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Settembre 2014 II – Delitto e desiderio

22 Set 14

A cura di Luca Ribolini

L’INGANNO NELL'AMORE, KIERKEGAARD E LA TECNICA PSICOANALITICA
Intervista di Giovanni Callegari a Luigi Campagner, lunipsi.com, 8 settembre 2014
 
Luigi Campagner, ha recentemente pubblicato L’inganno nell’amore. Le figure della seduzione in Kierkegaard. L’approccio di uno psicoanalista. Un libro sul fidanzamento di Søren Kierkegaard con Regine Olsen, ricco di spunti e molto stimolante anche sul versante della tecnica psicoanalitica. La Prefazione è di Giacomo B. Contri. Editore Odon, Milano.
Innanzi tutto il transfert. Come definirebbe oggi la gestione del transfert in un percorso analitico? Anche in riferimento a quanto emerge dal comportamento di Kierkegaard nel fidanzamento con la giovane Regine?
Rispetto a Kierkegaard il primo richiamo al transfert viene dall’aver pensato al famoso episodio del fidanzamento e della rottura del fidanzamento con Regine, non tanto come un “appuntamento mancato”, ma come un programma, antagonista al regime dell’appuntamento, nel quale vige l’imperativo negativo: deve accadere niente! Transfert è il nome di un legame, o meglio il nome di un affetto, sapendo che gli affetti non sono univoci, ce ne sono di positivi e di negativi. Credo che la metafora che meglio esprime il transfert sia stata colta dalla Ford, l’azienda di automobili, che ha pensato bene di chiamare un mezzo di trasporto con questo nome. Il transfert, nell’analisi, è portare qualcosa a qualcuno, a partire dal portare sé stessi all’appuntamento. Fin tanto che c’è analisi, c’è questo trasporto di materiali a qualcuno, affinché vengano trasformati in un lavoro a due. Il caso del transfert negativo, cioè dell’obiezione a questo rapporto è quello che è intravedibile in Kierkegaard nei confronti di Regine, che viene convocata ad un trasporto amoroso con l’inganno perché, questo trasporto amoroso è finalizzato a “far accadere nulla”, ovvero all’annullamento della pulsione, attraverso l’annullamento della meta. Nel libro, ho fatto un cenno all’attenzione che l’analista deve avere sull’inganno che può essere portato in seduta da chi si presenta all’appuntamento con il solo scopo di dimostrare a sé stesso e al mondo dei suoi rapporti che comunque non accade nulla, non ci riesce neanche l’analista. Pur concedendo un numero (limitato) di errori, l’analista dovrebbe essere in grado di non cominciare l’analisi con un paziente che abbia questo tipo di ambizione.
Quindi che tipo di legame affettivo mette in atto Kierkegaard?
L’affetto predominante in Kierkegaard è la melanconia. Oggi la melanconia è misconosciuta, quindi è molto più pericolosa. Essendo stata estromessa dall’ambito della psicologia, perché non esiste né nel manuale diagnostico PDM né nel DSM, questa patologia difficilmente trattabile, diventa ancor più pericolosa. Nella definizione di Kierkegaard la melanconia è un’esistenza ante acta, cioè un’esistenza astinente per principio, da ogni atto, da ogni comportamento, da ogni iniziativa e proposta di qualche cosa di positivo, perché comunque sarebbe un fallimento. La melanconia è la rinuncia a priori, anche al semplice tentativo, perché la riuscita non è possibile, è una non ricerca giustificata dall’assenza della meta. Il contrario della frase di Giovanni Gastel, il noto fotografo di moda: “Sono sempre andato alla ricerca di qualcosa di nuovo”, “Essendo certo che l’avrei trovata”. La melanconia, come psicopatologia, è la percezione che qualcosa per il soggetto è accaduto, ma solo nel passato, il melanconico è un uomo o una donna senza futuro, perché non accadrà più nulla di significativo. È una vita totalmente sbilanciata nel ricordo. In Kierkegaard questo diventa un’attitudine: trasformare ogni istante dell’esperienza in ricordo. In lettera morta. La rimozione in Kierkegaard non ha la forma della dimenticanza, ma del ricordo. Kierkegaard avvolge ogni istante dell’esperienza nel velo del ricordo.
Il “caso clinico” Kierkegaard lo possiamo ritrovare nella modernità? Oggi ci sono casi clinici di questo genere?
Principalmente lo troviamo capovolto, non nella forma del divieto astinente impostato del super-io censore messa in luce da Freud, ma in quella dell’istigatore “osceno e feroce” di cui ha parlato Lacan. L’attualità di Kierkegaard sta tutta nel fatto che l’instabilità che avrebbe prodotto il capovolgimento è già presente. Per questo nell’introduzione ho affermato che il progetto di Kierkegaard con Regine è speculare a quello di Sade con Eugenie, l’eroina porno libertina de La Philosophie dans le boudoir. Credo che un melanconico tout court come era Kierkegaard, non avrebbe cercato un analista e, se lo avesse cercato, sarebbe stato solamente per dimostrargli che il suo per era un caso di natura eccezionale. Questo fa parte della teoresi di Kierkegaard che teorizza il singolo come un’eccezione, come uno che è costantemente fuori da ogni norma, niente fa al caso suo.
Allora il transfert diviene un veicolo fondamentale per posizionare l’analista in merito alla patologia dell’analizzante?
Mi è capitato di sentire (o leggere) G.B. Contri, dove informa di aver accettato una domanda di analisi da una persona che aveva letto un suo articolo sulla melanconia… Peraltro, l’immagine della Melanconia di A. Dürer fa parte del Logo di Studium Cartello (ora SAP – Società Amici del Pensiero – S. Freud)
Cosa rappresenta?
Rappresenta una donna abbandonata a sé stessa, dominata da quella che i medioevali avrebbero chiamato “accidia”. Al suo fianco c’è una clessidra. È una donna senza tempo, perché il tempo ha senso solo se accade qualcosa, quindi è una donna a cui non accade più nulla. Per azionare il tempo della clessidra ci vuole un atto, devi girarla, se compi un atto, non hai tempo, non determini il tempo. Riprendendo l’esempio di Contri, se un melanconico si riconoscesse malato di quel malessere, allora l’analista potrebbe riconoscergli il merito di aver compiuto un atto dove si riconosce sofferente, malato di quella specifica patologia. A questo punto potrebbe prenderlo in analisi.
Nel libro gli accostamenti di Kierkegaard con Freud e Lacan sono numerosi. Può approfondire queste coraggiose connessioni?
A mettere Kierkegaard sul campo psicoanalitico è stato Lacan, che lo commentato più volte. I nessi con Freud sono venuti di conseguenza. Kierkegaard è stato bravo in una cosa, perché ha descritto un triangolo, che poi viene ripreso anche da Lacan: la donna è la donna del padre. È il triangolo Freudiano commentato anche da Contri che (come spesso gli accade) mette lo cose coi piedi per terra: mia madre è la donna che ama mio padre. Ma è un Kierkegaard già supplentato da Lacan, nel senso che Kierkegaard afferma di non aver avuto accesso alla donna per un ostativa del padre, che lo avrebbe inchiodato alla posizione melanconica. Ora tutta la vicenda personale di Kierkegaard è una vicenda di sterile ribellione, al rigore del padre. Nel libro, ho richiamato il passaggio in cui Freud parla “dell’obbedienza posticipata…”
Perché sterile? In fondo la sua era un ribellione giusta?
