Può la felicità coesistere con l’ortodossia religiosa? L’appagamento delle umane aspirazioni, la realizzazione dei propri desideri, l’orizzonte personale di libertà amorosa, sono elementi contemplati dalle solide impalcature ideologico religiose che governano le comunità edificate su fondamenta di stampo rigorosamente confessionale? Quale è il prezzo dell’adattamento della multiforme natura umana alle rigide maglie contenute nei dettami dei testi sacri quando questi vengono interpretati alla lettera? Quale è il prezzo, lo scarto, la libbra di carne che molti uomini e donne pagano per questo tributo alla parola di un Dio interpretata pedissequamente? Quante sono invece le strutture di personalità che vanno a nozze e accettano ben volentieri l’intruppamento entro gli stretti ranghi dei versi sacri quando questi autorizzano e sdoganano desideri di controllo sull’altro quando non vere pulsioni sadiche? Ci rifletto da quando l’Europa ha conosciuto l’ondata di attentati sanguinari perpetrati da autodefiniti soldati di Dio, individuando nella loro struttura perversa quel comune denominatore che ha portato tanti amanti del male e desiderosi di infliggere dolore al prossimo a vestire i panni di sadici difensori della fede.
Mi facevo queste domande osservando la discussa , ma cinematograficamente pregevole e assai seguita, serie televisiva ‘Shtisel’. La storia di questa famiglia di ebrei chassidici ultraortodossi ci mostra come i tribolamenti dell’Edipo, l’eredità simbolica, la fratellanza e l’adesione ad un Altro religioso siano elementi universali, seppur adattati ad un microcosmo che , per essere narrato e farsi accettare, indulge e si autoassolve cercando forse uno ‘sdoganamento’ mediatico in forma di narrazione familiare di usanze e costumi che noi abbiamo da tempo rigettato.
Immerso in un’atmosfera immobile ed atemporale, Shulem Shtisel, padre, rabbino e patriarca tiene salde le redini di un’intera famiglia orientandola secondo la sua personale interpretazione della Torah, il che gli permette di progettare e costruire nel tempo un mondo piatto, anedonico, sotto controllo e votato al sacrifico, ove felicità e la gioia sono bandite, fatto salvo per le sue passioni personali: la musica e gli abiti di qualità. Indifferente nel suo essere duro, glaciale nel suo simulare affetto, cresce dei figli e delega alla legge Divina un suo malcelato desiderio di precluderne la strada della felicità. Egli tiene in mano le chiavi di una gabbia confessionale creata allo scopo di contenere, limitare e mantenere coartata la spinta alla trasgressione, insita nell’animo umano. Nessuno deve seguire il proprio desiderio: questa appare allo spettatore essere la sola possibile declinazione del Talmud . Nessuno dei suoi figli è felice, forse nemmeno la sua ex moglie lo sarebbe, qualora sapesse del peregrinare di Shulem di vedova in vedova pur di non apparire senza donna in società. La forma, l’apparenza, il livellamento verso il basso delle emozioni è la sola cosa che preoccupa quest’uomo. La figlia maggiore dovette superare non poche barriere ideologiche quando, dopo il suo primo fidanzamento, le ragioni contarie opposte dai genitori si fondavano sul fatto che il pretendente ‘guidava l’automobile’. Quando il figlio Akiva tentenna a nel suo volersi fidanzare con una donna scelta tramite il tradizionale consulto rabbinico e osa rifiutare la combine, perché segretamente e fortemente innamorato della splendida Elisheva, il padre arriva a ripudiarlo cacciandolo di casa, ritenendo infangata la propria immagine pubblica. Akiva inizia a girovagare per la città, confuso e sperduto, incapace di capire come il padre possa incarnare una cosi’ radicale interpretazione della Torah. Ma il vagabondare ed apparire un barbone agli occhi severi della comunità può dare ancor più’ scandalo rispetto al non essere sposati, il che crea un ulteriore variabile fuori controllo dall’orizzonte livido e ghiacciato del padre costretto, solo per questo motivo, a rincorrerlo e riprenderselo in casa. Dopo tante traversie, il figlio corona il desiderio di una vita: capace nell’arte del disegno, ottiene fama e riconoscimento grazie ad un gallerista che ne intuisce le doti. Un desiderio personale schiacciato ancora una volta dal padre il quale, invitato nella speranza di un riavvicinamento affettivo, non trova di meglio che banalizzarne le doti pubblicamente, mettendosi a questuare agli astanti denari per la ristrutturazione degli edifici della comunità religiosa, cosa ben piu’ importante dell’arte e della pittura. Non c’è mai un solo gesto d’amore nel suo incedere, nemmeno quando utilizza lo Yiddish per dialogare con i nipoti della figlia che , a suo tempo, egli allontanò perché rea di aver sposato un ebreo di rito non chassidico. E’ infatti ancora e sempre la forma, l’ossessione per la sua immagine pubblica che lo spinge ad intraprendere un lungo viaggio e a chiedere pace e perdono alla suddetta ‘rea’ di averlo citato al tribunale rabbinico per ‘inadempienza’ dei doveri paterni. Il tribunale rabbinico, entità non contemplata dalle leggi laiche di Israele, è tuttavia il solo ed unico custode di quella