Autore: Roberta Passione
Titolo: La forza delle idee. Silvano Arieti: una biografia (1914-1981)
Editore: Mimesis
Pagine: 350
Prezzo: 30,40 €
Abbiamo chiuso, due mesi fa, la recensione di venti libri usciti nel 2020 realizzata per la settimana della salute mentale di Reggio Emilia (clicca qui per il link) con l’annuncio dell’uscita in quei giorni della biografia La forza delle idee. Silvano Arieti (1914-1981), scritta da Roberta Passione per le edizioni Mimesis. A quella recensione collettiva ha fatto seguito su questa rubrica quella del volume Basaglia’s international legacy curato da Tom Burns e John Foot per l’Oxford University Press (clicca qui per il link) e sul sito del Forum per la Salute Mentale quella del volume di Ernesto Venturini Mi raccomando non sia troppo basagliano. La vittoriosa sconfitta del manicomio aperto di Gorizia, per le edizioni Armando (clicca qui per il link), cui è seguito un commento di Peppe Dell'Acqua (clicca qui per il link).
Vorrei ora ritornare sul volume di Passione – che è ricercatrice in Storia della scienza presso l’Università Bicocca e si è già validamente cimentata in precedenti volumi con le biografie di Ugo Cerletti e Gaetano Perusini – dedicato alla vita e alla produzione scientifica (ma non solo) di quest’altro protagonista italiano della psichiatria del Novecento.
Si tratta del terzo volume della collana Il sapere psichiatrico; dei primi due, Genealogia della schizofrenia . Ebefrenia, dementia praecox e neurosviluppo di Carlo Maggini e Riccardo Dalle Luche (clicca qui per il link) e Adolf Hitler , analisi di una mente criminale. Psicologia e psicopatologia del nazismo di Riccardo Dalle Luche e Luca Petrini (clicca qui per il link) abbiamo già scritto in questa rubrica, e per il secondo è disponibile la presentazione su Pol. it da parte di Dalle Luche (clicca qui per il link).
Basato sulla consultazione dei documenti conservati presso l’archivio di Silvano Arieti della Manuscript division della Library of Congress di Washington, il testo di Passione ricostruisce la biografia dello psichiatra a partire dalla giovinezza trascorsa a Pisa, l’infatuazione adolescenziale per Mussolini, la vocazione alla medicina nata da spinta altruistica, la scelta della psichiatria cui lo indussero la volontà di non rinunciare del tutto agli interessi letterari insieme alla curiosità destata in lui dai gravi disturbi ossessivi dei quali soffriva Pardo Roques, il parnàs della comunità israelitica pisana che fu poi vittima di un eccidio compiuto dai nazisti nella sua casa durante l’occupazione, alla ricostruzione della cui vicenda intellettuale e umana Arieti dedicò un romanzo nel 1979.
Costretto a emigrare appena laureato dall’Italia a causa delle leggi razziali si stabilisce per un breve periodo in Svizzera e poi, attraverso la Gran Bretagna, negli Stati Uniti dove approda il 6 aprile 1939. Soprattutto la scarsa padronanza dell’inglese, che apprenderà da autodidatta, non gli rende facili i primi anni, ma già nel 1942 appare la sua prima pubblicazione, di carattere istologico, sull’American Journal of Psychiatry. La ricerca di un’occupazione stabile intanto lo porta al Pilgrim hospital di New York, quello che definisce “il più grande ospedale psichiatrico del mondo”, dove ha l’occasione di svolgere quelle fondamentali osservazioni cliniche e umane sugli schizofrenici che sarebbero state fondamentali per lo sviluppo di un suo peculiare modo di vedere la mente umana sana e malata.
Lasciato il Pilgrim dopo la fine della guerra, si dedica alla psicoanalisi frequentando il William Alanson White Institute fondato da Erich Fromm e Harry Stack Sullivan – che sarebbero diventati da allora insieme a Freud, Kurt Goldstein, Georg Groddek e soprattutto Frieda Fromm-Reichman i suoi principali riferimenti – e lì acquisisce gli strumenti teorici necessari a inquadrare le osservazioni realizzate al Pilgrim sull’importanza che le relazioni umane hanno nell’evoluzione della malattia, e Passione cita da un manoscritto inedito di quegli anni rinvenuto nell’archivio:
«Scoprii che alcuni pazienti […] che erano stati considerati senza speranza guarivano, o miglioravano tanto da essere dimessi, a volte dopo anni di ospedalizzazione. A quel tempo questi erano considerati casi di “guarigione spontanea”. Questa spiegazione però non mi soddisfaceva, e guardai più a fondo nella questione. Scoprii presto che queste cosi dette guarigioni spontanee non erano affatto spontanee, ma il risultato di una relazione stabilita fra il paziente e un addetto o un’infermiera […]. Fui colpito dal fatto che persino un processo schizofrenico avanzato potesse dare prova di essere reversibile o favorevolmente influenzato dal contatto umano […]. Avevo imparato che, quale che fosse il beneficio che il paziente aveva potuto ricevere, questo doveva provenire dai suoi legami con almeno un altro essere umano».