Sterile perché non arriva mai a fare la propria strada, lasciandosi il genitore alle spalle. Invece ne fa un totem, anche nel senso di crearsi una giustificazione inconscia: lui non vuole, io non posso. Al massimo posso trasgredire. Kierkegaard non perviene alla soluzione che era stata già di Francesco d’Assisi: “non ti chiamerò più padre”. Nella patologia accade spesso così: non solo non si trovano soluzioni, ma non si riesce neppure a trarre vantaggio dalle soluzioni già pensate da altri. Kierkegaard resta fissato ad una ribellione e, dopo la morte del padre, fissato ad un’obbedienza posticipata. Per cui, ad es., la laurea in teologia presa successivamente alla morte del padre, quando nessuno si sarebbe mai aspettato che lui si laureasse. Il suo non laurearsi era una forma di ribellione. Fin tanto che il padre è restato in vita non gli ha dato la soddisfazione di laurearsi in teologia. Quando è morto, invece, si fissa alla teologia, occupandosi solo di questioni religiose. Ricalcando così le orme del padre, che alla nascita di Søren già non si occupava più di affari, ma solo di questioni religiose. Questa forma di ribellione, Kierkegaard la ostenterà anche nei confronti del “grande Altro”, come direbbe Lacan, nel senso che la ostenta nei confronti della società, perché non accede ad una professione, non accede ad un’associazione, non accede ad un circolo né politico, né letterario, né religioso. In un gioco “per versi diversi” nega ogni forma di socialità, perché Kierkegaard eccitava un interesse, da parte di molti attori, sia religiosi che politici che dell’arte. Eccitamento che mandava costantemente deluso, come ben sapevano i redattori del Corsaro, il giornale progressista che finirà col prenderlo di mira con le famose caricature.
Nel rapporto col padre trova centrale l’elemento fissazione?
La fissazione è il quarto elemento della psicopatologia, aggiunto da Giacomo B. Contri alla triade Freudiana: inibizione, sintomo, angoscia. La fissazione tiene assieme i primi tre elementi. Li cementifica, fissandosi sull’agente patogeno. La dipendenza patologica nei confronti del padre sta anche nel fatto che Kierkegaard non diventa mai autonomo. Un’ulteriore elemento della sua fissazione nei confronti del padre è la sua dipendenza economica, per cui vive delle risorse paterne fino alla fine, quando finiscono le risorse paterne, quando si estingue il patrimonio lasciatogli dal padre, anche Kierkegaard muore. Questo dramma Kierkegaard lo rappresenta di continuo, nelle figure di Abramo con Isacco, nel suo rapporto con Regine, ma anche nella dialettica tra Don Giovanni e Leporello e in quella tra Don Giovanni e Donna Elvira. Di Donna Elvira dice di non saper definire meglio il suo rapporto con Don Giovanni se non come un “odio amoroso”. Pur scrivendo il Don Giovanni, un opera impareggiabile, Kierkegaard si identifica con Donna Elvira: con la vittima della seduzione, così come nel dramma di Abramo e Isacco si identifica con Isacco. La statura di Kierkegaard sta nel fatto che la posizione di eccezione, che lo fa stare da solo, è una posizione, radicale, di critica sociale. Critica di una società in cui aveva creduto. Ora non gli stava bene nulla. Diversamente da quanto era successo ad altri nella storia, ad esempio gli eremiti (Antonio d’Egitto o allo stesso Francesco d’Assisi), che si sono radicalmente dissociati da una società e da una civiltà, però ne hanno generata un’altra su basi differenti, la sua posizione è sterile: non crede che la società e la civiltà siano riformabili, né al livello dell’individuo né della polis. Mi sono laureato con una tesi su P. J. Proudhon, (l’autore de La proprietà è un furto), un socialista utopico contemporaneo a Marx, che era noto come “picconatore” per la veemenza della sua critica e la radicalità delle sue tesi. Con tutto ciò, Proudhon aveva un ideale sociale positivo, una forma di legame che avrebbe voluto realizzare. Era utopistico, però lo aveva. In Kierkegaard questo ideale è l’annichilimento della pulsione, quindi non c’è una meta positiva alla quale la civiltà potrebbe arrivare. Tuttavia trovo che confrontarsi con il radicale anticonformismo di Kierkegaard sia moto utile alla psicologia e alla psicoanalisi che vengono intese come strumenti per perfezionare il conformismo sociale. O per rammendarne gli strappi, dimenticando che la psicopatologia, che è pensiero, contiene un istanza di protesta e di libertà, che portare a meta, concludendo una ri-forma personale e civile, e compito dell’analisi.
La sua pratica psicoanalitica quanto può motivare i suoi interessi culturali e filosofici che possono esulare dalla clinica? La ricerca su uomini come Eichmann e Kierkegaard di quale sue competenze analitiche si avvale?
Il mio interesse è per il pensiero. Il proprio della psicoanalisi in cui mi riconosco, è rifiutarsi di distinguere il pensiero (p piccolo) dalla Cultura (P grande) e di trattare il pensiero del bambino e del singolo paziente alla stregua del pensatore di rango (e viceversa). Il vantaggio della psicoanalisi, che è pensiero, rispetto alla filosofia, che è pensiero, è dato da una distinzione, perché la psicoanalisi si occupa di una patologia del pensiero, il cui soggetto è il corpo e i cui effetti, come sintomo, andremo a trovare nel corpo. Tuttavia non è una patologia del corpo, bensì del pensiero che – come Contri ha tradotto la pulsione – elabora la legge del moto del corpo. Il vantaggio della psicoanalisi è la distinzione tra pensiero sano e pensiero malato. Nella psicopatologia l’agente patogeno non è fisiologico, ma logico. La filosofia volendo distinguere delle sezioni, quindi distinguere il pensiero teoretico dal pensiero clinico, fa sì che il pensiero teoretico, in quanto tale vada sempre bene. Invece Freud parla di Kant come di una filosofia super-egoica, Lacan rincara la dose associandolo a Sade… L’agente patogeno è a sua volta un pensiero, che "attacca" il pensiero sano sotto forma di teoria patogena. Contri ha concluso che il simbolico vada riformulato come teorie, che i simboli presenti nel pensiero, che in qualche modo lo occupano, lo tiranneggiano, sono presenti in forma di teorie. Ecco, l’inibito, cioè il nevrotico, resta soggetto a queste teorie patogene fino tanto che non riesce a svelarne l’inganno. Cosa che avviene solo sulla via della guarigione, come si direbbe, sulla Via di Damasco.
La psicoanalisi è stata definita una cura con le parole, Lacan ha aggiunto che l’inconscio è strutturato come un linguaggio con i diversi significanti e significati. Lei ha detto che per Contri il significante si "articola" in teorie…
Secondo Contri significante significa: cretino! Nel senso detto prima, della teoria che non viene svelata come tale. Nel libro ho riportato Roland Barthes, su cui Contri fece una tesi in Francia, che assimila il linguaggio al fascismo, pensiero perfettamente in linea con il simbolico lacaniano. Il soggetto riceve un linguaggio con dei simboli e dei significati. Nell’ipotesi strutturalista, che è quella dove, prevalentemente si muove Lacan, il soggetto non avrebbe alcuna facoltà di divincolarsi da questo involucro nel quale nasce. Ciò configura una sorta di alienazione primaria nel linguaggio stesso. Nell’idea di Contri c’è la possibilità di riesaminare la “trasmissione”, passandola così a “eredità con beneficio di inventario”, di lasciar cadere il patologico, di salvare il salvabile, e su questo elemento costruire un nuovo edificio. In analisi non si tratta semplicemente di andare a riprendere qualche cosa del passato, ma di costruire qualcosa nel futuro. Il bambino sano non equivale all’adulto sano, perché per quanto l’adulto guarito riscopra qualcosa di sé bambino, questa sua ripresa di consapevolezza deve essere giocata nella dimensione della vita adulta, che non ha niente a che fare con la dimensione della vita infantile.
