(NdR: Mentre scrivo queste note è il 10 di settembre ed i giornali, come ieri la televisione, sono pieni di testimonianze e ricordi di Lucio Battisti, il più grande artista POP ( nella sua accezzione estetica) italiano di questo secolo, deceduto ieri mattina a Milano. Come tutti, nella mia generazione di born in the Fifties sono cresciuto ascoltando le sue canzoni, mi è quindi venuto naturale il pensiero di dedicare questo editoriale di settembre a questo avvenimento che, emozionalmente, credo abbia colpito tante persone ma ho pensato di farlo in maniera indiretta con una breve e spero sentita rimeditazione sul significato della musica per noi umani in quell'età preziosa e irripetibile nella sua crudele brevita' che è l'adolescenza e l'ho fatto senza riferirmi direttamente a Lucio come credo lui avrebbe aprezzato facessi.
Gli eroi debbono morire giovani, Battisti ha scelto di scomparire da tanti anni alla nostra vista, lasciandoci in dono la sua musica che ognuno di noi può associare liberamente al suo percorso esistenziale…….)
Ogni vita ha il suo Soundtrack…….
Possedevo, da bambino, un piccolo registratore a bobina da mezzo pollice della GELOSO, di plastica beige, con i tasti rotondi multicolori, uno di quegli oggetti che oggi fanno bella mostra di sé nelle bancarelle delle fiere itineranti di modernariato, assieme a vecchie radio in bachelite e verdi lampade da tavolo, le gloriose ministeriali.
Mi dedicavo alla registrazione creativa: nel lavandino del bagno facevo il rumorista, con un po' d'acqua, la bocca e le mani registravo il sonoro di incredibili western d'azione con sparatorie (mi veniva meglio lo sparo del winchester di quello della pistola), cavalcate e guadi e scalpiccii di destrieri.
La prima serata del Festival di San Remo mi piazzavo accanto al piccolo altoparlante della nostra mastodontica televisione che profumava di ozono e nel cui interno, dietro il pannello posteriore di cartone bucherellato, baluginavano le valvole ricoperte di polvere: quando una saltava arrivava il tecnico con la sua valigetta con tutti i triodi ordinati, ognuno infilato sotto una cinghietta elasticizzata. Io speravo non trovasse al primo colpo il difetto per passare ancora un po' di tempo, affascinato, con la testa infilata dentro quel mondo misterioso, normalmente inaccessibile.
Con il braccio teso, controllando ogni tanto, con la coda dell'occhio, che la bobina girasse regolarmente, obbligavo la famiglia intera al più religioso silenzio, per non disturbare la registrazione; dalla seconda serata in poi venivo spedito a furor di genitori in cucina a continuare i miei esperimenti con la radio, lasciando a mamma e papà il sacrosanto diritto al libero commento a alta voce, senza il quale nessuna esibizione di Tony Dallara o Joe Sentieri, il cantante col saltino, aveva reale sapore.
Quando si è piccoli la musica è un rumore di fondo, uno dei tanti, difficilmente associato ai fatti della vita; l'unico motivo che ho ancora in mente è il Piccolo Montanaro, che con i miei compagni di sventura storpiavamo e stonavamo, all'unisono, nei lunghi pomeriggi di studio al pianoforte nella scuola di musica di Suor Maria Benvenuta, la mano più pesante del West, nelle stanzette dell'ultimo piano della torre del collegio.
Se penso al rituale religioso e un po' ossessivo con cui mi accosto, oggi, alla musica, chierico attento al millimetrico posizionamento dei diffusori e di me stesso nei loro confronti, teso costantemente alla onerosa e infinita ricerca di una perfezione irraggiungibile della riproduzione musicale, fatta di interfacciamenti ottimizzati tra componenti iperselezionati e, ciò non di meno, perennemente sul punto di essere sacrificati; tra basi di appoggio antirisonanti a prova di terremoto californiano e portentosi liquidi per la pulizia dei contatti di composizione misteriosa e magica; tra stabilizzatori di corrente capaci di amperaggi titanici, iniziatici giradischi scozzesi, permanentemente bisognosi di set-up microchirurgici, emersi dalle nebbie della mente di scostanti profeti fondamentalisti delle Highlands, bracci di lettura tangenziali, svizzeri, numerati e costosi come i Rolex dei macellai e fonorivelatori preziosi, costruiti a norme NASA, seguendo rigidi principi Zen, da artigiani giapponesi ottuagenari; tra capricciosi sistemi di altoparlanti isodinamici, elettrostatici, ibridi, tweeters a nastro o a cupola, woofers e subwoofers in grado di riprodurre, in maniera realistica, pure le cannonate vere dell'edizione Telarc della Ouverture “ 1812 ” di Peter Ilyich Tchaikovsky; tra DAT , DAC, DSP, DVD, bi-amping, bi-wiring e preamplificatori minimalisti, privi cioè degli odiatissimi e, soprattutto, inammissibili controlli di tono, a valvole cinopopolari o cecoslovacche, selezionate una a una, a orecchio, da inflessibili e instancabili sommelier termoionici statunitensi e perfettamente accordate tra loro come gli strumenti del Philarmonia Quartet Berlin, con alimentazioni super stabilizzate degne di una fotoelettrica dei pompieri, come quelle che illuminavano il fango delle notti del dopo alluvione di tanti anni fa; tra pesanti amplificatori finali computer-grade in classe A purissima, mirabolanti kits di modifica e di upgrade, dalla apparente semplicità di un tanka giapponese, proposti col contagocce da progettisti-filosofi neozelandesi e cavi di segnale e di potenza di ogni tipo di diametro o fattura, connettori dorati pagati al prezzo dell'oro massiccio lavorato, sulla spinta emozionale del consiglio volubile dell'ultimo guru d'oltre oceano con le orecchie da pipistrello, sperduto tra pagine e pagine di recensioni e prove d'ascolto cariche di esoterismo multi linguistico, bilanciamenti tra i canali, DIM, TRITIM, risposte in frequenza, linearità, microcontrasto, impedenza, distorsione, dinamica, rapporto segnale-rumore e scena acustica, correndo il rischio di finire per ascoltare più il suono che la musica.