Considera perciò centrale, in qualunque tentativo di psicoterapia delle psicosi, la relazione tra curante e curato la cui importanza riporta indietro fino agli ideologues francesi, nei cui studi sul ragazzo selvaggio dell’Aveyron fa risalire la convinzione che in nessun caso lo sviluppo di una funzione mentale possa essere fatto risalire solo a un’originaria dotazione organica, in assenza dell’esposizione al contatto con gli altri esseri umani.
Nei primi anni ’50, prende così corpo l’idea di schizofrenia di Arieti, che si basa essenzialmente, mi pare di poter evincere dal copioso materiale che Passione riporta, su quattro aspetti:
1. In anni nei quali la psichiatria americana andava vieppiù divaricandosi tra sostenitori dell’importanza dei fattori psicologici, relazionali e sostenitori di quella dei fattori biologici nella genesi, lo sviluppo e l’esito della schizofrenia, l’approccio di Arieti si caratterizza per eclettismo, con una attenzione che sarebbe andata negli anni però via via sbilanciandosi in favore del fattore relazionale per controbilanciare il fatto che il clima, nella psichiatria americana, andavano decisamente orientandosi in direzione opposta.
2. Rispetto all’importanza che la psicoanalisi freudiana classica attribuisce alle pulsioni primitive nella vita psichica dell’uomo, Arieti segue la scuola eterodossa statunitense di Sullivan, Fromm-Reichmann e altri e attribuisce al funzionamento cognitivo della mente importanza almeno analoga a quella della vita emotiva. Non ci sono, infatti, nell’uomo soltanto idee che nascono sulla base delle emozioni primitive, ma ci sono anche emozioni che nascono in relazioni alle idee e agli ideali della vita adulta. Contenuti emotivi e organizzazione del pensiero hanno, insomma, la stessa importanza nel funzionamento della mente, e si influenzano reciprocamente. Scrive Passione in proposito: «Nel cuore del ventesimo secolo è dunque [per lui] arrivato il momento di riconoscere che i fattori patogeni più importanti hanno a che fare non tanto con la frustrazione dei bisogni primari, ma con il pensiero e le idee, le rappresentazioni e le aspettative, l’immagine di sé e del mondo».
3. Arieti è così portato a concentrarsi sullo studio del linguaggio e del pensiero schizofrenico che interpreta come un problema di carattere essenzialmente evolutivo, nel quale gli pare di poter cogliere paralleli interessanti con le ricerche antropologiche, neurologiche, di psicologia dello sviluppo e psicoanalisi, con riferimento in particolare a quelle di Von Damarus sui primitivi e al suo concetto di “pensiero paralogico”, che lo psichiatra pisano rivisita nella descrizione del pensiero schizofrenico come “paleologico”.
4. Se la schizofrenia è riportata, di nuovo come in Bleuler infondo, alla centralità dei suoi aspetti formali, non stupisce che, di fronte ad esempio a un fenomeno complesso come quello delle allucinazioni, troviamo Arieti interessato non tanto ad attribuire un significato al loro contenuto, quanto piuttosto a scomporne la genesi dal punto di vista formale (cognitivo), per poter individuare gli strumenti, cognitivi appunto, che consentano al soggetto di contrastarne l’insorgenza. È sua convinzione infatti, riporta Passione, che – come ha appreso dalla Fromm-Reichmann tra gli altri – ci sia sempre nel paziente una parte adulta con la quale poter stabilire un’alleanza, aiutandolo – con una funzione che è quella di un “ambasciatore della realtà” – a divenire consapevole del modo in cui, a partire dai conflitti, si sviluppano i sintomi, e delle modalità con le quali poter ricodificare i sintomi psicotici nel linguaggio normale.