Non è troppo ottimistico? Lacan ad esempio, relativizzava la guarigione?
E faceva bene, perché ciascuno guarisce a modo suo. La guarigione è sempre relativa… Però c’è un punto dirimente, se siamo alienati nel linguaggio come ne usciamo? Anzitutto siamo interni a una conquista, non ha una perdita, a un’acquisizione, a un progresso, a una civiltà…ma soprattutto il linguaggio è un prodotto del nostro corpo, e ciascuno parte e ri-parte, da questa “esperienza elementare” del proprio copro che offre a ciascuno un accesso non mediato al “sistema binario” piacere-dispiacere. I due elementi con i quali si costruisce la civiltà. È l’esperienza primaria del corpo pulsionale che permette di muoversi nel “universale paragone” senza essere alienati, espropriati del principio di piacere individuale come principio legislativo del moto del corpo. Ci sono poi delle situazioni di deprivazione tale che possono ritrovare in certe istituzionalizzazioni come oggi giorno certe comunità per minori, dove alcuni minori possono essere stati così tanto deprivati da una eredità iniziale, che non avrebbero nessuna convenienza a riferirsi ai propri genitori. In questi casi la fissazione ad un’ideale genitoriale, costituisce una fissazione ad un’esperienza di mancanza, e quindi impedirà l’accesso ad un’esperienza minimamente soddisfacente. L’alternativa è invece di costruire nuove relazioni, senza rimanere fissati a quelle genitoriali, ma patogene dell’inizio. Nel testo fa un parallelismo tra Kierkegaard e il Presidente Schreber nel celebre testo di Freud interpretativo del testo “Memorie di un malato di nervi” dello stesso Schreber. Il caso del presidente Schreber è descritto da Freud come lo studio su un caso di paranoia. Approfondendo i testi sono emersi dei punti di contatto con quanto descritto da Freud e quanto Kierkegaard descrive di sé stesso nel Diario. Anzitutto l’aspetto della paranoia presente in Kierkegaard. Nella sua riflessione l’altro è presente come persecutore, in quanto responsabile di un eccitamento. In questo caso l’altro persecutore è la donna, che muove l’interesse, l’eccitazione. Poi, in modo clamoroso, il parallelismo si è imposto perché Schreber si rappresenta come la “prostituta di Dio” e Kierkegaard come la “concubina di Dio”. In Kierkegaard la metafora della concubina è “cosciente” mente quello di Schreber è un delirio inconsapevole. Ho cercato di anche le differenze tra la metafora utilizzata da Kierkegaard e quella utilizzata da Schreber notando che nel delirio inconscio di Schreber c’è più rapporto di quanto non ce ne sia nel “delirio consapevole” di Kierkegaard. Perché la prostituta Schreber suscita la “voluptà” di Dio, cioè dell’altro, ne provoca il desiderio e l’appagamento. Da Dio viene posseduto dandogli dei figli. In Kierkegaard questa apertura al rapporto con l’altro non si dà perché la seduzione iniziale lo esclude dal rapporto con Dio. Altri punti di contatto riguardano l’omosessualità, collegato al complesso di castrazione, dove il bambino, per dare soddisfazione al padre, per avere il suo amore, ipotizza che l’amore del padre e per il padre gli debba costare l’evirazione. È l’idea di amore come sacrificio. La fantasie di essere sodomizzato, Kierkegaard l’ha descritte in riferimento agli effetti che le musiche del Don Giovanni avevano in lui, perché sente che la musica potrebbe scatenare in lui questo tipo di inclinazione, senza che Kierkegaard sia in grado di analizzarla, come abbiamo fatto qualche passo sopra. Una delle varie configurazioni del delirio di Schreber è nei confronti del medico che lo aveva curato la prima volta verso il quale ha un trasporto omosessuale. Medico che Freud interpreta nuovamente come una figura paterna, cioè come un maggiore che lo aveva aiutato. Credo che sia interessante, perché il nocciolo di tutto è ancora il rapporto con il padre (a sua vota medico) nei confronti del quale si sente in difetto, non avendogli dato degli eredi.
Il tema del padre è ben rappresentata dalla tela del Caravaggio sul sacrificio di Abramo del figlio Isacco. Nell’appendice del suo bel testo, si parla del non sacrificio di Isacco da parte di Abramo, vuole spiegarci meglio il tema?
Se il dramma di Abramo con Isacco (e viceversa) era ancora attuale per Lacan che se ne occupa nel saggio Dei nomi del padre lo dobbiamo alla ripresa che Kierkegaard fa in Timore e tremore. Nell’indice analitico dell’opera di Freud non c’è traccia di Kierkegaard, come neppure di Abramo e Isacco. È un tema di cui mi ero già occupato, riprendendo il lavoro di Lacan sui nomi del padre” Se si ritiene che Kierkegaard mentre parla di Abramo e Isacco stia parlando della storia religiosa contenuta nella Bibbia, e soltanto di quella, ci si sbaglia, perché nella storia di Abramo e Isacco Kierkegaard iscrive la vicenda personale del rapporto col padre, il suo rapporto con Regine. Inoltre sono due figure che egli gioca criticamente contro Hegel. In chiave hegeliana, Kierkegaard osserva come sarebbe impossibile mettere come premessa all’etica un crimine, per altro così grave, com’è il l’uccisione del figlio da parte del padre. Rendendo inutilizzabile la dialettica tra Abramo e Isacco ai fini hegeliani, Kierkegaard la rende però inutilizzabile anche ai fini della fede, perché l’elemento del figlicidio rimane centrale. Da questo punto di vista, la posizione di Kierkegaard invalida sia la parte hegeliana, sia quella del credente ed è una posizione conservatrice. Kierkegaard è un conservatore: non volendo fare nulla per innovare, conserva, ed è la parte che io ho trovato interessante in un momento della storia contemporanea dove la vicinanza col mondo islamico è sempre maggiore. Il mondo islamico ha mantenuto delle festività (la festa del sacrificio) istituzionali dedicate ad Abramo, mantenendo con le figure di Abramo e Isacco, un legame molto più forte di quello che non sia stato mantenuto nel cristianesimo. Kierkegaard è molto bravo a rendere drammatiche le situazioni, quindi ad attualizzarle e a renderle anche fruibili ad un lettore contemporaneo, che diversamente si annoierebbe. Quando nel Diario, descrive la discesa dal monte Moira di Abramo ed Isacco, descrive un dramma, perché Abramo ha sì risparmiato Isacco, ma non riavrà più il suo amore, perché ha voluto ucciderlo. Ciò a cui Kierkegaard non perviene è l’idea che Abramo non sia l’uomo che accetta l’obbligo del sacrificio, ma quello che inizia un’era nella quale finisce il sacrificio. Questo è il guadagno di Freud ne “L’uomo Mosè e il monoteismo”. Nel Terzo Saggio Freud afferma che con il cristianesimo inizia la religione del Figlio e finisce quella del Padre. Questa tesi centra con tutta la questione dell’eredità. Finisce l’epoca in cui il figlio è soggetto al sacrificio impostogli dal padre, fosse anche il grande Altro di cui parla Lacan, ma inizia l’era del Figlio, ovvero è il figlio che riconosce il padre come padre. Non so se mai ci sarà una contaminazione son l’Islam, nel caso spero avvenga su questo tema.
In conclusione e concisamente, dove risiede l’inganno nell’amore?
Nel convocare l’altro al fallimento, anziché alla riuscita del rapporto.
 
