di Rossana Borsi e Paolo Francesco Peloso
Lo shopping compulsivo (o dipendenza da acquisti) prevede un intenso bisogno (compulsivo?) di acquistare oggetti, magari non necessari, per gratificarsi o scaricare una tensione interna dolorosa. L’atto dell’acquisto provoca un senso di riempimento e liberazione che ha però una efficacia solo momentanea. Il sollievo è solo transitorio e il senso di vuoto rimane, ricomparendo comunque a poca distanza dall’acquisto. In questo consiste il meccanismo per il quale la spinta compulsiva si fa nuovamente forte e il soggetto torna ad agire il comportamento dell’acquisto, senza controllo o con un controllo inadeguato. L’azione, inizialmente vissuta come liberatoria, è generalmente seguita da un doloroso senso di colpa e di perdita della propria capacità di controllo, che viene estesa anche alla propria vita in senso generale. Un film americano del 2009, I love shopping (Confessions of a Shopaholic) diretto da P.J. Hogan e tratto dal romanzo omonimo pubblicato nel 2000 da Madeleine Wickham (con lo pseudonimo di Sophie Kinsella), illustra in modo leggero e simpatico, ma completo, questo problema, che può a volte diventare anche drammatico.
1. Perché lo shopping “compulsivo”… non è compulsivo
Desideriamo innanzitutto chiarire che, a dispetto del nome, il comportamento definito shopping “compulsivo” non risponde a uno dei principali criteri definitori dei fenomeni compulsivi perché il soggetto non vive la spinta ad acquistare come contraria alla sua inclinazione, a ciò che desidera fare. C’è dunque la ripetitività, c’è anche a volte una certa ritualità legata ai numeri che sono caratteristici dei disturbi ossessivo-compulsivi, ma manca la egodistonia. Il fenomeno, in sé, è vissuto come egosintonico, è avvertito piacevole e dà un sentimento di sollievo e anche libertà, all’atto del suo compiersi, e può presentare aspetti egodistonici (stress e sentimenti di coazione) soltanto secondariamente e sul piano della coscienza, quando si prende coscienza delle conseguenze deleterie di quel comportamento e si entra in conflitto con se stessi per evitarlo con modalità analoghe a quelle che si riscontrano in genere nelle dipendenze o nei disturbi del controllo degli impulsi. Kraepelin è chiaro nel distinguere “pazzia impulsiva” e “pazzia coatta”:
«D’altro lato la pazzia impulsiva si avvicina ad alcune forme della pazzia coatta: con la differenza che questi malati [i coatti, N.d.A.A.] non vogliono assolutamente compiere le azioni che si presentano alla loro mente; ne hanno orrore e temono solamente di potervi soggiacere, il che realmente non avviene: mentre nella pazzia impulsiva l’idea del compimento dell’azione morbosa offre immediatamente qualcosa che alletta e seduce» (Trattato, ed. it., vol. II, p. 649).
Più appropriato che parlare di shopping “compulsivo”, sarebbe perciò parlare di shopping “eccessivo” o “sfrenato”. E più interessante perciò che il suo rapporto con i fenomeni di tipo compulsivo, ci sembrano i suoi rapporti con le alterazioni del tono dell’umore; o appunto con le dipendenze, in questo caso dall’acquisto; o con il “discontrollo degli impulsi”, un impulso ad acquistare. Nell’esempio clinico con il quale proseguiremo, ci sembra che aspetti di tutte queste tre situazioni possano essere apprezzati insieme allo stretto intreccio che pare legare questo comportamento alla storia personale infantile e adulta.
.
Esistono diversi motivi per poter pensare che il Compulsive Buying possa rappresentare una strategia messa in atto per alleviare uno stato depressivo sottostante. Innanzitutto si è visto che sentimenti negativi come tristezza, solitudine, frustrazione o rabbia incrementano la tendenza a fare acquisti, mentre lo shopping stesso è associato ad emozioni piacevoli quali felicità, senso di potere e competenza (Lejoyeux et al., 1996). Il fatto che gli oggetti acquistati siano molto spesso inutili e che il più delle volte vengano messi da parte o regalati (Alonso-Fernandez, 1999), può far capire come essi servano principalmente a riempire un vuoto di sentimenti positivi e di autostima nel soggetto. Proprio l’autostima potrebbe costituire il legame tra depressione e shopping patologico; infatti, da una ricerca di Faber e O’Guinn (1992) risulta che i compulsive buyers hanno punteggi di autostima molto più bassi rispetto ai normali consumatori. Per questi soggetti patologici fare acquisti potrebbe essere un modo per innalzare la propria autostima e combattere frustrazione ed umore depresso. A conferma dell’ipotesi di un legame tra depressione e shopping compulsivo, lo studio ex iuvantibus di McElroy et al. (1994) in cui nove soggetti su tredici trattati con antidepressivi mostrano una completa o parziale remissione dei sintomi caratteristici del Compulsive Buying.