Sono concetti che Arieti espone in quegli anni in numerosi articoli scientifici su riviste prestigiose, che Passione riprende, nei quali non sono mai carenti incursioni filosofiche e riferimenti letterari, insieme però al fermo convincimento che la psichiatria, pur con le innegabili peculiarità e l’arricchimento da parte della psicoanalisi – Arieti si sottopone in quegli anni ad analisi personale – debba rimanere ancorata all’ambito culturale e ai modelli forti della medicina.
È quindi con la pubblicazione nel 1955 del volume Interpretazione della schizofrenia che Arieti ha modo di raccogliere le sue idee e di vedere aumentata la sua fama, al punto che nel 1963 verrà coinvolto come esperto nel processo per l’omicidio dell’assassino del presidente Kennedy.
Pensatore portato a fare dell’eclettismo un valore e abile e infaticabile organizzatore editoriale, tra il 1959 e il 1966 pubblica l’American Hadbook of Psychiatry, che sarà tradotto in Italia da Boringhieri nel 1970 ed è concepito come un’opera volta a dare rappresentazione e voce paritetica a tutti gli esponenti più rappresentativi e le tendenze e le realtà eterogenee della psichiatria americana.
È del 1971, invece, Passione ricorda, il lancio di un progetto ancora più ambizioso, una pubblicazione internazionale alla quale Arieti chiama a partecipare psichiatri di tutto il mondo, inclusa l’Unione Sovietica, che raccolga con cadenza biennale le novità emerse nella disciplina.
Gli orizzonti di dello studioso pisano intanto si ampliano, con una serie di volumi come Il Sé intrapsichico, del 1967, nel quale cerca di sistematizzare le sue idee sul funzionamento della mente. O Le vicissitudini del volere, del 1972, con il quale Arieti opera una riflessione sulla condizione umana che va ben oltre i confini del lavoro psichiatrico e mette al centro l’idea della libertà nel suo rapporto con i condizionamenti – in polemica ad esempio con Skinner – e con l’autorità e il potere, due termini ai quali attribuisce significati opposti. Nella ricostruzione di Passione, attraverso questo scritto lo psichiatra pisano fa i conti con i fenomeni emersi nei suoi anni, a partire dal movimento del ’68 nel quale, nel momento in cui apprezza la tensione libertaria, coglie però criticamente gli esiti più ingenui, dall’estremizzazione della polemica antiautoritaria e della liberazione degli aspetti pulsionali dell’uomo, all’aver posto in termini eccessivamente semplicistici la questione sessuale.
Quanto più ci si allontana dalla neurologia e dalla psichiatria, però, tanto più mi pare di cogliere, nella ricostruzione di Passione, il rischio che l’appello all’etica con il quale Arieti conclude le proprie riflessioni lo porti «in molti punti a imboccare un vicolo cieco di tautologie». Come a dire che l’esito è che, perché il mondo dell’uomo sia più buono, l’uomo dovrebbe essere più buono. E mi permetto di aggiungere, per parte mia, che ciò non mi sorprende.
In primo luogo, perché credo che Arieti incorra, in questo caso, nel rischio comune tanto a molta psichiatria che a molta psicoanalisi di sentirsi, a partire da quei saperi specifici su alcune dimensioni dell’uomo, esperti dell’uomo nella sua totalità e quindi anche dell’oggetto, estremamente complesso e multidisciplinare nella sua natura, che è la società umana, con la dimensione etica e politica che la caratterizza. Per la comprensione delle organizzazioni umane libertà e volontà del soggetto hanno certo importanza, ma solo se colte accanto ad altri fattori dei quali lo psichiatra non ha, in quanto psichiatra, nessuna titolarità a dire la propria rispetto ai cultori di altre discipline, e all’intellettuale in genere. In secondo luogo, perché – come del resto ritengo che accada per una parte consistente degli intellettuali liberal degli Stati Uniti – Arieti affronta temi quali la libertà umana, l’autorità e il potere senza coglierne – come invece fa in quegli stessi anni, ad esempio, in Italia Basaglia grazie tra l’altro alla lettura di Gramsci – la relazione che è imprescindibile con le condizioni storiche e materiali nelle quali libertà e volontà dell’uomo si esercitano, nonché la loro relazione con la questione della giustizia sociale. Il che rischia appunto, spesso, di fare di quell’uomo, del quale ci si occupa, un uomo astratto; e di portare a esisti che suonano spesso banali. Né mi pare una valida soluzione l’idea che Arieti accarezza di poter attribuire, se ho ben compreso la ricostruzione di Passione, pur senza arrivare agli esiti estremi di Siirala, al povero paziente schizofrenico in quanto tale un ruolo di depositario di valori, ai quali gli altri dovrebbero attingere.
