Quando la complessità diventa invivibile, perché il lavoro e la passione non trovano sbocco trasformativo e il lutto delle certezze (reso necessario dal costante movimento della vita) stagna senza trovare uno sbocco, domina la semplificazione – effetto di un’inerzia psichica che funziona da anestetico- e il falso ha più consenso del vero.
L’inerzia intralcia il movimento di ciò che resta psichicamente vivo e lo fa girare a vuoto. L’anestesia è disturbata dalla percezione angosciosa di un disordine interno ed è, a sua volta, percepita dalla parte angosciata, ma viva, di sé come vuoto di morte.
La grave tensione che si determina è espulsa con la proiezione del disordine in un capro espiatorio: al tempo stesso un estraneo e, in vari modi, familiare. L’espulsione, di fatto, di una parte di sé, annulla l’alterità come dimensione co-costitutiva della propria soggettività e trasforma le identità umane, rese paranoiche, in estraneità tra loro indifferenti. Il sacrificio finale del capro espiatorio mette un ordine apparente a tutte le cose. Quando il processo è consolidato, il ripensamento è vissuto come vertigine, a meno che la complessità della vita non ridiventi vivibile e godibile.
La globalizzazione selvaggia è insieme la causa della precarietà, che ha reso insostenibile la complessità, e la forza principale della semplificazione anestetica delle nostre vite. Il processo globalizzante è economico (il denaro che, perduta la sua funzione di strumento di scambio, si relaziona con se stesso), comunicativo e culturale (l’affermazione di moduli codificati di relazioni private e pubbliche che sono parte costitutiva del mercato). Agendo come una massa neoplastica omogeneizzante, si espande nell’organismo dell’umanità separando e isolando le sue parti differenziate e vive.
Opporsi alla globalizzazione selvaggia reinvestendo le sovranità nazionali, è cosa impropria, fuorviante: il futuro dell’umanità è sovranazionale. Coloro che regressivamente invocano il nazionalismo romantico che, nel passato, ha avuto una funzione differenziante e aggregante, saranno ingloriosamente disfatti. Lasciando il terreno libero ai sovranismi falsi: questi, creando comunità avulse dalle relazioni tra le differenze e dallo scambio, producono mentalità collettive indifferenziate. Sono localismi non comunicanti, legati insieme da schemi comportamentali, che non si integrano tra di loro ma si confondono, confluendo verso un totalitarismo mondiale.
All’omologazione totalitaria si oppone la conversazione. Il dialogo tra persone libere che, amando le loro differenze e non temendo i conflitti, possono costruire sentimenti e pensieri capaci di rompere il legame tra la precarietà e la semplificazione, falsificazione della realtà e ricostruire la complessità della vita. La risposta politica, democratica, al meccanismo apolitico, oligarchico della globalizzazione, è il recupero pieno dei luoghi in cui il conversare, riconoscersi nella complementarità non predeterminata delle proprie idee e vissuti, rende le relazioni personali, motivate, profonde.
Questi luoghi, alveoli vivi della vita collettiva, devono moltiplicarsi e connettersi perché il polmone dell’umanità possa riprendere a funzionare. La connessione deve essere internazionale, multilinguistica e multiculturale. Ciò significa conversare nella propria lingua spostando senza ritorno il centro della propria gravità verso la lingua dell’esperienza degli altri. La nuova Internazionale, l’internazionale della conversazione, farebbe male a disdegnare il sostegno tecnologico, ma deve fondarsi sui viaggi, sul movimento delle esperienze attraverso i corpi.
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