uscito da Rizzoli è un viaggio nella foresta neuronale alla scoperta dei meccanismi di funzionamento del nostro cervello in fugace compagnia di neuroscienziati vecchi e nuovi da Ramòn y Cajal e Golgi, a Pavlov, Sherrington fino a Kandel. Ben congegnato nei suoi molteplici livelli (morfologia, farmacologia, elettrofisiologia, plasticità, sincronicità) ma anche un po’ neuro-fondamentalista (guai a parlar di psicologia, psicanalisi!) , risponde comunque bene allo scopo di fornire un utile e aggiornato quadro d’insieme del nostro funzionamento mentale.
Non è un comic ma assomiglia un po’ a un cartoon questa bellaballata cerebrale di Aaron Wolf che con ironia, intelligenza e precisione spiega in 3 minuti di parole, musica e immagini le principali parti e funzioni del cervello. Più efficace ed incisiva di un voluminoso manuale, più divertente di tanta pretenziosa letteratura e in più gratuita come conviene a un common.
“Freud. Una biografia a fumetti” illustra con brillantezza vita e opere dell’inventore della psicanalisi. D’altro canto comics e psicanalisi è accoppiata vincente da tempo. Il New Yorker ha pubblicato il suo primo fumetto psicoanalitico nel 1927 e da allora i comics hanno contribuito in modo decisivo a far conoscere, riflettere e sorridere su riti, miti e nevrosi della terapia psicanalitica e dei suoi protagonisti, pazienti e terapeuti. Lo illustra bene un’esposizione del 2006 raccolta nel comic-book On the Couch e intelligentemente riproposta dal sito (molto attivo anche sui social media) del Freud Museum London da cui ho tratto anche l’immagine. Comic-books si propongono oggi addirittura l’ambizioso scopo di riassumere e illustrare complesse teorie psicoanalitiche, come ad es. Behandlungs-(T)räume “manuale satirico psicanalitico in immagini e parole” (peraltro tedesche) che gioca sull’assonanza (in tedesco) tra stanze e sogni di terapia. O ancoraCouch Fiction: come funziona una psicoterapia. Così coinvolgente ed efficace che una mia paziente l’ha preso in prestito dalla mia sala d’aspetto e se l’è tenuto anche dopo aver interrotto la psicoterapia. Nel fumetto anche il rapporto terapeutico funziona certo molto meglio… Anche se, a ben guardare anche gli eroi dei fumetti vanno soggetti a disturbi psichici, che vengono (un po’ selvaggiamente) diagnosticati in “A psychoanalysis of your favourite cartoon characters” il potenziale narrativo, letterario e terapeutico dei fumetti va ben oltre l’ironia e si declina (anche) nel presente e nel futuro della medicina narrativa. Freud diceva che i fumetti costituiscono “una ribellione contro l’autorità, una liberazione dall’oppressione che essa impone”. Noi potremmo aggiungere: anche dall’oppressione della malattia, fisica e mentale. Gli ultimi decenni sembrano testimoniarlo sempre più chiaramente.
Già nel 2004 il New York Times si faceva interprete di tale trasformazione della sensibilità letteraria e dichiarava: comics and graphic novels to be the “major medium of our times.” Nel 2009 The Times Sunday Book Review aggiungeva alle sue colonne una speciale sezione di graphic novels, per dare appunto conto di paperback and hardcover graphic novels (previously known as comic books) and manga. Accanto ai più consueti fumetti le “patografie” proprie e altrui (i racconti cioè di malattie fisiche e mentali raccontate in prima persona o da altri) vengono sempre più vendute e lette e hanno talvolta scalato le classifiche, fino a divenire un genere a sé.
