In un volume in onore del prof. Osvaldo Polimanti, pubblicato nel 1941 su la «Rivista di Biologia», sotto l’egida del Centro studi di genetica umana di Milano diretto da Luisa Gianferrari, Silvio Brambilla intervenne sui Problemi di psichiatria di razza.
Egli lamentava la scarsità degli studi dedicati alla psichiatria comparata delle razze, in particolare le “grandi razze”, a differenza di quanto accaduto nella medicina generale nella quale sarebbero stati resi disponibili “utilissimi raffronti” circa le “componenti razziali nella eziopatogenesi di molte malattie organiche”. Inoltre nei pochi studi di psichiatria razziale realizzati i “criteri strettamente scientifici fanno completamente difetto e le descrizioni delle malattie mentali delle razze diverse dalla nostra rivestono per lo più un carattere di reportage, dove, più che di una disanima sintomatologica e fenomenologica, si tratta di impressioni ricche di momenti affettivi e ambientali”.
Gli studi razziali potevano dare un contributo decisivo “ai fini di una diagnosi e di una classificazione più precisa delle malattie mentali” assai necessaria poiché “mancano, almeno fino ad oggi, sicure conoscenze sui fattori causali estrinseci della malattia stessa” ed “è necessario mettere in evidenza rapporti psichici comprensivi, […] in quelle malattie che, in mancanza di alterazioni somatiche dimostrabili, vengono interpretate secondo meccanismi psicogenetici funzionali o processuali ereditari e che sono proprio le più importanti e le più gravi, come la schizofrenia, la psicosi maniaco-depressiva, le reazioni psicogene e le psicopatie”.
Fra i primi compiti della psichiatria di razza vi era quello “di stabilire sistematicamente, nel mondo dei fenomeni psichici, quei dati obbiettivi che, non disgiunti da quelli somatici, debbono servire a discriminare quello che è fenomeno razziale da quello che è fenomeno strutturale o processuale: a sfrondare, liberare da tutte le componenti costituzionali, storiche e ambientali il vero nucleo del processo psicopatologico. È lo studio delle cause determinanti la fisionomia del quadro morboso in funzione dell’ambiente, della storia e del grado di civiltà di quella razza, o meglio della popolazione della quale è la costituente prevalente”. E cita Kraepelin che aveva affermato: “Se le caratteristiche di un popolo si manifestano nella sua religione e nei suoi costumi, nelle sue espressioni artistiche e spirituali, nei suoi fatti politici e nel suo sviluppo storico, essi dovranno pur rivelarsi nella frequenza e nel tipo dei suoi disturbi mentali, in specie quelli di natura «endogena»”.
Si trattava di una indagine assai impegnativa perché “non è facile precisare quanto è caratteristica etnica e quanto è invece veramente abnorme nelle manifestazioni dello spirito, e ciò tanto maggiormente se allontanandosi dalla propria si va verso le razze inferiori”. Al riguardo vi erano anche autori che ritenevano che “a noi popoli di cultura occidentale rimarrà sempre preclusa la comprensione degli stati interiori dello psichismo delle razze inferiori: quasi nello stesso modo che ci è impossibile di comprendere o immedesimarsi nel pensiero schizofrenico”.
Luigi Benevelli
26 febbraio 2014
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