Gli echi dei fatti di Bibbiano ancora risuonano, soprattutto in Emilia e Romagna; e sono diventati parte di un dibattito politico che mi è apparso troppo spesso molto strumentale e sicuramente lontano dalle ragioni e dai bisogni di cura delle famiglie e dei minori.
Ho cercato di esprimere oltre due anni fa proprio su questa rubrica[1] cosa pensavo su alcuni aspetti clinici e di politica sanitaria a mio avviso insiti in quel caso. Mi preme ora porre in evidenza alcuni elementi del setting che a mio avviso occorre tener presente sia in generale nel momento della presa in carico dei bambini; sia ancor più nel caso di bambini appartenenti a famiglie problematiche.
Quando ad uno psicoterapeuta dell’età evolutiva viene inviato un bambino, al di là delle ragioni dell’inviante (e quindi anche dell’eventuale diagnosi fatta da costui, fosse pure Sigmund Freud!), egli deve innanzitutto coinvolgere i genitori, per sentire direttamente da loro cosa pensano del fatto che lui osservi il bambino, per spiegare come opera e per ottenere il loro consenso all’osservazione ed al loro coinvolgimento nella fase iniziale, che dovrà concludersi con una eventuale presa in carico (per una psicoterapia, un counselling, un invio ad altri specialisti …) o una restituzione che escluda queste eventualità.
Questo è solo il primo ‘contratto’ che lo psicoterapeuta deve fare quando il suo paziente è un bambino. Contratto che nel caso in cui lo psicoterapeuta operi nel pubblico è preceduto dall’implicito assunto che l’istituzione in cui egli opera circoscrive alcuni elementi che poi eventualmente definiranno il setting (incidendo ad esempio sulla cadenza delle sedute). Se i genitori non accettano il suo modo di procedere egli è tenuto a prendere atto del loro rifiuto, ed eventualmente ad inviarli, senza alcun vincolo, ad altri specialisti.
Quando però lo psicoterapeuta ha ‘visto’ il bambino entrambi devono più o meno esplicitamente porsi delle domande. Lo psicoterapeuta deve chiedersi se sta bene con quello specifico bambino; e se è in grado di 'reggere' le problematiche che emergono dopo i loro primi incontri. Allo stesso modo il bambino, come prima di lui i suoi genitori, dovrà chiedersi se sta bene con quel terapeuta. Questo concerto di considerazioni e di risposte è importantissimo, poiché solo così sarà possibile confidare su una buona alleanza terapeutica[2] –
2. Sapere diagnostico, sapere dialogico e sostegno psicologico
Detto questo, e prima di addentrarci nell’analisi dei vari problemi che nascono nel momento della presa in carico per un sostegno psicologico dei bambini provenienti da famiglie problematiche, mi preme puntualizzare ciò che mi deriva da tutti i miei maestri, e che Diego Napolitani – per tutti – puntualizzava in questo modo: “il nostro è un sapere dialogico, e non diagnostico”. Un sapere cioè che trova le sue fondamenta nell’arte dell’ermeneutica (Ricoeur), e non nelle scienze esatte.
Ciò vuol dire tante cose, nient’affatto scontate, che valgono nel definire le fondamenta dell’arte della psicoterapia. Cose che in particolare, nel momento della presa in carico, dovrebbero esortarci a non immaginare questo momento come un qualcosa di graniticamente incapsulato in una procedura simile a quella di un chirurgo che operi un determinato organo del nostro corpo. Ma come una prassi che implica un inesausto lavoro che proviene dai nostri maestri, e che lentamente viene metabolizzata fino a diventare una modalità di lavoro personale. In un passaggio all’incontrario che dal linguaggio burocratico-curiale porta ciascuno ad acquisire un proprio personale ‘dialetto’. Che ci faccia diventare “analfabeti di ritorno” diceva Pier Francesco Galli.
In modo tale che nell’incontro con il paziente si eviti di mettere di fronte due soggetti – il paziente e lo psicoterapeuta – ridotti l’uno ad “attore secondo copione” e l’altro a “critico secondo tradizione” – cioè l’uno schiacciato sulla diagnosi[3] e l’altro su ciò che il DSM5 dice su quella diagnosi – ma due soggetti dialoganti che, nel caso del bambino, dialogano attraverso il gioco.
Perciò, per quanto attenti alle regole, nel momento in cui ci disponiamo a prenderci cura del bambino non dobbiamo farne un totem: al dialogo come al dialogo! Al gioco come al gioco! Altrimenti c’incontriamo con i nostri pazienti solo in maniera fortuita e tangenziale.