Ne è traccia un interessante profilo Sharon Packer in un bell’articolo perPsychiatric Times in cui spazia dalle esperienze e correlate rappresentazioni grafiche del disturbo bipolare, (Forney E. Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me: A Graphic Memoir. New York: Gotham Books; 2012) a quello ossessivo (Bechdel A. Are You My Mother?: A Comic Drama. New York: Mariner Books; 2013) per non parlare degli ancor più frequenti Comic-books espressione del corpo a corpo con la depressione (Lauren Slater’s Prozac Diary (1998), and Elizabeth Wurtzel’s Prozac Nation: Young and Depressed in America—A Memoir (2001)). Un’altra ricca panoramica è offerta qui: Wolk D. At the Panel’s Edge. New York Times Sunday Book Review. December 14, 2012; e questo uno splendido sito di “medicina grafica”
“The visual imagery is potent and expresses more than words alone could convey” constata, a ragione, Packer. Questa forza immaginativa ci può aiutare (anche) a superare le convenzionali e quanto mai fragili barriere sano/malato, a farci percepire ed ammettere la fragilità che è in ognuno di noi e al tempo stesso a riconoscere le risorse (nascoste) che sono in ogni persona malata. Per vedere con occhi nuovi anche l’isola deserta della sofferenza.
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/09/06/psycho-comics/
“Freud. Una biografia a fumetti” illustra con brillantezza vita e opere dell’inventore della psicanalisi. D’altro canto comics e psicanalisi è accoppiata vincente da tempo. Il New Yorker ha pubblicato il suo primo fumetto psicoanalitico nel 1927 e da allora i comics hanno contribuito in modo decisivo a far conoscere, riflettere e sorridere su riti, miti e nevrosi della terapia psicanalitica e dei suoi protagonisti, pazienti e terapeuti. Lo illustra bene un’esposizione del 2006 raccolta nel comic-book On the Couch e intelligentemente riproposta dal sito (molto attivo anche sui social media) del Freud Museum London da cui ho tratto anche l’immagine. Comic-books si propongono oggi addirittura l’ambizioso scopo di riassumere e illustrare complesse teorie psicoanalitiche, come ad es. Behandlungs-(T)räume “manuale satirico psicanalitico in immagini e parole” (peraltro tedesche) che gioca sull’assonanza (in tedesco) tra stanze e sogni di terapia. O ancoraCouch Fiction: come funziona una psicoterapia. Così coinvolgente ed efficace che una mia paziente l’ha preso in prestito dalla mia sala d’aspetto e se l’è tenuto anche dopo aver interrotto la psicoterapia. Nel fumetto anche il rapporto terapeutico funziona certo molto meglio… Anche se, a ben guardare anche gli eroi dei fumetti vanno soggetti a disturbi psichici, che vengono (un po’ selvaggiamente) diagnosticati in “A psychoanalysis of your favourite cartoon characters” il potenziale narrativo, letterario e terapeutico dei fumetti va ben oltre l’ironia e si declina (anche) nel presente e nel futuro della medicina narrativa. Freud diceva che i fumetti costituiscono “una ribellione contro l’autorità, una liberazione dall’oppressione che essa impone”. Noi potremmo aggiungere: anche dall’oppressione della malattia, fisica e mentale. Gli ultimi decenni sembrano testimoniarlo sempre più chiaramente.
Già nel 2004 il New York Times si faceva interprete di tale trasformazione della sensibilità letteraria e dichiarava: comics and graphic novels to be the “major medium of our times.” Nel 2009 The Times Sunday Book Review aggiungeva alle sue colonne una speciale sezione di graphic novels, per dare appunto conto di paperback and hardcover graphic novels (previously known as comic books) and manga. Accanto ai più consueti fumetti le “patografie” proprie e altrui (i racconti cioè di malattie fisiche e mentali raccontate in prima persona o da altri) vengono sempre più vendute e lette e hanno talvolta scalato le classifiche, fino a divenire un genere a sé.