È del 1974, comunque, la seconda edizione di Interpretazione della schizofrenia, interamente riscritta rispetto alla prima ma sempre caratterizzata dallo sforzo di un approccio eclettico tra cultura biologica e psicologica in anni nei quali andavano divaricandosi, prendendo in considerazione, per scartarli, approcci, nel frattempo emersi, volti ad attribuire importanza alle caratteristiche della madre o della famiglia nella genesi della schizofrenia; o all’idea, avanzata da Thomas Szasz, che la schizofrenia non esista in quanto malattia ma non rappresenti che un mito. Il successo con il quale l’opera viene accolta è di nuovo straordinario.
Gli anni successivi vedono Arieti impegnato a estendere, da una parte, la propria idea di mente all’interpretazione dell’altra grande psicosi, quella depressiva; ma soprattutto, a partire dal 1973 che è l’anno di insediamento della Task Force per il DSM, impegnato a contestare l’approccio riduzionistico e semplicistico alla nosografia – che è dal suo punto di vista un tentativo di «cercare disperatamente di rendere coerente ciò che non lo è» – ormai egemone nell’American Psychiatric Association, e schierato in favore della classificazione dell’OMS per la maggiore complessità e perciò fedeltà al mondo reale.
Lo stesso anno, Arieti, davvero infaticabile organizzatore, dà alle stampe una nuova rivista a carattere internazionale, il “Journal of the American Academy of Psychoanalysis”, che sotto la sua direzione durata fio al 1981 – e avendo nel board internazionale tra gli altri Gaetano Benedetti ed Emilio Servadio – si interroga sulla questione del rapporto tra psichiatria, psicoanalisi, medicina dando così luogo con il DSM, nella lettura di Passione, a due «risposte completamente diverse, e a tratti divergenti, a una comune ricerca di rigore e scientificità; due stili, due bussole, per orientarsi in una stessa terra».
Arieti pubblica altre due monografie, una dedicata alla creatività e all’arte, nel 1976; e l’altra – Abrahm and the contemporary mind, pubblicata nel 1981 – alla spiritualità.
In entrambi i testi, per Passione, emerge ancora una volta la tensione di questo clinico e ricercatore decisamente eclettico, curioso e alieno da pregiudizi a spingere la scienza al limite ultimo delle sue potenzialità, per poi però arrestarsi di fronte all’irriducibilità di tutto ciò che ha a che fare con la dimensione psicologica, relazionale, artistica, spirituale dell’uomo ai fenomeni chimici e fisici che la sostengono. Imperscrutabile è il “misterioso salto tra la mente e il corpo”, scriveva all’inizio del ‘700 un medico dello Studio di Parma del quale anni fa mi sono occupato; e imperscrutabile, insomma, rimane, mi pare che concluda, nella lettura che ne fa Passione, nei suoi ultimi scritti anche questo grande psichiatra del secolo scorso, Con il che conclude una lunga e fortunata carriera iniziata sotto i peggiori auspici, quelli di una patria dalla quale ha dovuto allontanarsi perché la violenza mista alla stupidità hanno creato le premesse perché ne fosse improvvisamente e immotivatamente bandito (clicca qui per il link).
Un occhio particolare Passione dedica infine, comprensibilmente, alla ricezione di Arieti – che, negli ultimi anni, rientrava regolarmente in Sardegna per i periodi di vacanza – in Italia, a proposito della quale troviamo, tra gli intellettuali più attenti, Ernesto De Martino, Giovanni Enrico Morselli, Mario Gozzano, Vito Maria Buscaino, Carlo Lorenzo Cazzullo, Mara Selvini Palazzoli e soprattutto Pier Francesco Galli che, sempre pronto in quegli anni ad afferrare tutto intorno le cose interessanti per proporle alla sonnecchiante psichiatria italiana, promosse la pubblicazione della prima edizione di Interpretazione della schizofrenia per Feltrinelli già nel 1962.