forma che Shulem non può per nulla al mondo intaccare. L’esempio piu’ crudo della volontà di abdicare alla legge delle pergamene la sua personale guerra al desiderio individuale si ha quando la nipote, ancora minorenne, si sposa clandestinamente secondo il rito ortodosso. Ai fulmini della madre che tuona contro questa barbarie, il padre controbatte che si tratta comunque di un matrimonio celebrato secondo la ‘legge’ e per questo valido, aggiungendo che, in fin dei conti, il ragazzino promesso sposo non era poi così male. L’incoraggiamento di Shulem al matrimonio della nipote minore non è che la punta di un iceberg che sovrasta tutti i protagonisti e mina la credibilità della serie televisiva rea, a detta di molti, di non condannare mai, né dichiaratamente, né velatamente, l’usanza del matrimonio combinato come pratica consueta ed accettata, frutto indigesto di un idea della donna oggetto della legge patriarcale. La figlia Giti che , per quanto possibile si ‘oppone’ al matrimonio della sua primogenita, è seduta su di una evidente contraddizione dello sceneggiatore che le toglie ogni credibilità in quanto attrice passiva di un meccanismo assai rodato e mai messo in discussione dagli autori che la tratteggiano come accondiscendente e partecipe all’ utilizzo di un intermediario che , penna alla mano, annota pregi e difetti pretendenti, combinando appuntamenti in Hotel che sovente preludono al fidanzamento. Nemmeno quando il fratello di Shulem arriva in città con la figlia, impaziente di collocarla e ‘tornare a casa con un anello’ quasi fossero al mercato delle vacche, il regista tradisce un cenno di condanna o di critica. Volontà rigorosa di una rappresentazione fedele del reale, desiderio di dare una patina di normalità a ciò che nel resto del mondo è unanimemente condannato, o mancanza di coraggio?
La giornalista Emanuela Provera* sostiene che che : ‘ Il matrimonio tra minorenni, qualcuno riferisce tra “bambini”, è una consuetudine praticata in alcune comunità ebraiche chiuse, una realtà che limita la libertà, la coscienza individuale e l’autodeterminazione. La sua critica a Sitshel è appunto quella di indulgere nel mostrare queste pratiche senza un filo di condanna, creando una serie che ‘ lascia intravedere una condizione della donna, serenamente integrata in quel contesto, ma distante da quella cui siamo abituati in Occidente. (…) Shtisel ha riscosso un grande successo, anche perché rispetto alle altre serie Tv evita la denuncia, non problematizza, utilizza un linguaggio dei sentimenti comune a tutto il genere umano, racconta vicende di dolore e di conflitto interiore che ci coinvolgono. Shtisel è un tentativo riuscito di auto legittimazione, e appare come l’anima bianca di quel contesto religioso e sociale invece raccontato, frettolosamente, nella serie Tv Unorthodox. Come in tutte le realtà autoreferenziali, lo stile è sostanzialmente apologetico, anche se mitigato da un intento critico e liberale'
L’ avversione di Shulem verso la ‘modernità’ e il godimento lo porta a combattere una vera battaglia contro la televisione che la madre, Malka, , si è fatta mettere nella camera della casa di riposo. Il suo unico contatto col mondo non ortodosso, portatore di quella diversità, di quella strana gioia che pervade gli abitanti degli universi non confessionali. Eccola allora appassionarsi, sino a pregare per loro, alle vicende di Ridge e alla compagine di Beautiful. Shulem, corroborato dal nipote che come lui ha seguito la via dell’ortodossia pura e dello studio incessante della Torah, porta le pressioni verso Malka al punto che ella, temendo la dannazione a causa delle ‘parolacce’ che uscivano ‘ dai telefilm, chiede ed ottiene che glie la portino via. Dura poco. Abitata da sogni nel corso dei quali sente avvicinarsi la morte, si alza nottetempo per andare vedere la sua puntata di Beautiful nella sala comune della casa di riposo, ma a causa della sua difficoltà a deambulare, le scale le sono fatali. Tutta la famiglia corre al suo capezzale, primo tra tutti quel figlio , che col suo irretirla dal guardarla, ne ha allontanato l’ unico momento di svago causandone, indirettamente, la rovinosa caduta per le scale.
Al punto in cui sono arrivato, e non è la fine, il cuore di Shulem da segnali di cedimento. Non prima di aver allontanato con la menzogna la bella Elisheva dal figlio, egli fa i conti con la paura di morire. Il tutto sullo sfondo non di un ravvedimento, un pentimento per tutto l’amore non dato, una messa in discussione della sua anaffettiva figura paterna, quanto piuttosto protagonista di una corsa dai figli, di porta in porta, per elargire a ciascuno una somma di denaro, impossibile risarcimento al prezzo che tutti loro hanno pagato al suo disegno di cancellazione della felicità dalle loro vite. porta dai figli per elargire una somma di denaro prelevata per dare ai propri cari la sola cosa che questo padre abbia mai inteso come senso paterno: i soldi.
*Emanuela Provera. ‘La condizione femminile variegata e in evoluzione. Intervista a Rav Haim Fabrizio Cipriani’. In ‘Adista’, luglio 2021.
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