Ne è traccia un interessante profilo Sharon Packer in un bell’articolo perPsychiatric Times in cui spazia dalle esperienze e correlate rappresentazioni grafiche del disturbo bipolare, (Forney E. Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me: A Graphic Memoir. New York: Gotham Books; 2012) a quello ossessivo (Bechdel A. Are You My Mother?: A Comic Drama. New York: Mariner Books; 2013) per non parlare degli ancor più frequenti Comic-books espressione del corpo a corpo con la depressione (Lauren Slater’s Prozac Diary (1998), and Elizabeth Wurtzel’s Prozac Nation: Young and Depressed in America—A Memoir (2001)). Un’altra ricca panoramica è offerta qui: Wolk D. At the Panel’s Edge. New York Times Sunday Book Review. December 14, 2012; e questo uno splendido sito di “medicina grafica”
“The visual imagery is potent and expresses more than words alone could convey” constata, a ragione, Packer. Questa forza immaginativa ci può aiutare (anche) a superare le convenzionali e quanto mai fragili barriere sano/malato, a farci percepire ed ammettere la fragilità che è in ognuno di noi e al tempo stesso a riconoscere le risorse (nascoste) che sono in ogni persona malata. Per vedere con occhi nuovi anche l’isola deserta della sofferenza.
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/09/06/psycho-comics/
DAVID CHASE: «I SOPRANO? UNA FAMIGLIA ’DISFUNZIONALE’…». Parla l’autore della serie cult americana: «Fare il casting con Gandolfini non è stato semplice, dopo la prima audizione se ne è andato a metà. Era fatto così, non era mai sicuro, pensava di non essere abbastanza bravo»
di Giuliana Muscio, ilmanifesto.info, 6 settembre 2014
David Chase (David DeCesare), il leggendario autore della pluripremiata serie tv I Soprano è a Venezia in qualità di giurato della sezione Orizzonti. Nel 2012 ha realizzato un suo film, Not Fade Away, sul rapporto tra un giovane musicista rock (John Magaro) e il padre (interpretato dal «suo» James Gandolfini); attualmente sta lavorando a una miniserie HBO, A Ribbon of Dreams, sulla storia del cinema muto americano. Minuto, quasi fragile, vestito di un grigio che richiama il cielo del Lido, insopportabilmente autunnale, Chase si racconta. «È la prima volta al festival ma a Venezia ci sono stato molte volte, in passato. Mi interessa l’Italia. Tutti i miei quattro nonni erano italiani. Era una tipica famiglia italiana in America. L’unico diverso era mio nonno materno, Vito Bucco. Lui non era cattolico, ma protestante, o meglio, era socialista e ateo, ma la sorella di mia madre ha deciso di trovarsi una chiesa vicino a casa, che era la chiesa battista, dove mia madre ha incontrato poi mio padre. Mio nonno aveva studiato alle superiori; lo chiamavano dottore, leggeva il giornale, frequentava le riunioni del partito, ma spendeva più soldi per queste cose che per la famiglia.
Il cibo è un aspetto chiave della cultura italoamericana, un segno della sua non assimilazione, e ha una parte importantissima nei Soprano. Anche nella sua famiglia?
Io adoro il cibo italiano. Quando andavo a mangiare dai miei amici, magari polacchi, dentro di me pensavo proprio a quanto ero stato fortunato a nascere italiano.
Nel cinema italoamericano contemporaneo la famiglia ha un ruolo centrale, anche se spesso è disfunzionale, come in «Buffalo 66» di Vincent Gallo, o in «Mosche da bar» di Buscemi...
Qualsiasi famiglia americana è disfunzionale. Quella dei Soprano è una famiglia ideale in apparenza: padre, madre e un figlio maschio, una figlia femmina, ma pensiamo che metà delle coppie americane dell’età di Tony e Carmela sarebbero già stati divorziati. Vivono nel New Jersey (dove è cresciuto Chase) perché statisticamente è lo stato in cui risiedono più italoamericani. vivono lì ricordando la madrepatria, che nel frattempo è cambiata. Ma i Soprano sono una famiglia di fuorilegge; è Carmela che vorrebbe integrarsi, far studiare i figli; è quella che accetterebbe l’assimilazione.