http://www.lunipsi.com/Luigi%20Campagner.pdf

VORREI UN 13 FEBBRAIO CONTRO I MASCHI MALATI DI ISIS. MA IL FEMMINISMO TACE

di Marina Terragni, blog.iodonna.it, 9 settembre 2014
Forse mi è sfuggito qualcosa, ma non ho sentito voci eminenti del femminismo italiano levarsi con decisione contro gli orrori perpetrati dai criminali di Isis. C’è uno specifico sessista di questi orrori: quei criminali sono tutti uomini (salvo le poche vestali autosessiste patologiche arruolate nella Brigata al Khansaa per vessare le proprie simili), e le donne vengono trattate come prede, stuprate, uccise, vendute come schiave.
In una bellissima riflessione pubblicata sul New York Times il filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, menzionando le “orge grottesche” delle gang di Isis “a base di rapine, stupri di gruppo, tortura e uccisione degli infedeli“, parla di un “fanatismo razzista, religioso e sessista“.
Il sessismo è una componente decisiva di di questo pseudo-fondamentalismo (i veri fondamentalisti, come chiarisce Zizek, dai buddisti agli Amish, non sono violenti né risentiti). Abbiamo letto le strazianti storie di donne yazide suicide dopo essere state violentate. Il corpo della donna è ad un tempo territorio e oggetto simbolico della contesa (l’oggetto reale è sempre e solo uno: i soldi, merce delle merci). La libertà femminile è tra i principali  fattori in campo.
Eppure si esita: alle immagini delle schiave del sesso vendute al mercato di Mossul si oppone scetticismo, si parla di bufale. Sempre pronte a enumerare e stigmatizzare gli errori della politica estera americana in quei territori -errori certi, ammessi anche da Hillary Clinton-, si resta mute di fronte alla catastrofe umanitaria, al genocidio e al “generocidio”. Un malinteso multiculturalismo che ammette perfino il rispetto del jihad e della sharia, come se si trattasse di ordinari usi e costumi locali.
Propense a dare ragione alle intellettuali dell’Islam che indicano aggressivamente i problemi di noi donne occidentali, tipo “la dittatura della taglia 42″ (Fatema Mernissi), non ci permettiamo mai di opporre il fatto che, pur con i problemi che sappiamo, tutto sommato dalle nostre parti la vita delle donne è molto meno dura. La cosa ha una sua oggettività: perché non possiamo dirla? Non intendiamo in alcun modo difendere il nostro mondo: anzi, rifiutiamo di parlare di “nostro” e di “loro” mondo, e in ciò c’è senz’altro del buono. Ma in questa sororità che rifiuta la logica maschile del conflitto si radicano un’ignavia di cui ci potremmo pentire amaramente -vedi foto sopra, leggi Marjane Satrapi-, l’incapacità di leggere quello che sta capitando e di reagire opportunamente, la nostra paradossale indifferenza verso la condizione tragica di quelle sorelle.
Io spero ardentemente che i criminali di Isis, mossi, come dice Zizek, dall’invidia “verso lo stile di vita dei non credenti”, “profondamente infastiditi, incuriositi ed affascinati” dalla nostra peccaminosa civiltà, vengano al più presto distrutti. E se dipendendesse da me, vorrei un altro 13 febbraio, un milione di donne in piazza contro la ferocia di quei maschi malati, femminicidi, generocidi.
Qualcuna mi convinca del fatto che sto sbagliando.
http://blog.iodonna.it/marina-terragni/2014/09/09/vorrei-un-13-febbraio-contro-i-maschi-malati-di-isis-e-invece-il-femminismo-tace/

SCALFARI: IL DESIDERIO È TUTTO, MA L’ITALIA HA SMESSO DI SOGNARE. L’immaginario e le derive del Paese secondo il fondatore di Repubblica. “L’uomo contemporaneo è schiacciato sul presente. E rifiuta di conoscere il passato. “Esiste una società responsabile che ha a cuore il bene pubblico. E poi ci sono mafie e lobby”. “De Gasperi fu lo statista che più di tutti capì le aspirazioni di una comunità che cambiava”

di Simonetta Fiori, la Repubblica, 11 settembre 2014
“Vivere è essere un altro”, scrive Pessoa nel Libro dell’Inquietudine. Bisogna evitare la monotonia, perché sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire ma ricordare. Pessoa e la sua sinfonia di “doppi” ci conducono nello studio-mansarda di Eugenio Scalfari, che al desiderio ha dedicato gran parte dei suoi bellissimi libri. “Si muore desiderando”, dice Scalfari. “Quando si esaurisce il desiderio, che può essere quello di sopravvivere o di morire dolcemente, si chiudono le palpebre”.
Il desiderio è la vita, in sostanza?
“E’ il termometro che misura la vitalità. Per la gran parte del tempo Oblomov vive ma non è vitale, perché non ha desideri. Solo dopo che gli entra in circolo una pulsione più forte riesce a battere la sua inerzia”
Tu lo fai discendere da Eros.
“Sì, Eros è il Signore dei desideri. La tarda mitologia lo battezzò dio dell?amore, riducendolo a paggetto della madre Afrodite, il cupido che con la freccia colpisce il cuore. Ma per una più antica mitologia che risale a Esiodo è una divinità primigenia che domina gli dei e gli uomini, suscitando il desiderio e l’entusiasmo del desiderio. Desiderio d’amore e di potere, desiderio di forza o di ricchezza. Desiderio di sopravvivenza. È Eros che ci dà il senso di cui abbiamo disperato bisogno”.
Ti posso fare una domanda molto personale? Tu hai indagato la tua vita psichica in molte pagine dei tuoi libri. Ma hai mai pensato di farti aiutare da uno psicoanalista?
“Sì, l’incontro avvenne tardi, verso i quarant?anni. Prima ero persuaso che l?’analisi fosse una cosa assurda. Ne ridevo con Simonetta, la mia prima moglie: “ma quelli sono matti, vanno lì a raccontare i loro sogni”. Poi però ho conosciuto il senso di colpa. Amavo profondamente e in modi diversi due donne che erano molto diverse. Al principio credevo di non fare del male a nessuno, poi però cominciai a tormentarmi, pensando anche alle mie figlie. Allora nacque il complesso di colpa. E cominciò quel viaggio dentro di me che credo ciascuno di noi debba fare. Anche di questo, del senso di colpa e del viaggio interiore che ne è scaturito, sono debitore a Serena, la mia attuale moglie”.
Ma ne parlasti con uno specialista?
“Ebbi un solo colloquio con un’analista che mi diagnosticò una nevrosi. Tutti abbiamo delle nevrosi, mi disse. Uno squilibrio costante, che può oscillare di intensità ma la sua natura rimane la stessa. La mia nevrosi era di tipo paternale. Le avevo raccontato che, quando arrivavo all’Espresso, mi accorgevo subito dei musi lunghi. E io non volevo musi intorno a me. Così chiamavo le persone nella mia stanza e risolvevo i conflitti. Siate allegri, dicevo, perché senza allegria io non riesco a lavorare”.
E la psicoanalista come ti curò?
“Decise di non curarmi. Se io la curo, mi spiegò, smonto uno degli assi portanti intorno a cui lei ha costruito un giornale che è indispensabile per l’opinione pubblica italiana. Quindi io preferisco lasciarla con la sua nevrosi”.
Le dobbiamo essere riconoscenti.
“Altri mi dicono: un’incapace. Io naturalmente non aspettavo altro e le dissi che avrei fatto da me. Lei mi mise in guardia: va bene, ma come tutti lei tenderà a giustificare. Vede lo squilibrio e dunque il danno che può derivarne, però tenderà a giustificarli. L’autocoscienza è giustificativa, Narciso messo a posto. Per me fu un incontro utilissimo, da allora l’autoanalisi continuo a farla ogni giorno. So che ho un Narciso molto forte, ma almeno io lo so, a differenza di molti altri che ce l’hanno più grande di me, ma negano di averlo”.
Desiderio d’amore e desiderio di potere, hai detto prima. Per te il secondo ha rappresentato la volontà di incidere sulla vita pubblica del paese favorendone la crescita civile. È un desiderio appagato?
“Per alcuni aspetti, sì. Esiste una società responsabile, che ha a cuore il bene pubblico. Ed esiste una società irresponsabile che insegue il bene proprio e della propria famiglia: è il paese delle mafie, anche quello delle lobby e delle clientele. Mi sento appagato per il fatto che quel tipo di società che definisco responsabile è stata orientata dai giornali che ho contribuito a fondare, si è riconosciuta nella nostra voce e noi ci siamo riconosciuti in lei. Perché tra i giornali e il loro pubblico c’è un’appartenenza reciproca: loro appartengono a te, ma tu appartieni a loro. Quest’Italia responsabile, con il primo governo Prodi, è divenuta anche maggioritaria: il giorno della vittoria elettorale Prodi mi ringraziò per il sostegno ricevuto, ma io ringraziai lui perché era stato il primo a vincere. Poi tutto questo s’è sfasciato. Oggi mi dicono che sono troppo antirenziano, ma quello che vedo non mi piace per niente”.
Tu hai uno sguardo che copre svariati decenni: come sono cambiati i desideri degli italiani?
“Mah, il loro motto potrebbe essere quello del Razzi interpretato da Crozza: “fatti li cazzi tuoi”. Non è il desiderio solo degli italiani, ma gli italiani più degli altri considerano lo Stato un ingombro. Perché Berlusconi ha avuto successo? Perché ha detto: di politica mi occupo io, e voi fate quello che vi pare. Con un’unica eccezione: “i principi non negoziabili” della Chiesa. In una congiuntura favorevole, Berlusconi è stato il leader che ha interpretato meglio il desiderio degli italiani”.
E lo statista che ha saputo tenere alte le stelle del desiderio?
“Lasciamo stare le stelle, anche se Alcide De Gasperi da cattolico conosceva bene il cielo stellato. Stranamente nessuno oggi ricorda più ciò che scrisse a proposito del Senato della Repubblica: affiancato con pari poteri alla Camera, rappresentava il meglio per la democrazia. Neppure il presidente Napolitano l’ha ricordato, in occasione del recente dibattito. Perché non citiamo mai De Gasperi? Seppe rappresentare un paese sconfitto con grandissima dignità. Ed ebbe un ruolo nella costruzione dell’Europa. Al quinto anno di governo fu fatto fuori”.
Fu il dopoguerra un momento in cui gli italiani seppero desiderare in grande?
“Gli italiani facevano la ricostruzione, delle proprie cose ma anche delle cose nazionali. Oggi l’Istat paragona la nostra attuale deflazione a quella del 1959, ma non dice una cosa importante: che allora l’Italia era prossima al miracolo economico. Poco dopo sarebbe esploso il boom, più tardi vanificato da una classe politica che accresce il debito pubblico e da una classe imprenditoriale che prende i profitti ma senza reinvestirli, trasformando pian piano l’industria in finanza e costruendosi i patrimoni all’estero. Prima però c’era stato il miracolo italiano, che porta il nome di Guido Carli. Sono anni che ho vissuto: posso dire che erano molto diversi dagli attuali”.
Oggi trionfa “l’uomo senza desiderio”, come l’ha definito Massimo Recalcati, ossia schiacciato sul consumo compulsivo e privo di futuro.
“Sì, ne parlai con Recalcati, che mi disse che aveva preso questa idea dai miei libri e io ne fui felice. L’uomo contemporaneo è schiacciato sul presente. E rifiuta di conoscere il passato. Da tremila anni ogni generazione modifica o cerca di modificare le idee portanti e i valori della generazione precedente. Li modifica, ma li conosce: solo così è in grado di programmare il futuro. Poi ci sono momenti rivoluzionari in cui i valori vengono cambiati radicalmente, non solo aggiornati, ma sempre nella conoscenza degli ideali precedenti. Non era mai accaduto che le generazioni non volessero sapere niente dei padri”.
Una domanda più personale. Come si coltiva il desiderio quando i margini temporali davanti a sé si restringono?
“Posso risponderti con i miei desideri. Mi piacerebbe scrivere un romanzo che ha come protagonista il mio doppio. Ho in mente il Libro dell’Inquietudine, dove ogni doppio di Pessoa si riproduce in un altro doppio”.
Vivere è essere un altro, scrive Pessoa.
“Io sono affascinato da questo gioco della duplicità ma anche triplicità e quadruplicità del se stesso. E qualcosa di simile c’è nei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Penso al Malte bambino che mentre è a tavola con il padre assiste all’improvvisa comparsa di una figura enigmatica che sbuca dall’oscurità. E penso alla morte spettacolosa del nonno ciambellano, così rumorosa che la si udì fin dalla fattoria. Voleva essere portato incessantemente da una stanza all’altra, con tutto il corteo di domestici, cameriere e cani ululanti. Pretendeva e urlava, scrive Rilke, svegliando tutto il villaggio. Una morte principesca e terribile”.
L’idea del doppio contiene in sé una sfida: il superamento del limite, che è poi quello che hai praticato nella tua vita che ne contempla diverse: il fondatore di giornali, il protagonista politico, il pensatore, il romanziere. Desiderare è sfidare?
“Non è un caso che la parola sfida compaia nel titolo di uno degli ultimi libri: L’amore, la sfida, il destino. Ma la doppiezza ora voglio raccontarla in un romanzo. L’altra cosa che mi piacerebbe è trovare una modalità poetica. Alla fine però non riesco a concludere niente: sono troppo pieno di cose da fare”.
http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/scalfari-psicoanalisi-non-fa-caldo-freud-analista-decise-84312.htm