Titolo: La forza delle idee. Silvano Arieti: una biografia (1914-1981)
Editore: Mimesis
Pagine: 350
Prezzo: 30,40 €
Abbiamo chiuso, due mesi fa, la recensione di venti libri usciti nel 2020 realizzata per la settimana della salute mentale di Reggio Emilia (clicca qui per il link) con l’annuncio dell’uscita in quei giorni della biografia La forza delle idee. Silvano Arieti (1914-1981), scritta da Roberta Passione per le edizioni Mimesis. A quella recensione collettiva ha fatto seguito su questa rubrica quella del volume Basaglia’s international legacy curato da Tom Burns e John Foot per l’Oxford University Press (clicca qui per il link) e sul sito del Forum per la Salute Mentale quella del volume di Ernesto Venturini Mi raccomando non sia troppo basagliano. La vittoriosa sconfitta del manicomio aperto di Gorizia, per le edizioni Armando (clicca qui per il link), cui è seguito un commento di Peppe Dell'Acqua (clicca qui per il link).
Vorrei ora ritornare sul volume di Passione – che è ricercatrice in Storia della scienza presso l’Università Bicocca e si è già validamente cimentata in precedenti volumi con le biografie di Ugo Cerletti e Gaetano Perusini – dedicato alla vita e alla produzione scientifica (ma non solo) di quest’altro protagonista italiano della psichiatria del Novecento.
Si tratta del terzo volume della collana Il sapere psichiatrico; dei primi due, Genealogia della schizofrenia . Ebefrenia, dementia praecox e neurosviluppo di Carlo Maggini e Riccardo Dalle Luche (clicca qui per il link) e Adolf Hitler , analisi di una mente criminale. Psicologia e psicopatologia del nazismo di Riccardo Dalle Luche e Luca Petrini (clicca qui per il link) abbiamo già scritto in questa rubrica, e per il secondo è disponibile la presentazione su Pol. it da parte di Dalle Luche (clicca qui per il link).
Basato sulla consultazione dei documenti conservati presso l’archivio di Silvano Arieti della Manuscript division della Library of Congress di Washington, il testo di Passione ricostruisce la biografia dello psichiatra a partire dalla giovinezza trascorsa a Pisa, l’infatuazione adolescenziale per Mussolini, la vocazione alla medicina nata da spinta altruistica, la scelta della psichiatria cui lo indussero la volontà di non rinunciare del tutto agli interessi letterari insieme alla curiosità destata in lui dai gravi disturbi ossessivi dei quali soffriva Pardo Roques, il parnàs della comunità israelitica pisana che fu poi vittima di un eccidio compiuto dai nazisti nella sua casa durante l’occupazione, alla ricostruzione della cui vicenda intellettuale e umana Arieti dedicò un romanzo nel 1979.
Costretto a emigrare appena laureato dall’Italia a causa delle leggi razziali si stabilisce per un breve periodo in Svizzera e poi, attraverso la Gran Bretagna, negli Stati Uniti dove approda il 6 aprile 1939. Soprattutto la scarsa padronanza dell’inglese, che apprenderà da autodidatta, non gli rende facili i primi anni, ma già nel 1942 appare la sua prima pubblicazione, di carattere istologico, sull’American Journal of Psychiatry. La ricerca di un’occupazione stabile intanto lo porta al Pilgrim hospital di New York, quello che definisce “il più grande ospedale psichiatrico del mondo”, dove ha l’occasione di svolgere quelle fondamentali osservazioni cliniche e umane sugli schizofrenici che sarebbero state fondamentali per lo sviluppo di un suo peculiare modo di vedere la mente umana sana e malata.
Lasciato il Pilgrim dopo la fine della guerra, si dedica alla psicoanalisi frequentando il William Alanson White Institute fondato da Erich Fromm e Harry Stack Sullivan – che sarebbero diventati da allora insieme a Freud, Kurt Goldstein, Georg Groddek e soprattutto Frieda Fromm-Reichman i suoi principali riferimenti – e lì acquisisce gli strumenti teorici necessari a inquadrare le osservazioni realizzate al Pilgrim sull’importanza che le relazioni umane hanno nell’evoluzione della malattia, e Passione cita da un manoscritto inedito di quegli anni rinvenuto nell’archivio:
«Scoprii che alcuni pazienti […] che erano stati considerati senza speranza guarivano, o miglioravano tanto da essere dimessi, a volte dopo anni di ospedalizzazione. A quel tempo questi erano considerati casi di “guarigione spontanea”. Questa spiegazione però non mi soddisfaceva, e guardai più a fondo nella questione. Scoprii presto che queste cosi dette guarigioni spontanee non erano affatto spontanee, ma il risultato di una relazione stabilita fra il paziente e un addetto o un’infermiera […]. Fui colpito dal fatto che persino un processo schizofrenico avanzato potesse dare prova di essere reversibile o favorevolmente influenzato dal contatto umano […]. Avevo imparato che, quale che fosse il beneficio che il paziente aveva potuto ricevere, questo doveva provenire dai suoi legami con almeno un altro essere umano».