Se penso a tutto ciò, mi viene quasi da sorridere ritornando con la mente alla mia prima, grigia fonovaligia stereo della LESA, a cui credo non cambiai mai la puntina e ai dischi rigati e gracchianti che hanno accompagnato gli anni della mia giovinezza, con quei long playings con annotati, accanto ai titoli, i voti di gradimento, come faceva Roberto, il primo della classe, che io cercavo, almeno in questo, di imitare, con i 45 giri col mio nome scritto sopra col pennarello, messi in un sacchetto e portati alle nostre festicciole danzanti tra compagni di classe, i ragazzi appiccicati al muro da una parte, le ragazze dall'altra parte come in chiesa o in bagno, qualche impacciato e sudaticcio approccio nel mezzo al suono della “ Canzone di Marinella ” o della “ Canzone dell'amore perduto ” che adesso so, dottamente, essere un abile plagio di un motivo di Georg Philipp Telemann ( Concerto per tromba in re maggiore ), ma che ciò non di meno continua a farmi venire la pelle d'oca, « Ti sei divertito ? », « Sì, mamma. » e tutti e due sapevamo che non era vero.
Quando ritorno, però, con la mente alla mia valle, che si inerpica ossuta verso le sorgenti del Lys, oltre la stretta cresta della morena del ghiacciaio del Rosa, quando penso alle mie estati trascorse a Gressoney all'ombra del Castello della Regina Margherita c'è una musica che suona nel mio cuore. Alto sul paese, immerso nel verde cupo di pini secolari, grigio sprangato e inaccessibile, il Castello era un magico scrigno di tesori segreti, visitato, una volta, in compagnia di Laura, la figlia del proprietario. Suo padre, si diceva lo avesse comperato, con i guadagni del suo florido commercio di tende da campeggio, per onorare le sue nostalgie monarchiche o forse, per soddisfare le sue inconfessabili megalomanie di uomo piccolino, si era scelto un castello anziché il sogno di un impero bell'abissino, ma lo aveva lasciato, nel tempo, cadere in lenta rovina per l'eccessivo onere della manutenzione e della ristrutturazione e viveva con la famiglia nelle per altro lussuose dependances all'ingresso del parco.
Il massiccio Castello Savoia, con quelle stanze polverosamente vuote e fredde, con i pavimenti e gli scaloni di legno scricchiolanti sotto i nostri passi sospesi e le tappezzerie a traliccio, ammuffite e sbrindellate, in stoffa tessuta a Biella, con quei fantasmi di mobilio alle pareti, con quel gusto Liberty floreale, ormai solo intuibile, in ambienti una volta sfarzosi, vestigia inutili e un po' patetiche delle notturnità spesso inviolabili di una esistenza concreta e del sogno d'amore del giunonico climaterio dell'ex regina d'Italia, su su lungo la scala a chiocciola fino alla stanzetta rotonda, piena di fascino misterioso, all'apice della torre più alta da dove, quasi come in un sogno da Ludwig di Baviera, si domina la valle scoscesa, il fiume con quell'acqua torbida e fredda che sa di vento di montagna, il cemento sfrontato dei condomini, il paese vecchio e le sue case: muri spessi, piccole finestre, scuri pavimenti in legno scricchiolanti e polverosi, grandi stufe di pietra grigia con sopra inciso il monogramma della casata e l'anno della costruzione, vasi di rossi gerani appesi ai davanzali della breve coloratissima estate valser, nel mezzo il Cimitero e la Chiesa col campanile aguzzo, Dresal e la piana verde di Chemonal, il monte Rosa con le sue cime, i suoi ghiacciai, i suoi rifugi, il Castore, il Sella, la Dufuor, la Gnifetti, il Lyskam, la Margherita, appunto.
Quando penso ai quei giorni, dal sapore croccante di assonnato pane abbrustolito, marmellata di mirtilli, burro e caffelatte, spesi o persi tra Piazza Umberto e Valdobbia, tra il torneo di tennis di Ferragosto e una gita al rifugio Sottile o alla Cialfrina Superiore, tra pranzi con, immancabile ospite d'onore, l'allampanato Don Chilometro, il vecchio parroco che ogni mattina d'estate, percorrendo ad ampie falcate da montanaro la vallata, leggendo il breviario, faceva il giro delle villeggianti più devote a raccogliere prenotazioni per un invito, fiutando i sapori della cucina e ordinando i suoi menu preferiti, specie da quando gli era morta la perpetua e la sera doveva prepararsi da sé il desinare e cene alla Capanna Carla affollate e rumorose, a prezzo fisso contrattato, tra una incazzosa partita alla Belotte coi valligiani odorosi di grappa del Bar Lysioch e una furibonda sfida calcistica tra Issime e Saint Jean, senza intervallo per non perdere il poco fiato, tra una cioccolata con panna da Favre a Trinité e una crostata di frutta al caffè Gambrinus, tra un panino con fontina e speck allo Stambecco e casa tua, c'è una musica che accompagna i miei ricordi: la tua“ Whiter shade of pale ”, il tuo “ Sound of silence ”.
Grazie Bollorino per i tuoi
Grazie Bollorino per i tuoi ricordi che ridestano dolcemente i miei: cambiano i luoghi, ma suoni, odori, situazioni e , penso anche gli anni, sono gli stessi.
Grazie per averli espressi così poeticamente.