LA CONFESSIONE DI SCALFARI: “SONO ANDATO DALLO PSICOLOGO E…”

di Redazione, liberoquotidiano.it, 11 settembre 2014
“Il mio giornale è basato sulle mie nevrosi”. Dopo 40 anni arriva la confessione choc di Eugenio Scalfari. In un’intervista a Repubblica,Barbapapà parla del suo rapporto con lo psicoanalista che avrebbe dovuto curarlo qualche anno fa. In un lungo colloquio con Simonetta Fiori, il fondatore di Repubblica parla di se stesso e delle “debolezze psichiche” che lo hanno accompagnato durante la sua carriera. La Fiori fa una domanda diretta a Scalfari: “Hai mai pensato di farti aiutare da uno psicoanalista?”. La risposta non tarda ad arrivare: “Sì, l’incontro avvenne tardi, verso i quarant’anni. Prima ero persuaso che l’analisi fosse una cosa assurda. Ne ridevo con Simonetta, la mia prima moglie: “ma quelli sono matti, vanno lì a raccontare i loro sogni”. Poi però ho conosciuto il senso di colpa. Amavo profondamente e in modi diversi due donne che erano molto diverse. Al principio credevo di non fare del male a nessuno, poi però cominciai a tormentarmi, pensando anche alle mie figlie. Allora nacque il complesso di colpa. E cominciò quel viaggio dentro di me che credo ciascuno di noi debba fare. Anche di questo, del senso di colpa e del viaggio interiore che ne è scaturito, sono debitore a Serena, la mia attuale moglie”.
La confessione – “A questo punto arriva la confessione su quel filo che unisce le “nevrosi” di Scalfari e il suo quotidiano: “Ebbi un solo colloquio con un’analista che mi diagnosticò una nevrosi. Tutti abbiamo delle nevrosi, mi disse. Uno squilibrio costante, che può oscillare di intensità ma la sua natura rimane la stessa. La mia nevrosi era di tipo paternale. Le avevo raccontato che, quando arrivavo all’Espresso, mi accorgevo subito dei musi lunghi. E io non volevo musi intorno a me. Così chiamavo le persone nella mia stanza e risolvevo i conflitti. Siate allegri, dicevo, perché senza allegria io non riesco a lavorare. Decise di non curarmi. Se io la curo, mi spiegò, smonto uno degli assi portanti intorno a cui lei ha costruito un giornale che è indispensabile per l’opinione pubblica italiana. Quindi io preferisco lasciarla con la sua nevrosi”. Traduzione: il quotidiano di Scalfari secondo lo psicoanalista sarebbe frutto delle sue costanti nevrosi. E a giudicare dall’ossessione anti-Cav degli ultimi 20 anni, forse una cura sarebbe stata opportuna…
 
http://www.liberoquotidiano.it/news/personaggi/11688192/La-confessione-di-Scalfari–.html

 

GLI INSEGNANTI CHE NON DIMENTICHIAMO. Ne parleranno Paolo Giordano e Massimo Recalcati al Festival della Comunicazione. A VanityFair.it hanno anticipato qualcosa. E voi, quali maestri ricorderete?