Considera perciò centrale, in qualunque tentativo di psicoterapia delle psicosi, la relazione tra curante e curato la cui importanza riporta indietro fino agli ideologues francesi, nei cui studi sul ragazzo selvaggio dell’Aveyron fa risalire la convinzione che in nessun caso lo sviluppo di una funzione mentale possa essere fatto risalire solo a un’originaria dotazione organica, in assenza dell’esposizione al contatto con gli altri esseri umani.
Nei primi anni ’50, prende così corpo l’idea di schizofrenia di Arieti, che si basa essenzialmente, mi pare di poter evincere dal copioso materiale che Passione riporta, su quattro aspetti:
1. In anni nei quali la psichiatria americana andava vieppiù divaricandosi tra sostenitori dell’importanza dei fattori psicologici, relazionali e sostenitori di quella dei fattori biologici nella genesi, lo sviluppo e l’esito della schizofrenia, l’approccio di Arieti si caratterizza per eclettismo, con una attenzione che sarebbe andata negli anni però via via sbilanciandosi in favore del fattore relazionale per controbilanciare il fatto che il clima, nella psichiatria americana, andavano decisamente orientandosi in direzione opposta.
2. Rispetto all’importanza che la psicoanalisi freudiana classica attribuisce alle pulsioni primitive nella vita psichica dell’uomo, Arieti segue la scuola eterodossa statunitense di Sullivan, Fromm-Reichmann e altri e attribuisce al funzionamento cognitivo della mente importanza almeno analoga a quella della vita emotiva. Non ci sono, infatti, nell’uomo soltanto idee che nascono sulla base delle emozioni primitive, ma ci sono anche emozioni che nascono in relazioni alle idee e agli ideali della vita adulta. Contenuti emotivi e organizzazione del pensiero hanno, insomma, la stessa importanza nel funzionamento della mente, e si influenzano reciprocamente. Scrive Passione in proposito: «Nel cuore del ventesimo secolo è dunque [per lui] arrivato il momento di riconoscere che i fattori patogeni più importanti hanno a che fare non tanto con la frustrazione dei bisogni primari, ma con il pensiero e le idee, le rappresentazioni e le aspettative, l’immagine di sé e del mondo».
3. Arieti è così portato a concentrarsi sullo studio del linguaggio e del pensiero schizofrenico che interpreta come un problema di carattere essenzialmente evolutivo, nel quale gli pare di poter cogliere paralleli interessanti con le ricerche antropologiche, neurologiche, di psicologia dello sviluppo e psicoanalisi, con riferimento in particolare a quelle di Von Damarus sui primitivi e al suo concetto di “pensiero paralogico”, che lo psichiatra pisano rivisita nella descrizione del pensiero schizofrenico come “paleologico”.
4. Se la schizofrenia è riportata, di nuovo come in Bleuler infondo, alla centralità dei suoi aspetti formali, non stupisce che, di fronte ad esempio a un fenomeno complesso come quello delle allucinazioni, troviamo Arieti interessato non tanto ad attribuire un significato al loro contenuto, quanto piuttosto a scomporne la genesi dal punto di vista formale (cognitivo), per poter individuare gli strumenti, cognitivi appunto, che consentano al soggetto di contrastarne l’insorgenza. È sua convinzione infatti, riporta Passione, che – come ha appreso dalla Fromm-Reichmann tra gli altri – ci sia sempre nel paziente una parte adulta con la quale poter stabilire un’alleanza, aiutandolo – con una funzione che è quella di un “ambasciatore della realtà” – a divenire consapevole del modo in cui, a partire dai conflitti, si sviluppano i sintomi, e delle modalità con le quali poter ricodificare i sintomi psicotici nel linguaggio normale.
Sono concetti che Arieti espone in quegli anni in numerosi articoli scientifici su riviste prestigiose, che Passione riprende, nei quali non sono mai carenti incursioni filosofiche e riferimenti letterari, insieme però al fermo convincimento che la psichiatria, pur con le innegabili peculiarità e l’arricchimento da parte della psicoanalisi – Arieti si sottopone in quegli anni ad analisi personale – debba rimanere ancorata all’ambito culturale e ai modelli forti della medicina.