Il cast della serie è davvero eccezionale. Come ha scelto questi attori?
Il casting è il momento più duro. Vedi centinaia di persone e cominci a pensare che quello che hai scritto non funziona se nessuno riesce a recitarlo come vorresti tu, e poi, tac, un giorno arriva uno ed è perfetto per la parte. Con Gandolfini era tutto molto difficile. Anche quando ha fatto la prima audizione se ne è andato a metà; quando cominciava a girare un film o una cosa, il primo giorno non arrivava sul set. Era fatto così: non era mai sicuro, gli sembrava di non essere abbastanza bravo.
Il casting di Little Steven, ovvero Steven Van Zandt della E Street Band, è legato ai suoi trascorsi musicali (Chase da giovane è stato batterista)? Bruce Springsteen e la Band del resto sono in gran parte italoamericani del New Jersey…
Sono sempre stato un grande appassionato di Springsteen, ma non sapevo che era di origini italiane; magari lo percepivo. Guardavo le copertine degli LP e mi sembrava che Little Steven avesse una faccia interessante, poi quando ha lasciato la Band per incidere da solo, con quella bandana e l’aria da pirata, mi pareva un Al Pacino giovane. Quando poi l’ho visto in televisione mentre introduceva i Rascals, una band in cui tre dei componenti erano italiani, nella Hall of Fame, era così autorevole che ho deciso che era perfetto per i Soprano e ho tirato fuori un ruolo per lui.
Nancy Marchand, che ha il ruolo della perfida madre di Tony Soprano, Livia, era stata interprete in teatro di Marty, a sua volta incentrato sulla comunità italoamericana.
Sì ma lei non era italoamericana. Avevamo fatto 150 audizioni per quel ruolo ma tutte le attrici si mettevano a fare la donna italiana pazza (e gesticola vistosamente) mentre io avevo in mente mia madre. Quando Nancy provò è stato proprio come vedere mia madre; anche i parenti si sono impressionati: sembra proprio lei!
La serie gioca in un modo sofisticato tra stereotipo e personaggio…
Certo, perché spesso lo stereotipo è reale. Mai visto quanti uomini grassi, col pancione come Tony Soprano, girano per i quartieri italoamericani?
Questa sintesi può essere pericolosa, però, basti pensare ai film americani di oggi…
Ma in questo cinema non ci sono più veri personaggi, né racconto: sono giocattoli e fumetti.
La peculiarità dei Soprano, che ora è diventata un carattere tipico delle serie tv, è la coesistenza di più registri, in particolare dell’Ironia, della metacomunicazione, del distacco, e dall’altra parte dell’identificazione e del naturalismo psicologico.
Io volevo che i Soprano funzionassero come una satira, ma se scrivi bene, i personaggi devono essere a tutto tondo.
Lei usa il lettino dello psicanalisti per raccontare Tony Soprano.
Nella comunità italiana la psicanalisi è rifiutata; come dice Livia nei Soprano «è un racket degli ebrei» ma io ho fatto analisi per diversi anni e la mia analista era una donna; su di lei ho costruito il personaggio della dottoressa Melfi.
Nel suo film qui a Venezia, «She’s Funny That Way», Bogdanovich ha «firmato» i titoli di coda proprio con un cameo in cui lo si vede mentre interpreta il supervisore analitico della dottoressa Melfi nei Soprano; come mai lei aveva scelto questo collega regista per quel ruolo?
C’eravamo conosciuti mentre lavoravo per la serie Northern Exposure; gli avevo chiesto di interpretare un personaggio perché in quella puntata si parlava di genialità e lui è un esperto di Orson Welles. E dopo mi sembrava perfetto per questa parte; lui l’ha fatta volentieri. Ha anche diretto un episodio.