di Francesca Bussi, vanityfair.it, 12 settembre 2014
Dice un antico proverbio buddista che il maestro arriva solo quando l’allievo è pronto. Si può aggiungere che, comunque e in qualsiasi momento arrivi, è destinato a lasciare un segno. Nel bene e nel male. Ci sono molti modi di insegnare: lo si può fare da dietro una cattedra o semplicemente accorgendosi che l’allievo è pronto per imparare. Non serve essere professori per essere maestri. Paolo Giordano e Massimo Recalcati parleranno di questo al Festival della Comunicazione, la cui prima edizione si tiene a Camogli dal 12 al 14 settembre. Gli insegnanti che non dimentichiamo è il titolo del loro incontro (14 settembre, ore 11 piazza Ido Battistone), e ne hanno scritto per VanityFair.it.
«Avevo un insegnante privato di chitarra, si chiamava Fabrizio. Quando venne a casa la prima volta, io avevo sette anni e lui non più di diciassette. Vidi la sua chioma bionda e permanentata nel monitor del citofono. Assomigliava a Joey Tempest, era un rocker d’altronde, e quelli erano gli anni di The Final Countdown. Passai la prima ora di lezione a ridere da dietro le sue spalle come uno sciocco. È stato il mio maestro per dieci anni, e il migliore di tutti. Non forzava mai la mano e non mollava mai, assecondava il mio gusto musicale in pieno divenire. Mi accompagnò a comprare la prima chitarra elettrica e mi portò ai concerti insieme ai suoi amici, quando ero ancora un bambino. Parlava loro di me come di una giovane promessa, benché non lo fossi davvero. Fu lui, un giorno, a dirmi che ormai mi aveva dato tutto ciò che poteva e che per migliorare avrei dovuto cambiare insegnante. Mi si spezzò il cuore, ma ubbidii. Ci salutammo come al termine di una lezione qualunque. Lo rividi solo molti anni dopo, di sfuggita davanti a un ascensore. Io ero un mezzo adulto, gli Europe non esistevano più, e lui si era tagliato i capelli.» Paolo Giordano
«Gli insegnanti che non dimentichiamo sono quelli che hanno saputo testimoniare. Su cosa? Su di una promessa. Sulla promessa che anima, o dovrebbe animare, ogni Scuola degna di questo nome. Quale promessa? La promessa della cultura e del linguaggio come possibilità di allargare l’orizzonte del nostro mondo e di farci intravedere altri mondi. L’incontro con la Scuola non è l’incontro con una azienda – sebbene si stia facendo di tutto per trasformare la Scuola in un’azienda – ma è l’incontro con la cultura come apertura di mondi. Non riusciremo mai a misurare il miracolo dell’apprendimento dell’alfabeto o dei numeri in un bambino. Gli insegnanti che non abbiamo mai dimenticato sono quelli che ci hanno fatto scoprire mondi di cui non immaginavamo l’esistenza. Possiamo aver dimenticato i contenuti che ci hanno trasmesso, ma ricordiamo perfettamente il loro stile, il modo in cui insegnavano. In altre parole, non abbiamo dimenticato il loro amare il sapere che trasmettevano. Ecco cosa intendo per testimonianza : un insegnante che ha saputo “lasciare il segno” (è l’etimologia del verbo “insegnare”) è colui che ha incarnato il proprio amore verso ciò che ha insegnato. È, infatti, solo l’amore per il sapere che rende possibile una trasmissione vitale del sapere.» Massimo Recalcati
http://www.vanityfair.it/news/italia/14/09/12/festival-della-comunicazione-paolo-giordano-massimo-recalcati-insegnante

È USCITA L’AUTOBIOGRAFIA DI GARY SHTEYNGART, LO SCRITTORE RUSSO PIÙ DIVERTENTE D’AMERICA

di Giuseppe Fantasia, huffingtonpost.it, 12 settembre 2014
 
Ci ha fatto ridere, come solo lui sa fare, raccontandoci le disavventure degli immigrati russi in Europa e in America nei suoi libri bestseller (Il manuale del debuttante russo; Absurdistan; Storia d’amore vera e supertriste) tradotti in ventotto lingue. Sto parlando di Gary Shteyngart, vero e proprio fenomeno editoriale negli Usa e non solo dove anni fa è stato segnalato dal New Yorker come “uno dei migliori scrittori americani under 40″. Eterno ragazzo – anche oggi che di anni ne ha quarantadue, insegna alla Columbia University e ha una bambina avuta dalla compagna coreana – ha deciso di regalarsi e di regalare al suo pubblico di affezionati la sua autobiografia, Mi chiamavano piccolo fallimento che in Italia, come gli altri suoi libri, è stata appena pubblicata dalla casa editrice GUANDA. Little Failure(che poi è il titolo originale del libro) è il soprannome che gli avevano dato i suoi genitori quando era piccolo, alternandolo a “Failurchka”, in un misto tra russo e americano . Profondamente conservatori come la maggior parte degli ebrei sovietici, volevano che divenisse avvocato, ma lavorare in uno studio legale“richiedeva grande attenzione ai dettagli, molta più attenzione di quanta ne potesse garantire un giovanotto nervoso con la coda di cavallo, un problemino di abuso di sostanze psicotrope e una spilla a forma di foglia di marijuana sulla cravatta con finto nodo“.
Non ne volle sapere della professione forense e dopo gli studi all’Oberlin College – uno dei primi degli Stati Uniti ad ammettere studenti afroamericani, nonché i primo a laureare una donna – e dopo la laurea con lode, decise di diventare uno scrittore. La laurea migliorò il suo status agli occhi dei suoi genitori, ma quando parlava con loro si dava per scontato che era comunque “una delusione”“Volevo diventare uno scrittore e ancora non ci credo che sia stato possibile, è accaduto tutto molto in fretta, mi è andata bene”, mi ha detto quando l’ho incontrato a Mantova, in occasione della diciottesima edizione del Festivaletteratura, di cui è stato uno degli ospiti più attesi ed applauditi.
Scrivere per lui è stata una sorta di via di fuga per non essere più un ignorato e un isolato, dai suoi compagni di classe come dal resto della società americana. Un Paese, l’America, e una città, New York (dove si è trasferito con la famiglia quando aveva sette anni), da lui amata e odiata, ma che oggi è la sua casa. Aveva problemi non tanto con il suo nome – Igor – ma con il suo cognome, Shteyngart, un nome tedesco segnato da un’insana trascrizione sovietizzata, “da un ingorgo di consonanti che fa venire le lacrime agli occhi: basta una i fra la h e la t per ottenere un simpatico shit”. “Non è stato semplice farsi accettare – mi ha detto – ero un bambino brutto con problemi d’asma e sempre pronto a fare battute taglienti, ma in classe, nonostante fossi considerato uno sfigato, ero comunque oggetto di attenzione dei miei compagni, perché (come scrive anche nel libro, ndr) l’unico stereotipo utile nell’essere ebrei è lo humour.
 