b. Dipendenze
Molto interessante è anche l’accostamento con la dipendenza. Lo shopping a livelli patologici si associa spesso ad altri tipi di dipendenza da comportamenti o da sostanze. Similmente ad esse possiede le caratteristiche della tolleranza, che porta i soggetti ad incrementare progressivamente tempo e denaro speso negli acquisti e del craving, l’incapacità di controllare l’impulso di mettere in atto il comportamento. In questo modo il soggetto cerca immediata gratificazione, agendo nonostante la consapevolezza delle conseguenze negative a cui andrà incontro. In seguito all’acquisto egli sperimenta un senso di riduzione delle tensione che funziona da rinforzo per il successivo ripetersi del comportamento disfunzionale. Si tratterebbe dunque di una “dipendenza comportamentale”, o dipendenza “senza sostanze”, del tipo per esempio del “Disturbo da gioco d’azzardo” (meglio forse, anche qui, “Gioco d’azzardo eccessivo”, o “sfrenato”[i]).
c. Disturbi del controllo degli impulsi.
La possibile presenza di una componente d’impulsività nella dipendenza dallo shopping e la sua frequente associazione con il Disturbo del Controllo degli Impulsi, rende probabile l’ipotesi dell’origine comune dei due quadri. Alcune caratteristiche che li accomunano sono: la tensione che precede la messa in atto del comportamento, la ricerca di gratificazione immediata e non procrastinabile, e l’incapacità di sopportare la frustrazione derivante dall’astenersi. Si potrebbe discutere però se il carattere impulsivo sia o meno – con buona pace anche di Kraepelin – un elemento indispensabile nella descrizione del quadro, e se si debbano includervi o meno i casi nei quali l’acquisto è eccessivo sì, e di quello che definiamo shopping eccessivo condivide ogni altra caratteristica, ma può essere preceduto da lunga e attenta pianificazione e non presenta quindi la caratteristica dell’impulsività.
Un esempio clinico. Paola, 50 anni, è separata da un una decina, a seguito della scoperta di un tradimento del marito. Si considerava una moglie perfetta, preoccupata della forma fisica, e aveva un buon successo sul lavoro. Molto apprezzata dal padre, mentre la madre le preferiva il fratello. La famiglia, pur benestante, tendeva a risparmiare, in particolare, sul vestiario e i giochi che avrebbe desiderato. Un matrimonio e qualche relazione falliti alle spalle mentre il lavoro va alla grande, poi un tentativo di suicidio, in preda a sentimenti di vuoto. L’affetto della famiglia finalmente ritrovato, poi riperso, qualche nuova opportunità che non si riesce a cogliere. Poi ecco aprirsi dinanzi a lei il tunnel degli acquisti: giocattoli, abiti andanti e capi di lusso. Non sono solo cose per se stessa; ma soprattutto per gli amici, nella convinzione di poter tenere solo così legate a sé le persone. Il lavoro clinico cerca di rendere consapevoli la deprivazione emotiva vissuta nell’infanzia, gli aspetti depressivi e la tendenza alla disregolazione emotiva se non compensata da una dipendenza affettiva o veicolata in un comportamento. Poi l’utilizzo di un “diario degli acquisti” che rende visibili le cifre spese per sé e quelle per gli altri le consente di temperare la tendenza all’acquisto, senza con ciò eliminarla del tutto nella considerazione che ciò possa essere pericoloso per l’emergere di vissuti di vuoto e di colpa dalle conseguenze poco prevedibili.
3. Come se… fosse una malattia: diagnosi, epidemiologia, comorbilità, ipotesi biologica
Secondo Lorrin Koran, direttore della Stanford University, lo shopping si configura come un disturbo del comportamento quando si verificano queste cinque condizioni:
a. il denaro investito per lo shopping è eccessivo rispetto alle possibilità economiche;
b. gli acquisti si ripetono più volte in una settimana;
c. gli acquisti perdono la loro ragione d’essere: non importa che cosa si compri, se abiti, CD, profumi, lampade o prosciutti; ciò che conta è comprare, soddisfare un bisogno inderogabile e imprescindibile che spinge a entrare in un negozio e uscirne carichi di pacchi;
d. lo shopping risponde a un bisogno che non può essere soddisfatto e il mancato acquisto crea pesanti crisi di ansia e frustrazione;
e. la dedizione agli acquisti compare come qualcosa di nuovo rispetto alle abitudini precedenti.
Al primo posto tra gli oggetti della “febbre da acquisto”, per quanto riguarda le donne, ci sono i capi d’abbigliamento, seguiti da cosmetici, scarpe e gioielli: tutti elementi riconducibili all’immagine. L’uomo, invece, sembra prediligere simboli di potere e prestigio come telefonini, computer portatili e attrezzi sportivi.