Anche Buscemi, oltre a interpretare un personaggio importante come il cugino di Tony, ha diretto due episodi della serie e vinto persino l’Emmy.
Avevo visto Mosche da bar e lo avevo molto amato. L’ho chiamato come attore proprio per quello e poi è venuto da sé fargli girare degli episodi.
Il titolo della serie è un richiamo al suo amore per la musica, che la serie utilizza peraltro in modo davvero innovativo?
No, era il cognome di un mio compagno di scuola al liceo. Mi era sempre piaciuto, ma l’HBO era perplessa perché diceva che con quel titolo tutti avrebbero pensato che si trattava di opera. Ma a me la cosa non dispiaceva…
Secondo lei perché la serie, che ha avuto un successo così clamoroso (e in un certo senso insuperato) in America non ha avuto molto successo in Italia?
Mi hanno detto perché qui si pensa che non ci sia niente di divertente nella mafia. Forse è stato anche per l’ora molto tarda in cui veniva trasmessa. Forse non volevano che la gente la vedesse, perché, come si evince dai film qui a Venezia, la mafia è ancora qui ed è ovunque; il paese è uno dei più corrotti del mondo occidentale…Anche l’America non scherza, da questo punto di vista. Comunque a me è piaciuto moltoBelluscone, il film di Maresco.
http://ilmanifesto.info/david-chase-i-soprano-una-famiglia-disfunzionale/
David Chase (David DeCesare), il leggendario autore della pluripremiata serie tv I Soprano è a Venezia in qualità di giurato della sezione Orizzonti. Nel 2012 ha realizzato un suo film, Not Fade Away, sul rapporto tra un giovane musicista rock (John Magaro) e il padre (interpretato dal «suo» James Gandolfini); attualmente sta lavorando a una miniserie HBO, A Ribbon of Dreams, sulla storia del cinema muto americano. Minuto, quasi fragile, vestito di un grigio che richiama il cielo del Lido, insopportabilmente autunnale, Chase si racconta. «È la prima volta al festival ma a Venezia ci sono stato molte volte, in passato. Mi interessa l’Italia. Tutti i miei quattro nonni erano italiani. Era una tipica famiglia italiana in America. L’unico diverso era mio nonno materno, Vito Bucco. Lui non era cattolico, ma protestante, o meglio, era socialista e ateo, ma la sorella di mia madre ha deciso di trovarsi una chiesa vicino a casa, che era la chiesa battista, dove mia madre ha incontrato poi mio padre. Mio nonno aveva studiato alle superiori; lo chiamavano dottore, leggeva il giornale, frequentava le riunioni del partito, ma spendeva più soldi per queste cose che per la famiglia.
Il cibo è un aspetto chiave della cultura italoamericana, un segno della sua non assimilazione, e ha una parte importantissima nei Soprano. Anche nella sua famiglia?
Io adoro il cibo italiano. Quando andavo a mangiare dai miei amici, magari polacchi, dentro di me pensavo proprio a quanto ero stato fortunato a nascere italiano.
Nel cinema italoamericano contemporaneo la famiglia ha un ruolo centrale, anche se spesso è disfunzionale, come in «Buffalo 66» di Vincent Gallo, o in «Mosche da bar» di Buscemi...
Qualsiasi famiglia americana è disfunzionale. Quella dei Soprano è una famiglia ideale in apparenza: padre, madre e un figlio maschio, una figlia femmina, ma pensiamo che metà delle coppie americane dell’età di Tony e Carmela sarebbero già stati divorziati. Vivono nel New Jersey (dove è cresciuto Chase) perché statisticamente è lo stato in cui risiedono più italoamericani. vivono lì ricordando la madrepatria, che nel frattempo è cambiata. Ma i Soprano sono una famiglia di fuorilegge; è Carmela che vorrebbe integrarsi, far studiare i figli; è quella che accetterebbe l’assimilazione.
Il cast della serie è davvero eccezionale. Come ha scelto questi attori?