Dalla sua aveva l’amata nonna, giornalista e direttrice a Leningrado Sera, che per prima appoggiò il suo amore per la scrittura. Sapeva “quello che ogni buon direttore deve sapere, ossia non ordinare semplicemente ‘scrivi!’ ai propri sottoposti”. Si sedevano alla scrivania insieme e gli dava un pezzetto di formaggio sovietico giallastro, “per lei un modello di scambio, una merce in cambio di parole”, ogni pagina un pezzetto, ogni capitolo un tramezzino con burro e formaggio. Scrisse un primo racconto, ‘Lenin e la sua oca magica’, in cui manifestò tutto il suo amore per Lenin, di cui rimase colpito sin dalla prima volta che lo vide sotto forma di statua. “Adoravo mia nonna e lei mi amava più di quanto la Madonna del Granduca amasse suo Figlio, e quando andavo da lei dopo la scuola, il suo affetto si esprimeva attraverso un processo di rimpinzamento che durava tre ore”. In più, i nonni avevano un televisore e il loro bilocale rappresentava per lui “un regno di meraviglie”.
Con i libri precedenti, ma soprattutto con Mi chiamavano piccolo fallimento, Shteyngart ha avuto la sua rivincita, nei confronti del suo Paese d’origine, la Russia (“ci costrinse alla fuga”), del Paese attuale, l’America, “che si vanta di accogliere tutti, ma poi non è così semplice come vogliono far credere”. Vi arrivò nel nel 1979 dopo un’infanzia passata nell’unione sovietica, “che equivaleva a precipitare da un dirupo monocromatico e atterrare in una pozza di Technicolor puro”Mi chiamavano piccolo fallimento è un memoir ironico e profondo, ricco di parole e fotografie, molto coinvolgente, impossibile da non amare. Una rivincita dello scrittore anche nei confronti dei suoi genitori (“è difficile mettere in discussione le scelte fatte dai miei genitori durante i lunghi e strani giorni dell’immigrazione, e date le circostanze credo che per lo più abbiano agito bene”), cui il libro (come gli altri) è dedicato, ma soprattutto nei confronti di se stesso.
Nella sua vita Shteyngart è stato infatti depresso, ha abusato di droghe e di alcol e ci ha messo un po’ per riprendersi e migliorare. Un grande aiuto lo ha avuto dalla psicoanalisi (il libro è dedicato anche al suo psicoanalista). “Dodici anni di analisi con quattro sedute settimanali mi hanno trasformato in un animale razionale e insicuro, mi hanno aiutato molto”,mi ha detto. “Screditare la psicoanalisi va di moda”, è un “giusto aiuto di cui non bisogna affatto vergognarsi”, ma la consiglia a tutti a patto che venga ma in realtà è un lavoro molto duro e se vuoi farla devi crederci ed affrontarla seriamente”. Da non perdere, poi, il booktrailer del libro. Se in quello per Storia d’amore vera e supertriste c’erano lui e l’attore Paul Giamatti che fuggivano traumatizzati da un bookclub di cougars (cacciatrici mature di uomini più giovani), qui è con l’attore e produttore James Franco, suo grande amico e suo ex studente alla Columbia. Sono una simpatica coppia gay in accappatoio rosa che va in crisi quano Franco comunica a Shteyngart di avere anche lui scritto un libro sulla loro relazione sentimentale, intitolato 50 sfumature di Gary, un viaggio erotico che sbaraglierà il suo memoir. Gary se ne lamenta col suo psicanalista, impersonato nientemeno che dallo scrittore Jonathan Franzen e sarà il “Dr. Franzen” a suggerire ironico al paziente la correzione del titolo in Il piccolo narcisista. Nel video ci sono anche Alex Karpovsky, David Ebershoff, Sloane Crosley e Rashida Jones nei panni dell’addetto stampa della Randhom House. Tre minuti e mezzo tutti da ridere!
http://www.huffingtonpost.it/giuseppe-fantasia/autobiografia-gary-shteyngart-scrittore-russo-piu-divertente-america_b_5809454.html?utm_hp_ref=italy

TRADIMENTO: SI PUÒ DAVVERO PERDONARE? Di fronte a un evento di questo tipo si possono avere reazioni molto differenti. Ma è possibile andare oltre?

di Guy Pizzinelli, style.it, 12 settembre 2014
Tradimento e perdono, un tema eterno.
La parola perdono è una delle più complesse da interpretare e soprattutto da vivere. Riguarda un passaggio psicologico molto delicato, che si gioca nelle profondità di ognuno di noi. Perdonare non significa sopportare, che è quello che avviene di solito quando un tradimento da parte del partner ferisce profondamente la persona e la relazione sentimentale. Di fronte a un evento di questo tipo si possono avere reazioni molto differenti, ma se la persona tradita decide di non interrompere la relazione e di stare ancora insieme all’altro, deve riuscire a trovare il modo giusto per elaborare la situazione. Altrimenti il rischio, conseguente al tradimento, è quello di una sofferenza estenuante che nel tempo può alterare ancor più in profondità il rapporto, logorandolo e spingendo verso comportamenti che mai si sarebbero messi in atto.
Si può perdonare il tradimento? «Il lavoro del perdono è un lavoro che esige tempo», scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro Non è più come prima, e incontrato al Festival della Mente di Sarzana.
«La memoria dell’offesa viene attraversata e riattraversata al fine di raggiungere un punto di oblio che rende possibile un nuovo inizio». Quindi, sì. Per Recalcati, il perdono è non solo possibile, ma anche necessario.
Anche se poi, per lo psicanalista, questo percorso sarebbe oggi molto raro, a differenza del passato quando si perdonava quasi sempre, soprattutto quando a doverlo fare erano le nostre nonne. Mentre oggi, all’epoca dell’effimero e del cinismo, sarebbero pochi a restare indenni di fronte alla «schiavitù del nuovo, del sostituto, dell’arbitrio scambiato per libertà di scelta».
Ma perché una donna dovrebbe perdonare un tradimento?
Ecco qualche possibile ragione per perdonare:
È successo solo una volta. Magari avevate litigato, e lui, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, è finito a letto con un’altra persona. Il tuo partner è davvero dispiaciuto per l’accaduto, è depresso e farebbe qualsiasi cosa per dimostrarti il suo pentimento.
Se pensi che sia giusto almeno provare a lottare per risanare il rapporto. Se pensi di avere una relazione davvero speciale per cui vale la pena di combattere, allora meglio resistere e perdonare.
Non vuoi rinunciare alla tua relazione, specialmente se stai insieme a questa persona da tanto tempo e il vostro rapporto è sano e intimo. Scoprire un tradimento, ovviamente, metterà tutto questo in dubbio. Tuttavia, dovrai analizzare la storia nella sua totalità prima di prendere una decisione.
Non perdonare un traditore seriale. Se lo ha già fatto e avete magari figli e una vita insieme, non ne vale la pena. Forse è solo la prima volta che lo becchi in flagrante, ma in passato hai avuto dei sospetti? Probabilmente i tuoi dubbi erano fondati.
Non perdonare un tradimento se stai insieme a questa persona da poco: sarà quasi impossibile costruire una relazione solida su queste fondamenta. Per fortuna è successo prima che potessi essere ulteriormente coinvolto. Se il tradimento è segno di una relazione destinata al fallimento, non sforzarti.
A voi come sempre, comunque, la decisione su cosa fare.
http://www.style.it/sex/coppia/2014/09/12/tradimento-si-puo-davvero-perdonare.aspx

"LA SOLITUDINE DI CHI CHIEDE TROPPO A SE STESSO". L’ideale dell’io può condannare all’insoddisfazione. Perché la ricerca della perfezione rende inaccessibili agli altri