Lo shopping compulsivo può causare problemi significativi quali stress, interferenze con il funzionamento sociale e lavorativo, disagi familiari e coniugali e gravi problemi finanziari. Inoltre, si riscontrano molto spesso sentimenti di colpa e vergogna in seguito all’acquisto di oggetti che, il più delle volte, vengono nascosti al resto della famiglia oppure messi da parte, regalati o buttati.
c. Comorbilità
Solo una minoranza dei casi non presenta altri problemi di interesse psichiatrico: è molto frequente, per esempio, che ci sia o ci sia stato in passato un rapporto difficile con il cibo (anoressia o bulimia), e in particolare il più delle volte si tratta di donne bulimiche; in alcuni casi sono associati allo shopping compulsivo disturbi dell’umore (depressione o mania), o può essere uno dei sintomi di un disturbo mentale, ad esempio la polarità maniacale o quella depressiva del disturbo bipolare. In altri casi è associato a disturbi legati all’ansia (fobie, panico, disturbo ossessivo compulsivo), o abuso di sostanze (in particolare alcol) e discontrollo degli impulsi.
La conseguenza della presenza di un così alto grado di comorbilità con altre patologie psichiatriche è stata una pluralità di ipotesi eziologiche.
d. Ipotesi biologica
Per quanto le ragioni per sostenere un’origine psicogena del quadro, legata alla storia personale del soggetto e a fattori di contesto, sembrino molte, sono state formulate anche per lo shopping “compulsivo” ipotesi di carattere biologico. Secondo alcune di esse, si tratterebbe di una delle possibili manifestazioni di un cattivo metabiolismo della Serotonina, un neurotrasmettitore prodotto dal cervello. I disturbi legati a questa alterazione chimica cerebrale determinano tra le altre cose un mancato controllo dell’impulsività, per cui si è spinti a soddisfare immediatamente un bisogno. In pratica, l’acquisto sfrenato potrebbe quindi indurre da un punto di vista biochimico fenomeni simili a quelli dell’uso di droghe.
4. Considerazioni critiche: questa “malattia”… è una malattia? E poi, comprare: quanto? E: per chi?
Il comportamento genericamente definito shopping “compulsivo”- e più appropriatamente shopping “eccessivo” o “sfrenato” – consiste dunque nel ripetersi di episodi nei quali la persona sperimenta un impulso irrefrenabile a fare acquisti che sono riconosciuti come inutili, o perdono rapidamente importanza una volta avvenuti, e sono eccessivi rispetto alle proprie possibilità.
Non si tratta di un fenomeno nuovo, perché lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin lo aveva descritto già un secolo fa con il termine “oniomania”; scrive Bleuler infatti a proposito degli “impulsi reattivi”, eredi delle “monomanie” di Esquirol, dopo essersi soffermato su un gruppo eterogeneo di quadri come l’”automatismo ambulatorio” (poriomania), la piromania, alcuni casi di infanticidio, gli estensori seriali di lettere anonime e i cleptomani:
«come ultima categoria, Kraepelin menziona le maniache delle compere (oniomani), nelle quali l’atto del comperare ha un fondo impulsivo; queste donne (…) ne vengono indotte a debiti dissennati, sinché, di acquisto in acquisto, arriva anche il momento dei creditori e qui per breve tempo si riesce a fare un po’ di luce sulla disastrosa situazione, solo un poco, la luce piena mai, poiché in nessun caso confessano tutti i loro debiti» (Bleuler, 1911, 1960, p. 569).
E notiamo quasi a margine come per Kraepelin fosse già chiaro il maggior rischio del genere femminile, come anche l’importanza della bugia, che ritroviamo nelle simpatiche gag del film I love shopping. Ma, certo, con la diffusione del benessere e della cultura consumistica, e soprattutto con l’affinarsi delle tecniche pubblicitarie, il rischio di cadervi è oggi molto più alto e la diffusione perciò maggiore. E le carte di credito che rendendo immateriale il denaro danno l’illusione che possa essere infinito, o gli acquisti on-line che rendendo immateriale la transazione spostandola in un’atmosfera quasi onirica, di certo non aiutano né le une né gli altri a tenere la spesa sotto controllo.
Un problema, come in genere nelle dipendenze, è rappresentato poi dalla soglia oltre la quale lo shopping deve essere considerato eccessivo, che dovrà tenere conto della frequenza degli acquisti, della loro utilità per il soggetto, del loro costo in rapporto alle sue possibilità, della possibilità o meno di rinviarli o rinunciare. Infondo, non bisognerà essere troppo severi perché si acquista per rispondere ai propri bisogni, ma si può anche acquistare per rispondere ai propri desideri senza per questo essere subito considerati malati.