È quindi con la pubblicazione nel 1955 del volume Interpretazione della schizofrenia che Arieti ha modo di raccogliere le sue idee e di vedere aumentata la sua fama, al punto che nel 1963 verrà coinvolto come esperto nel processo per l’omicidio dell’assassino del presidente Kennedy.
Pensatore portato a fare dell’eclettismo un valore e abile e infaticabile organizzatore editoriale, tra il 1959 e il 1966 pubblica l’American Hadbook of Psychiatry, che sarà tradotto in Italia da Boringhieri nel 1970 ed è concepito come un’opera volta a dare rappresentazione e voce paritetica a tutti gli esponenti più rappresentativi e le tendenze e le realtà eterogenee della psichiatria americana.
È del 1971, invece, Passione ricorda, il lancio di un progetto ancora più ambizioso, una pubblicazione internazionale alla quale Arieti chiama a partecipare psichiatri di tutto il mondo, inclusa l’Unione Sovietica, che raccolga con cadenza biennale le novità emerse nella disciplina.
Gli orizzonti di dello studioso pisano intanto si ampliano, con una serie di volumi come Il Sé intrapsichico, del 1967, nel quale cerca di sistematizzare le sue idee sul funzionamento della mente. O Le vicissitudini del volere, del 1972, con il quale Arieti opera una riflessione sulla condizione umana che va ben oltre i confini del lavoro psichiatrico e mette al centro l’idea della libertà nel suo rapporto con i condizionamenti – in polemica ad esempio con Skinner – e con l’autorità e il potere, due termini ai quali attribuisce significati opposti. Nella ricostruzione di Passione, attraverso questo scritto lo psichiatra pisano fa i conti con i fenomeni emersi nei suoi anni, a partire dal movimento del ’68 nel quale, nel momento in cui apprezza la tensione libertaria, coglie però criticamente gli esiti più ingenui, dall’estremizzazione della polemica antiautoritaria e della liberazione degli aspetti pulsionali dell’uomo, all’aver posto in termini eccessivamente semplicistici la questione sessuale.
Quanto più ci si allontana dalla neurologia e dalla psichiatria, però, tanto più mi pare di cogliere, nella ricostruzione di Passione, il rischio che l’appello all’etica con il quale Arieti conclude le proprie riflessioni lo porti «in molti punti a imboccare un vicolo cieco di tautologie». Come a dire che l’esito è che, perché il mondo dell’uomo sia più buono, l’uomo dovrebbe essere più buono. E mi permetto di aggiungere, per parte mia, che ciò non mi sorprende.
In primo luogo, perché credo che Arieti incorra, in questo caso, nel rischio comune tanto a molta psichiatria che a molta psicoanalisi di sentirsi, a partire da quei saperi specifici su alcune dimensioni dell’uomo, esperti dell’uomo nella sua totalità e quindi anche dell’oggetto, estremamente complesso e multidisciplinare nella sua natura, che è la società umana, con la dimensione etica e politica che la caratterizza. Per la comprensione delle organizzazioni umane libertà e volontà del soggetto hanno certo importanza, ma solo se colte accanto ad altri fattori dei quali lo psichiatra non ha, in quanto psichiatra, nessuna titolarità a dire la propria rispetto ai cultori di altre discipline, e all’intellettuale in genere. In secondo luogo, perché – come del resto ritengo che accada per una parte consistente degli intellettuali liberal degli Stati Uniti – Arieti affronta temi quali la libertà umana, l’autorità e il potere senza coglierne – come invece fa in quegli stessi anni, ad esempio, in Italia Basaglia grazie tra l’altro alla lettura di Gramsci – la relazione che è imprescindibile con le condizioni storiche e materiali nelle quali libertà e volontà dell’uomo si esercitano, nonché la loro relazione con la questione della giustizia sociale. Il che rischia appunto, spesso, di fare di quell’uomo, del quale ci si occupa, un uomo astratto; e di portare a esisti che suonano spesso banali. Né mi pare una valida soluzione l’idea che Arieti accarezza di poter attribuire, se ho ben compreso la ricostruzione di Passione, pur senza arrivare agli esiti estremi di Siirala, al povero paziente schizofrenico in quanto tale un ruolo di depositario di valori, ai quali gli altri dovrebbero attingere.