Il casting è il momento più duro. Vedi centinaia di persone e cominci a pensare che quello che hai scritto non funziona se nessuno riesce a recitarlo come vorresti tu, e poi, tac, un giorno arriva uno ed è perfetto per la parte. Con Gandolfini era tutto molto difficile. Anche quando ha fatto la prima audizione se ne è andato a metà; quando cominciava a girare un film o una cosa, il primo giorno non arrivava sul set. Era fatto così: non era mai sicuro, gli sembrava di non essere abbastanza bravo.
Il casting di Little Steven, ovvero Steven Van Zandt della E Street Band, è legato ai suoi trascorsi musicali (Chase da giovane è stato batterista)? Bruce Springsteen e la Band del resto sono in gran parte italoamericani del New Jersey…
Sono sempre stato un grande appassionato di Springsteen, ma non sapevo che era di origini italiane; magari lo percepivo. Guardavo le copertine degli LP e mi sembrava che Little Steven avesse una faccia interessante, poi quando ha lasciato la Band per incidere da solo, con quella bandana e l’aria da pirata, mi pareva un Al Pacino giovane. Quando poi l’ho visto in televisione mentre introduceva i Rascals, una band in cui tre dei componenti erano italiani, nella Hall of Fame, era così autorevole che ho deciso che era perfetto per i Soprano e ho tirato fuori un ruolo per lui.
Nancy Marchand, che ha il ruolo della perfida madre di Tony Soprano, Livia, era stata interprete in teatro di Marty, a sua volta incentrato sulla comunità italoamericana.
Sì ma lei non era italoamericana. Avevamo fatto 150 audizioni per quel ruolo ma tutte le attrici si mettevano a fare la donna italiana pazza (e gesticola vistosamente) mentre io avevo in mente mia madre. Quando Nancy provò è stato proprio come vedere mia madre; anche i parenti si sono impressionati: sembra proprio lei!
La serie gioca in un modo sofisticato tra stereotipo e personaggio…
Certo, perché spesso lo stereotipo è reale. Mai visto quanti uomini grassi, col pancione come Tony Soprano, girano per i quartieri italoamericani?
Questa sintesi può essere pericolosa, però, basti pensare ai film americani di oggi…
Ma in questo cinema non ci sono più veri personaggi, né racconto: sono giocattoli e fumetti.
La peculiarità dei Soprano, che ora è diventata un carattere tipico delle serie tv, è la coesistenza di più registri, in particolare dell’Ironia, della metacomunicazione, del distacco, e dall’altra parte dell’identificazione e del naturalismo psicologico.
Io volevo che i Soprano funzionassero come una satira, ma se scrivi bene, i personaggi devono essere a tutto tondo.
Lei usa il lettino dello psicanalisti per raccontare Tony Soprano.
Nella comunità italiana la psicanalisi è rifiutata; come dice Livia nei Soprano «è un racket degli ebrei» ma io ho fatto analisi per diversi anni e la mia analista era una donna; su di lei ho costruito il personaggio della dottoressa Melfi.
Nel suo film qui a Venezia, «She’s Funny That Way», Bogdanovich ha «firmato» i titoli di coda proprio con un cameo in cui lo si vede mentre interpreta il supervisore analitico della dottoressa Melfi nei Soprano; come mai lei aveva scelto questo collega regista per quel ruolo?
C’eravamo conosciuti mentre lavoravo per la serie Northern Exposure; gli avevo chiesto di interpretare un personaggio perché in quella puntata si parlava di genialità e lui è un esperto di Orson Welles. E dopo mi sembrava perfetto per questa parte; lui l’ha fatta volentieri. Ha anche diretto un episodio.
Anche Buscemi, oltre a interpretare un personaggio importante come il cugino di Tony, ha diretto due episodi della serie e vinto persino l’Emmy.
Avevo visto Mosche da bar e lo avevo molto amato. L’ho chiamato come attore proprio per quello e poi è venuto da sé fargli girare degli episodi.