3. Sostegno psicologico e istruttoria
Il problema però si complica allorché di mezzo ci siano adozioni, svantaggio socio-culturale, deprivazione, allontanamenti, affidi, maltrattamenti, abuso. In questi casi infatti è necessario che il lavoro di sostegno psicologico del bambino e della sua famiglia[4] sia affiancato, e a volte distinto da quello che solitamente viene chiamato ‘istruttoria’, cioè da un insieme di analisi e di valutazioni volte ad accertare: – la presenza o meno di spazi esterni\interni negli adottandi; – la necessità dell’avvio dei minori alla frequenza di strutture adatte a colmare lo svantaggio o per affrontare adeguatamente i problemi insorti a causa dello stato di deprivazione; – le condizioni che suggeriscono l’avvio dei processi di affido e di allontanamento dei minori da famiglie che risultino inadeguate o peggio.
La presenza nell’istruttoria di uno sguardo di tipo valutativo rende questo momento qualitativamente diverso da quello che lo specialista assume nel momento della cura psicologica. Poiché, mentre la cura, come dicevano sopra, si basa su un sapere di tipo dialogico che non ha nulla di valutativo, l’istruttoria non può esimersi dal valutare, e per ciò risulta più vincolata a criteri e modalità di lavoro non dialogiche, ma diagnostiche. Gli stessi echi che sul piano controtransferale i singoli pazienti attivano nello specialista, nel primo caso fanno da sfondo in maniera utile ed indiscriminata alla cura, nel secondo vanno subordinati in maniera discriminata alle istanze di tipo valutativo.
Dicevamo sopra che nel caso in cui vi sia la necessità di un’istruttoria il lavoro di sostegno psicologico debba essere affiancato, e a volte distinto da quello di tipo valutativo. Nei casi più lievi questo non è un problema rilevante. Facciamo l’esempio della segnalazione da parte di un’assistente sociale per l’accesso di un bambino con svantaggio socio-culturale in un gruppo di recupero scolastico guidato da uno psicologo. Se questo psicologo si astenesse dal fare una valutazione circa la compatibilità dei problemi di cui questo bambino è portatore con lo scopo del gruppo, ciò potrebbe mettere a repentaglio il gruppo stesso. Una volta che in sede valutativa questa possibile incompatibilità venga esclusa, ecco che lo stesso psicologo può tornare a operare nel gruppo, inserendo in esso il bambino senza alcun problema.
Diverso è il caso di quelle istruttorie in cui c'è di mezzo la possibilità che il bambino venga tolto alla famiglia d’origine:
– In questi casi, a mio modo di vedere, innanzitutto l'analisi iniziale del caso (istruttoria si, istruttoria no) deve essere fatta da personale specializzato, che guidi una equipe poli-professionale, e che possa fruire del contributo di altri colleghi psicoterapeuti non coinvolti nell'istruttoria che si prendano cura del bambino, dei genitori e di coloro cui il bambino venga eventualmente affidato, in modo che il tema dell'alleanza terapeutica con l’uno e con gli altri sia affrontato a partire da una netta distinzione con l'istruttoria.
– In secondo luogo è necessario che anche coloro che si occupano dell'istruttoria possano fruire della supervisione di personale specializzato.
– Ed infine assolutamente non secondaria è la necessità di prendersi cura di se stessi da parte di tutto il gruppo poli-professionale ed inter-istituzionale.
4. Far diventare il gruppo di lavoro un luogo di cura del gruppo stesso
Deliana Bertani, responsabile del Servizio di Psicologia Clinica dell’Ausl di Reggio Emilia, ha guidato per molti anni e fino al 2009 il gruppo distrettuale ‘Famiglie Multiproblematiche’, che comprendeva operatori dei vari servizi dell’Ausl (Psicologia Clinica, Psichiatria, Sert, NPI, Servizio Sociale Ausl), e quelli dei Servizi Sociali del distretto e del comune di Reggio Emilia. In un suo post del 23 Ottobre 2019 così definisce questo lavoro di cura:
"si trattava di un lavoro “che comprendeva il problema dell’abuso e degli affidi, ma che andava ben al di là di essi, e che comprendeva anche la ‘cura’ del gruppo stesso degli operatori coinvolti sottoposti ad una quotidianità particolarmente stressante: nel nostro caso la ‘cura’ del gruppo era centrata sul lavoro di supervisione affidato al Prof. Pasquale Busso, dell’Univ. di Torino, e al continuo confronto al nostro interno che, fra l’altro, ci ha condotto nel tempo ad affinare le nostre capacità di rapporto con quei gangli della rete più ampia (Ospedale, Magistratura, Forze dell’Ordine, volontariato, etc) che orbitano intorno al quotidiano lavoro di cura[5].” –
A mio modo di vedere questo tipo di approccio, basato non su ottiche aziendalistiche, ma su criteri di servizio andrebbe più attentamente preservato, e non solo in questi casi più gravi e complessi.
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[immagine all'inizio: "Famiglia Stick" con licenza di dominio pubblico]
Bibliografia:
– Busso P., “La consulenza sistemica con le famiglie multiproblematiche”, in Frison R. (a cura di), 2004, Manuale di psicoterapia sistemica, Ed. Sapere, Padova
– Napolitani D., 1986, ”Di palo in frasca”, Corpo 10, Milano
– Ricoeur P. 1966. Della interpretazione. Il Saggiatore. Milano
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