di Umberto Galimberti e una lettrice, D Repubblica, 13 settembre 2014
Ho ventidue anni. Non riesco a sentirmi in pace con me stessa. In ogni cosa mi trovo divisa tra il reale e l’ideale. Perché il mondo che vedo come nemico e che cerco di negare è anche parte di me. Mi permette di vivere nell’agio e nel piacere. Mi permette di andare all’università, di leggere, di andare al cinema, di mangiare bene. E mentre mi chiedo che cosa ci sia di così sbagliato in tutto questo, dentro di me grida la voce dell’indignazione. La consapevolezza non mi rende diversa. La triste realtà è che sogno quello che mi viene detto di sognare. Mi diverto come mi viene detto di divertirmi. Sto zitta come mi viene detto di fare. Vorrei essere magra e bella. Vorrei essere sempre al massimo. Vorrei non avere debolezze. Ho idee precise, che non metto in atto. Credo nella lotta, ma non la applico. Credo nella conoscenza, ma la tengo per me. Credo nell’amore, ma non amo. Credo nella forza del poter essere se stessi, ma provo vergogna. Rincorro con affanno un senso di appartenenza vero, di cui sento la mancanza, cercando allo stesso tempo di non conformarmi, ma fallendo ogni volta, ricadendo nel desiderio di essere come “loro”. Mi sento codarda e incoerente. Omologata e manipolata. In ogni situazione due forze ombattono con uguale intensità, senza vincitori. Così me ne sto in disparte, perdendo occasioni e non mettendomi in gioco. Rassegnata già prima di partire. Senza far sentire la mia voce. Ben attenta a non sbagliare mai. Convinta di non poter cambiare le cose, di non poter essere mai felice, di dover continuare a vivere nel compromesso. Alla fine quello che mi resta è solo amarezza. Sono io stessa una parte di quel mondo che disprezzo. Forse le ho scritto semplicemente per provare a dipanare questa matassa. Lettera firmata
Un giorno Freud prese a raccontarci una storia interessante, quando scrisse che, oltre al nostro io, esiste anche un ideale dell’io che pone l’io in uno stato di mortificazione rispetto agli ideali che vorrebbe realizzare senza riuscirci. Tutto ciò genera inquietudine, insoddisfazione e in certi casi sensi di colpa.
Ora, avere un ideale di sé è molto utile soprattutto nell’adolescenza e nella giovinezza, per non accontentarsi di quello che si è e cercare di realizzare quell’immagine di noi che ci attrae e che, se la raggiungessimo, ci farebbe sentire realizzati. Quando però l’ideale dell’io fa sentire l’io in uno stato di perenne inferiorità e insufficienza, allora l’ideale dell’io diventa persecutorio e la vita un tormento, se non addirittura una malattia, la malattia di un’identità mancata, per aver posto l’ideale dell’io troppo in alto rispetto alle nostre capacità di realizzarlo. A lavorare, sotto sotto, c’è un’istanza narcisistica che non ci consente di accettarci per ciò che siamo, se non raggiungiamo l’ideale che l’io si è prefissato.
Da questa guerra tutta interna a noi stessi, che ci divora e non ci fa mai sentire soddisfatti dell’esistenza, si esce rinunciando alla perfezione che ci si è autoimposta. Accettando la parte umbratile della nostra personalità, quella di cui non andiamo fieri, quella che vorremmo che nessuno scoprisse, quella che ci fa sentire “punti nel vivo” quando qualcuno ce la svela.
I rapporti di solidarietà, di amicizia e direi anche e soprattutto di amore non nascono dalla contemplazione della perfezione di una persona, perché la perfezione ci fa apparire inespressivi e al limite inaccessibili, come pietre preziose dietro il vetro trasparente e blindato di una gioielleria. La perfezione non facilita la relazione, e siccome degli altri abbiamo bisogno perché siamo animali sociali, rendiamoci accessibili mostrando il lato umbratile della nostra personalità, come nei quadri, dove nessuna immagine potrebbe configurarsi senza i contorni dell’ombra.
Nella disperata ricerca di una nostra identità collocata là dove i nostri ideali, tiranneggiandoci, vorrebbero che fossimo e ancora non siamo, dimentichiamo infatti che la nostra identità non possiamo costruirla da soli, perché a formarla è solo il riconoscimento che ci proviene dagli altri, esattamente come i lineamenti del nostro volto che lo specchio non ci restituisce, mentre ce li restituisce lo sguardo indifferente di un narcisista, quello feroce di un nemico, quello intenso e incantato di un innamorato. E se è vero che non noi, ma gli altri costruiscono la nostra identità, esponiamoci al mondo per quello che siamo, lasciandoci modificare da tutti gli incontri, evitando di cercare noi stessi in quella guerra inutile tra l’io e il suo ideale che ci isola dagli altri, e non ci fa approdare se non in quella terra desolata e solitaria, dove a farci compagnia è solo la nostra insoddisfazione.
http://periodici.repubblica.it/d/ (n. 906)

VINCERE LA PAURA PER ESSERE LIBERI. Brodsky ha scritto: «Un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno»

di Luigi Zoja, corriere.it, 13 settembre 2014
Anticipiamo il testo che lo psicanalista Luigi Zoja leggerà alla manifestazione «Jewish and the City», il 14/9, alle 20.30 al Teatro Franco Parenti, nell’incontro dal titolo «Da quale schiavitù dobbiamo liberarci?» Info: jewishandthecity.it
La sola libertà esterna appartiene a un’epoca pre-psicologica. A partire da Freud, il pensiero non può più fare a meno della dimensione psichica, e in generale interiore: tanto meno in una manifestazione dedicata alla cultura ebraica. La cultura ebraica mitteleuropea dell’inizio millenovecento – ricostruita soprattutto da Hobsbawm – è l’aiuola profonda in cui la psicoanalisi affonda la sua radice e permette all’Europa di sopravvivere all’assurdo del secolo XX, approdando ferita ma umana al successivo.
Lo sguardo rivolto all’interno impregna le descrizioni profonde dell’uomodurante quello che è stato anche chiamato «The Jewish Century». Malgrado i cataclismi che ribaltano il secolo, nei suoi paradigmi letterari l’uomo lotta per la libertà interiore più che per quelle esterne. È così in tedesco con Kafka, in francese con Proust, in italiano con Svevo, in inglese con Joyce (l’unico non ebreo). La libertà esterna è quella che ci attendiamo dalla società, dalle sue leggi e dai suoi governi. Prendiamo un esempio. Ben più dell’Italia, i Paesi Bassi hanno tradizioni di libertà e tolleranza entrate da secoli nel costume. Oggi nuovi movimenti di estrema destra torcono queste qualità in direzione opposta. Vogliono spostare l’ago della bilancia facendo più uso della libertà (esterna). Criticano quelli che considerano eccessi di tolleranza e ricorrono alle forme estreme della libertà di espressione garantita dalla legge, fino a ieri non usate proprio per tradizione democratica: si prendono la libertà di offendere. Rigettano il multiculturalismo, insultano le minoranze, pretendono strillando il primato degli olandesi. Se ci fermiamo al solo versante esterno delle libertà, rischiamo di accumulare rivendicazioni che difficilmente verranno tutte soddisfatte e ci renderanno acidi, negativi, persecutorii.
Per continuare:
http://www.corriere.it/cultura/14_settembre_13/vincere-paura-essere-liberi-e5445528-3b5f-11e4-9b9b-3ef80c141cfc.shtml

PAOLO GIORDANO E MASSIMO RECALCATI: «PIÙ EROS NELLA SCUOLA»

di Silvia Bosio, genova.mentelocale.it, 14 settembre 2014
«Un sistema scolastico meno rigido e meno frigido». Ecco quello che ci vorrebbe, secondo lo scrittore Paolo Giordano, per dare linfa al mondo dell’istruzioni in Italia.
Lo scrittore torinese è stato protagonista dell’incontro Gli insegnanti che non dimentichiamo, nella giornata conclusiva del Festival della Comunicazione di Camogli.
Più che un dibattito, un confronto quello avvenuto alle ore 11 di domenica 14 settembre in piazza Ido Battistone, tra lo scrittore balzato al successo nel 2008 con il romanzo La solitudine dei numeri primi e lo psicoanalista Massimo Recalcati. Un botta e risposta moderato da Stefano Bartezzaghi dove sono emersi sicuramente punti di vista differenti, accomunati però dalla necessità, secondo entrambi, di più «eros all’interno della scuola: e il portatore di questo amore deve essere il maestro», visto che la scuola oggi rappresenta qualcosa di poco seduttivo».
«Per essere ricordato nel tempo dai suoi alunni il maestro deve lasciare un’impronta», ha evidenziato Recalcati, «è importante fare arrivare ai ragazzi il modo in cui si è entrati in contatto con il sapere. L’insegnante deve avere per primo un rapporto erotico con il sapere: ha il compito di scavare negli allievi un vuoto da cui deve uscire il sapere e si devono aprire nuovi mondi».
Per Paolo Giordano, «non è facile affrontare un argomento come quello della scuola, considerando che per me è un capitolo chiuso da tempo. Ma credo che l’attività scolastica dovrebbe essere sopratutto rivolta a coloro che sonomeno adeguati, ragazzi che purtroppo oggi vengono messi ai margini». Lo stesso discorso vale anche per gli insegnanti: «in fondo coloro che hanno le carte in regola non fanno fatica ad essere buoni alunni o buoni maestri. Ci vorrebbe un intervento di miglioramento, la scuola dovrebbe essere un’opportunità per scalare gradini della società, invece vedo ancora troppa disparità sociale».
Al centro dell’incontro una domanda, un po’ marzulliana se vogliamo, ma fondamentale: la scuola forma o a scuola ci si forma? Esiste un metodo per formare bravi maestri? «La scuola deve incoraggiare l’amore», secondo Recalcati: «sono convinto che non esista una vera tecnica per formare buoni insegnanti». «La scuola dovrebbe essere più duttile», ha infine ribadito Giordano, «e così come è facile, per i più portati per lo studio, essere dei bravi alunni, è altrettanto semplice essere buoni insegnanti per coloro che hanno talento».
http://genova.mentelocale.it/60887-genova-camogli-paolo-giordano-massimo-recalcati-piu-eros-scuola/
 
 
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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