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Simposio: PATHOPHYSIOLOGY AND TREATMENT OF AFFECTIVE DISORDERS

3 Dic 12

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M. POPOLI Università di Milano

Molecolar biology of affective disorders

Dopo aver brevemente ricordato le ipotesi aminergiche e recettoriali per i disturbi dell'umore, Popoli sottolinea l'attuale interesse per i meccanismi intraneuronali a cascata, coinvolgenti CAMP, proteinchinasi ed anche fattori di trascrizione nucleari; diversi studi li hanno identificati come target della terapia antidepressiva a lungo termine mentre non sembrano essere modificati da quella acuta, altri recenti studi clinici hanno inoltre riscontrato, in pazienti con disturbi dell'umore, la presenza di anomalie a livello del sistema di fosforilazione CAMP-dipendente sia nelle cellule periferiche che, in studi postmortem, nel cervello. Popoli presenta due affascinanti ipotesi: l'"ipotesi neurotrofica della depressione" e l'"ipotesi della plasticità sinaptica". La prima tiene conto delle evidenze secondo le quali la depressione, così come anche lo stress, nel tempo danneggiano le cellule cerebrali, in particolare a livello dell'ippocampo e della corteccia prefrontale, diminuendo la sintesi del fattore neurotrofico BDNF, mentre gli antidepressivi e l'ECT determinano un incremento del PDNF con aumento della sopravvivenza e della crescita neuronale. La seconda ipotesi sottolinea come gli antidepressivi abbiano un ruolo anche nella modulazione della trasmissione sinaptica, grazie alla loro azione su molecole coinvolte nella plasticità quale, ad esempio, la CaMKII che viene attivata nella terapia a lungo termine con antidepressivi con aumento dell'autofosforilazione e della fosforilazione delle proteine substrato in gran parte coinvolte nella regolazione del rilascio dei neurotrasmettitori.

(G. Racagni, M. Popoli, J. Perez, Università di Milano; N. Brunello, Università di Modena.)

(Consogno et al, 2001; Verona et al, 2000.)

 

D. SOUERY Brussels

Management of resistant depression

Parlare di depressione resistente al trattamento (TRD) è sempre molto complesso, così come lo è il confronto fra studi ed esperienze diverse dal momento che manca un accordo unanime sui criteri diagnostici, sui sottotipi di depressione e le comorbidità da considerare, sulla definizione di cronicità, dei criteri per parlare di remissione e del numero e del tipo di terapie antidepressive da effettuare prima di poter parlare di depressione resistente. Esiste anche la pseudoresistenza riconducibile all'inadeguatezza di durata, dosaggi e compliance alla terapia. Souery riassume le più comuni strategie da adottare in caso di depressione resistente: la massimizzazione della terapia iniziale per quel che riguarda i tempi e le dosi; lo switch fra diversi antidepressivi; le terapie di augmentation mediante associazione di più antidepressivi fra loro o di altre sostanze agli antidepressivi (ormoni tiroidei, litio, antiepilettici, neurolettici atipici es. olanzapina+fluoxetina, pindolo, metilfenidato 10-20 mg); il ricorso all'ECT, alla psicoterapia, alla psicochirurgia, alla light therapy, stimolazione nervo vago… Sottolinea come gli studi controllati a questo riguardo siano ancora troppo pochi e raccomanda di non sottovalutare l'efficacia dello switch fra diversi antidepressivi che comporta risultati in una buona percentuale di casi (fino al 50-60%), non solo fra triciclici e serotoninergici, ma anche nell'ambito della stessa classe; i risultati migliori rimangono quelli derivanti dal passaggio dai triciclici agli iMAO (50-70%). Ricorda inoltre come spesso si aspetti troppo per ricorrere all'ECT (spesso più di un anno), mancando del resto chiare linee guida in questo senso. Presenta i risultati preliminari di uno studio multicentrico europeo su 453 pazienti con depressione maggiore volto anche a trovare un linguaggio e criteri comuni nell'ambito della depressione resistente. Le caratteristiche cliniche associate ai non responders, dopo una terapia a dosi adeguate durata 4 settimane, sono risultate: sesso femminile, tratti melanconici soprattutto nelle donne, ospedalizzazione, severità del quadro clinico, comorbidità con i disturbi d'ansia, numero delle terapie effettuate in precedenza senza successo.

(D. Souery et al, Neuropsychopharmacol., 1999.; A. A. Nierenberg, J. D. Amsterdam, J. Clin. Psychiatry, 1990.)

 

W. GREIL Monaco (Germania)

Pharmacological long-term management of bipolar disorder

Greil apre e chiude la sua relazione ricordando come la terapia del paziente bipolare debba comprendere diversi approcci: farmacologico, clinico di gestione del paziente e di alleanza terapeutica e psicoterapico. Cita le parole di Jamison (1996), ella stessa affetta da disturbo bipolare, "servono entrambe le cose, le pillole e la psicoterapia per accettare le medicine e la malattia".