Il titolo della serie è un richiamo al suo amore per la musica, che la serie utilizza peraltro in modo davvero innovativo?
No, era il cognome di un mio compagno di scuola al liceo. Mi era sempre piaciuto, ma l’HBO era perplessa perché diceva che con quel titolo tutti avrebbero pensato che si trattava di opera. Ma a me la cosa non dispiaceva…
Secondo lei perché la serie, che ha avuto un successo così clamoroso (e in un certo senso insuperato) in America non ha avuto molto successo in Italia?
Mi hanno detto perché qui si pensa che non ci sia niente di divertente nella mafia. Forse è stato anche per l’ora molto tarda in cui veniva trasmessa. Forse non volevano che la gente la vedesse, perché, come si evince dai film qui a Venezia, la mafia è ancora qui ed è ovunque; il paese è uno dei più corrotti del mondo occidentale…Anche l’America non scherza, da questo punto di vista. Comunque a me è piaciuto moltoBelluscone, il film di Maresco.
http://ilmanifesto.info/david-chase-i-soprano-una-famiglia-disfunzionale/
IL CHIACCHIERICCIO CHE RENDE SCHIAVI. Molte parole vuote, complice anche la rete. E rischia di vincere il conformismo. Un incontro al teatro «Parenti» analizza le nuove forme di asservimento
di Roberta Scorranese, corriere.it, 7 settembre 2014
In una recente intervista a «El País», il capo di Stato dell’Uruguay, Pepe Mujica, ha dichiarato: «Sono stato schiavo per molti anni. Prima schiavo della dittatura e, in seguito, prigioniero delle mie rigidità ideologiche». Nelle parole dell’anziano presidente c’è la lucidità dei poeti e dei rivoluzionari: la libertà e la schiavitù convivono più frequentemente di quanto si pensi. E di moderne forme di schiavitù si parlerà a «Jewish and The City», domenica 14: al Franco Parenti si confronteranno religiosi, scrittori e storici. Cominciando col precisare che forse oggi sarebbe meglio parlare delle schiavitù, al plurale: dai pregiudizi sessuali e sociali ai persecutori interni (o sensi di colpa), a imbrigliarci oggi sono reti invisibili, spesso accomodanti e vischiose. «Il tempo, per esempio — commenta Rav Benedetto Carucci Viterbi, studioso di ermeneutica ebraica —.
Per continuare:
http://www.corriere.it/cultura/14_settembre_07/chiacchiericcio-che-rende-schiavi-052370ee-3689-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml
Video
SALVATORES: “ITALY IN A DAY È UNA SEDUTA DI PSICOANALISI COLLETTIVA”
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http://www.corriere.it/cultura/14_settembre_07/chiacchiericcio-che-rende-schiavi-052370ee-3689-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml
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SALVATORES: “ITALY IN A DAY È UNA SEDUTA DI PSICOANALISI COLLETTIVA”
di Redazione, huffingtonpost.it, 2 settembre 2014
Lacrime e applausi di un pubblico entusiasta e commosso hanno accompagnato i titoli di coda della proiezione di ‘Italy in a Day’, esperimento di film collettivo curato da Gabriele Salvatores. Il doc del regista, film fuori concorso presentato oggi alla 71esima mostra del cinema di Venezia, è la versione italiana di un’idea realizzata da Ridley Scott. Teresa Marchesi ha intervistato il regista italiano per noi.
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
Lacrime e applausi di un pubblico entusiasta e commosso hanno accompagnato i titoli di coda della proiezione di ‘Italy in a Day’, esperimento di film collettivo curato da Gabriele Salvatores. Il doc del regista, film fuori concorso presentato oggi alla 71esima mostra del cinema di Venezia, è la versione italiana di un’idea realizzata da Ridley Scott. Teresa Marchesi ha intervistato il regista italiano per noi.
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