È del 1974, comunque, la seconda edizione di Interpretazione della schizofrenia, interamente riscritta rispetto alla prima ma sempre caratterizzata dallo sforzo di un approccio eclettico tra cultura biologica e psicologica in anni nei quali andavano divaricandosi, prendendo in considerazione, per scartarli, approcci, nel frattempo emersi, volti ad attribuire importanza alle caratteristiche della madre o della famiglia nella genesi della schizofrenia; o all’idea, avanzata da Thomas Szasz, che la schizofrenia non esista in quanto malattia ma non rappresenti che un mito. Il successo con il quale l’opera viene accolta è di nuovo straordinario.
Gli anni successivi vedono Arieti impegnato a estendere, da una parte, la propria idea di mente all’interpretazione dell’altra grande psicosi, quella depressiva; ma soprattutto, a partire dal 1973 che è l’anno di insediamento della Task Force per il DSM, impegnato a contestare l’approccio riduzionistico e semplicistico alla nosografia – che è dal suo punto di vista un tentativo di «cercare disperatamente di rendere coerente ciò che non lo è» – ormai egemone nell’American Psychiatric Association, e schierato in favore della classificazione dell’OMS per la maggiore complessità e perciò fedeltà al mondo reale.
Lo stesso anno, Arieti, davvero infaticabile organizzatore, dà alle stampe una nuova rivista a carattere internazionale, il “Journal of the American Academy of Psychoanalysis”, che sotto la sua direzione durata fio al 1981 – e avendo nel board internazionale tra gli altri Gaetano Benedetti ed Emilio Servadio – si interroga sulla questione del rapporto tra psichiatria, psicoanalisi, medicina dando così luogo con il DSM, nella lettura di Passione, a due «risposte completamente diverse, e a tratti divergenti, a una comune ricerca di rigore e scientificità; due stili, due bussole, per orientarsi in una stessa terra».
Arieti pubblica altre due monografie, una dedicata alla creatività e all’arte, nel 1976; e l’altra – Abrahm and the contemporary mind, pubblicata nel 1981 – alla spiritualità.
In entrambi i testi, per Passione, emerge ancora una volta la tensione di questo clinico e ricercatore decisamente eclettico, curioso e alieno da pregiudizi a spingere la scienza al limite ultimo delle sue potenzialità, per poi però arrestarsi di fronte all’irriducibilità di tutto ciò che ha a che fare con la dimensione psicologica, relazionale, artistica, spirituale dell’uomo ai fenomeni chimici e fisici che la sostengono. Imperscrutabile è il “misterioso salto tra la mente e il corpo”, scriveva all’inizio del ‘700 un medico dello Studio di Parma del quale anni fa mi sono occupato; e imperscrutabile, insomma, rimane, mi pare che concluda, nella lettura che ne fa Passione, nei suoi ultimi scritti anche questo grande psichiatra del secolo scorso, Con il che conclude una lunga e fortunata carriera iniziata sotto i peggiori auspici, quelli di una patria dalla quale ha dovuto allontanarsi perché la violenza mista alla stupidità hanno creato le premesse perché ne fosse improvvisamente e immotivatamente bandito (clicca qui per il link).
Un occhio particolare Passione dedica infine, comprensibilmente, alla ricezione di Arieti – che, negli ultimi anni, rientrava regolarmente in Sardegna per i periodi di vacanza – in Italia, a proposito della quale troviamo, tra gli intellettuali più attenti, Ernesto De Martino, Giovanni Enrico Morselli, Mario Gozzano, Vito Maria Buscaino, Carlo Lorenzo Cazzullo, Mara Selvini Palazzoli e soprattutto Pier Francesco Galli che, sempre pronto in quegli anni ad afferrare tutto intorno le cose interessanti per proporle alla sonnecchiante psichiatria italiana, promosse la pubblicazione della prima edizione di Interpretazione della schizofrenia per Feltrinelli già nel 1962.
Nel video il seminrio su Silvano Arieti tenuto presso la Scuola Normale di Pisa in occasione della dedica ad Arieti di un francobollo commemorativo da parte delle Poste Italiane nel 2014, centenario della nascita.
Sul volume la presentazione
Sul volume la presentazione organizzata dall’Istituzione Gianfranco Minguzzi con Bruna Zani, Roberta Passione, Angelo Fioritti, Paolo Peloso, Marco Conci, Rita Bruschi, Giovanni U. Corsini e i figli James e David (attendere alcuni minuti per l’apertura del video)
https://metrocloud.cittametropolitana.bo.it/index.php/s/fw5hAOOREbKWTMV