Ricorda il numero ormai elevato e tendenzialmente in crescita delle possibilità di scelta per i trattamenti di mantenimento del disturbo bipolare ed i conseguenti tentativi di differenziare l'efficacia dei diversi farmaci. Cita lo studio randomizzato MAP a lungo termine (2,5 anni) che ha valutato la diversa efficacia di litio e carbamazepina (W. Greil, N. Kleindienst, J. Clin. Phychopharmacol., 1998 ed Int. Clin. Phychopharmacol, 1999). Dai risultati emerge, per quel che riguarda il litio, una superiorità nel trattamento dei pazienti con disturbo bipolare I di tipo classico, una scarsa incidenza di drop out ed una significativa riduzione dell'incidenza di suicidio. La carbamazepina è ugualmente efficace al litio nei disturbi bipolari di tipo II e NAS, superiore nel trattamento dei disturbi bipolari non classici (con sintomi psicotici incongrui all'umore e comorbidità) ed appare più facilmente accettato dai pazienti. Per quel che riguarda il valproato mancano studi controllati a lungo termine, sembra essere particolarmente indicato nei pazienti con cicli rapidi, Greil cita il lavoro di Juckel (J. Clin. Psych. 2000), su un paziente con cicli ultrarapidi con follow up di tre anni. La lamotrigina può essere utile nella depressione bipolare per l'efficacia antidepressiva, Greil ricorda anche come, al congresso APA a New Orleans, sia stata segnalata come promettente nella terapia del disturbo bipolare di tipo II a cicli rapidi. Il topiramato può essere interessante per l'effetto di calo ponderale. Infine l'olanzapina sembra avere un ampio spettro di efficacia, oltre che come antipsicotico, anche come antimaniacale, stabilizzante del tono dell'umore e forse come augmentation nelle depressioni resistenti. In tutti i casi la terapia deve essere protratta nel tempo, non meno di cinque anni e la vera stabilizzazione non inizia prima di un anno di terapia continuativa.

 

Y. LECRUBIER Parigi

Relapse and antidepressant

Lecrubier mette in evidenza l'alto tasso di ricaduta dopo un episodio depressivo: 10-20% se il paziente continua la terapia e 20-50% se la terapia è stata sospesa. Il tasso di ricadute, dice, è legato alla presenza di sintomi residui dopo la terapia a breve termine (6-12 settimane). I sintomi residui sono molto comuni nei pazienti, solo il 17% dei responder non ne ha; di solito sono sintomi, anche se più sfumati, simili come qualità e proporzione a quelli dell'episodio depressivo, possono essere sia molto tipici (depressione, ansietà, anedonia, sintomi somatici…) che meno (irritabilità, impulsività). Sono più frequenti nei pazienti: anziani, con sintomi severi, ricoverati, con comorbidità ed elevata disabilità e nei quali l'inizio della terapia è stato tardivo; quest'ultimo è un fattore di notevole importanza, ma di solito non tenuto in sufficiente considerazione. I sintomi residui costituiscono un fattore predittivo delle ricadute molto forte, infatti mentre nei pazienti senza sintomi residui il tasso di ricaduta è pari al 2%, in quelli che li presentano è del 75%. La soglia di predittività di tali sintomi per le ricadute è pari ad un punteggio alla scala Hamilton = 7, pazienti con Ham<6 hanno tasso di ricadute del 9%, pazienti con Ham>10 del 52%. Altri fattori predittivi di ricaduta sono la presenza di comorbidità (soprattutto se più di 2-3 comorbidità) ed il deficit funzionale residuo, un eccellente fattore predittivo, anche indipendentemnte dai sintomi residui. Quindi Lecrubier sottolinea la necessità in caso di persistenza di sintomi residui anche lievi, a maggior ragione se associati ad un discreto grado di deterioramento funzionale, di una riorganizzazione degli interventi con ottimizzazione della terapia psicofarmacologica e ricorso a trattamenti psicoterapici.

(Faravelli, 1986; Mintz, 1992; Kupfer e Franek, 1992; Paykel, 1996; Flint e Rifat, 1997.)

 

S. J. WILSON Bristol

Sleep, depression and antidepressant treatment

S. J. Wilson sottolinea la stretta associazione fra disturbi dell'umore ed alterazioni del ritmo sonno – veglia. I disturbi del sonno sono spesso i primi sintomi a comparire nell'episodio depressivo, con alterazione dell'efficienza e dell'architettura del sonno, contribuiscono a definire diversi sottotipi di disturbi depressivi (d. atipica), la deprivazione di sonno migliora l'umore, l'insonnia aumenta il rischio di suicidio ed infine un peggior profilo del sonno è correlato ad un maggior tasso di ricadute. S. J. Wilson presenta i risultati di uno studio relativo agli effetti a breve e lungo termine sul sonno di diversi tipi di farmaci antidepressivi, in pazienti depressi, con disturbi del ritmo sonno-veglia ed in controlli sani. L'idea è quella di trovare, in futuro, utili correlazioni con la risposta alla terapia e di ottenere una maggior delucidazione riguardo i meccanismi sottesi all'azione antidepressiva.

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