Al di fuori di questo, come per gli altri comportamenti riferibili al discontrollo degli impulsi o alla dipendenza, si può discutere all’infinito se si tratti di vere e proprie malattie, o non piuttosto di cattive abitudini. Del resto, questo comportamento bussa ormai da anni alle porte della nosografia psichiatrica, ma è significativo che persino il DSM 5, nonostante la sua nota voracità iperinclusiva, lo abbia lasciato fuori dalla porta (ad essere maligni si potrebbe dire che un americano proprio non ce la faccia a considerare il consumo, anche eccessivo, una malattia!). La tendenza prevalente è ad affrontare questa questione come un aut aut: o il soggetto è sano, e allora va rimproverato e punito; oppure è malato, e allora va scusato e curato. Dovremmo invece abituarci a pensare che, soprattutto nel campo del controllo degli impulsi ma non solo, quello tra salute e malattie è un continuum. Certo non è utile eccedere nella colpevolizzazione, e oltre un certo limite può diventare rischioso. Ma anche una completa deresponsabilizzazione può essere deleteria. Bisognerebbe invece saper utilizzare entrambi questi registri, quello che considera il comportamento una cattiva abitudine e quello che lo considera una sorta di malattia, perché ciascuno dei due contiene un po’ di verità ma non tutta, e soprattutto bisognerebbe saper ricorrere a seconda dei casi e dei momenti a quello più utile.
Sul piano del decorso temporale, in genere il comportamento attraversa tre fasi: prima una crescita dell’ansia, dell’eccitamento e del bisogno di acquistare; poi una fase di soddisfazione che segue l’acquisto e ha una certa durata; e poi spesso una terza fase nella quale l’oggetto perde importanza e prevalgono delusione e sentimenti di colpa, il che può preludere a un nuovo ciclo e a un nuovo acquisto.
Sul piano del comprendere psico[pato]logico, bisogna considerare alla base di questo comportamento ragioni di carattere psicologico e di carattere sociale, e per contrastarlo sarebbe necessario intervenire a entrambi i livelli. Rispetto alla psicologia dell’acquisto, una questione che ci pare importante è se lo shopping riguardi oggetti comprati per se stessi, o da donare ad altri. Nel primo caso, con rifermento alla psicoanalisi classica un comportamento di questo tipo potrebbe essere riportato a quella che è descritta come la personalità orale, mentre dal punto di vista del comprendere jaspersiano, possiamo immaginare che lo shopping sfrenato possa essere riportato a momenti nei quali il soggetto avverte la necessità di gratificarsi per cercare un’uscita dalla tristezza, o si sente in diritto di essere risarcito per qualcosa, o si sente insicuro. In qualche caso, specie se il denaro che viene speso è indiviso, la ricerca del risarcimento può riguardare una persona in particolare, in genere il/la partner o i genitori, e il comportamento assume una valenza aggressiva all’interno della coppia o della famiglia e deve essere affrontato a quel livello. Nel caso invece che lo shopping abbia a che fare con oggetti da regalare, è possibile considerare all’origine problemi angoscianti di bassa autostima o di vergogna, per cui acquistare per donare sarebbe un modo per farsi accettare o per apparire importanti o almeno accettabili agli occhi dell’altro; o problemi di eccessivi sentimenti di colpa, per cui comprare per donare potrebbe divenire un modo per risarcire l’altro di qualcosa che ci pare di dovergli. Sul piano sociale invece, come del resto per altri disturbi che hanno a che fare con il discontrollo degli impulsi e con la dipendenza, la società di mercato e il consumismo rappresentano gli ambienti nei quali contrastarli è più difficile, perché la nostra società è tutta organizzata per indurre all’acquisto e al consumo. I giorni di Natale o il momento dei saldi poi sono quelli più a rischio dell’anno…. E se per combattere il tabagismo, l’alcoolismo o il gioco d’azzardo può essere sufficiente impedire la pubblicità e la promozione di un numero limitato di prodotti (ed è già difficile ottenerlo), nel caso dello shopping sfrenato sono la pubblicità e le promozioni commerciali in generale che, inducendo all’acquisto com’è nella loro natura, stimolano quel comportamento che si vorrebbe contrastare. Difficile immaginare però che possano essere limitate per proteggere le persone a rischio di questo comportamento… Infatti, è vero ciò che dice April Lane Benson, una psicologa che ha curato nel 2000 un libro dal titolo eloquente “I shop, therefore I am” (“Compro, dunque sono”): il reale problema è “l’accondiscendenza della società di fronte al compratore sfrenato”. L’accondiscendenza o, anzi, la spinta. Ed è difficile tenere temperati i consumi, insomma, nella società dei consumi!
Nel video allegato il film: "I love shopping"
0 commenti