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Speciale In Treatment

7 Lug 13

A cura di Luca Ribolini

UN GRAN BEL TELEFILM DI PSICOANALISI 
di Alessandra Comazzi, lastampa.it, 9 agosto 2012

Richard Gere la prendeva in braccio nella scena finale, e la portava via con sé, lei operaia in una cartiera, lui guardiamarina di fresca nomina. Era Debra Winger in Ufficiale e gentiluomo, un altro film di trent’anni fa, un’altra favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude. Adesso Winger va in analisi da Paul Weston (Gabriel Byrne) nella nuova serie, la terza, di In treatment, dal lunedì al venerdì, Fox Life.
Non è casuale la programmazione quotidiana: succede che ogni giorno il dottore abbia in cura un paziente diverso e il quinto giorno in analisi ci vada lui. Medico cura te stesso, che in questa disciplina è regola ferrea. Sembra che ora la produzione Hbo si fermi, ed è un bel segnale. Non è che le serie, e più in generale i programmi, debbano andare avanti in eterno. Questo telefilm, che deriva dall’israeliano Bitipul, è grande. Tutto dialoghi e niente azione. Ma, per l’appunto, non avendo l’aiuto di sparatorie e inseguimenti, il filone introspettivo non si può spremere senza ritegno.
L’analista Byrne ha dunque incontrato la paziente Debra, una stella di tanti film, che sta facendo teatro e dimentica, lei sempre precisa e preparata, le battute. Questo è lo spunto, molto altro si scoprirà. Poi, sul non lettino (il paziente parla seduto in poltrona), ecco un professore indiano, un sedicenne adottato. Tanta bella umanità, davvero.


CHE PSICHIATRA CASTELLITTO! Arriva in Tv la versione italiana della serie americana In Treatment – L’appuntamento, dove ogni puntata corrisponde a una seduta di psicoanalisi. Con pazienti d’eccezione

di Elisabetta Ambrosi, vanityfair.it, 25 gennaio 2013
 
Amore, amicizia, maternità, paternità, senso di colpa, morte, vita: tutto in una fiction lunga quanto una seduta, ogni giorno dal lunedì al venerdì. Arriverà ad aprile in Italia, sugli schermi di Sky cinema, la versione italiana di In Treatement-L’appuntamento, la serie americana trasmessa da HBO dal 2008 al 2010. Che alla sua interruzione, proprio come accade con l’analisi, ha lasciato centinaia di migliaia di telespettatori in piena sindrome da astinenza. Non è difficile indovinare chi prenderà il ruolo dello psicoanalista Paul (Gabriel Byrne nella serie Usa): Sergio Castellitto, già psichiatra in Il grande cocomero. Dopo aver fatto, spiega alla presentazione della fiction a Roma, «il generale, il prete, il frate, l’inventore», chiude quella che definisce «un’ottima annata lavorativa, proprio come il vino» sedendosi su una poltrona di fronte a un paziente.
Anzi, di fronte a tanti pazienti, uno per giorno: la giovane Sara (Kasia Smutniak) che, come da copione, si innamora di lui e tenta, spiega a voce l’attrice, di «convincerlo che lei è la donna perfetta»; il poliziotto Dario (Guido Caprino), che ha preso il posto del pilota di caccia Alex della versione originale e che qui è alle prese con un’indagine in cui c’è di mezzo un’organizzazione criminale; Lea e Pietro (Adriano Giannini e Barbora Bouboulova), coppia in crisi, che come nella fiction americana porta in analisi soprattutto il dilemma dell’aborto; la supervisor di Giovanni, cioè l’analista che lo cura a sua volta, Anna (Licia Maglietta); la studentessa e ballerina Alice (l’esordiente Irene Casagrande, la cui mamma è Valeria Bruni Tedeschi). Anche se non è una paziente, infine, gli dà molto filo da torcere la moglie Eleonora (Valeria Golino).
«Ogni seduta è stremante, si torna a casa svuotati, a volte ci sono ciak lunghi 15 minuti», confessa ancora una sorridente Kasia. Proprio come nell’originale americano, dove gli attori hanno confessato di aver avuto vere e proprie sindromi da “burn out”, anche per i protagonisti italiani questa fiction è molto di più che recitare: tutti sono stati sottoposti a casting, tutti lavorano da molti mesi con un coach personale, tutti arrivano sul set già preparati, perché si gira senza prove, di seguito.
Tutto, spiega Castellitto, «passa dagli occhi», tutto o quasi (poche le scene girate in esterno) si svolge su quel divano, dove i pazienti si siedono rigidi oppure abbandonati, o a gambe incrociate, smanettando con il telefonino nevroticamente, oppure bevendo un caffè. Sotto lo sguardo di Giovanni, che pure a sua volta – è stata la chiave della serie americana – è vulnerabile esattamente come loro, anzi a tratti di più.

CASTELLITTO: METTO LA TV (E ME STESSO) SUL LETTINO. Costanzo dirige la versione italiana della serie cult In treatment
di Fulvia Caprara, lastampa.it, 25 gennaio 2013
 
Qualcuno potrebbe addirittura scandalizzarsi. Si può trattare la psicanalisi come se fosse una soap-opera? Anzi, meglio, si può immaginare«un Posto al sole scritto da Sigmund Freud»? La risposta è sì. Lo ha dimostrato In treatment, basato sul format israeliano Be Tipul, ideato dal regista e sceneggiatore Hagai Levi, e adesso la versione italiana prova a bissare il successo della serie Usa realizzata da Hbo e divenuta subito culto.
Nell’assaggio, presentato ieri sul set, a Formello, poco fuori la capitale, c’è un Castellitto impeccabile nei panni dell’analista Giovanni alle prese con i suoi pazienti. Sul divano, sotto il suo sguardo acuto, scorrono le loro vite. Un marito stressato (Adriano Giannini) e una moglie frivola (Barbora Bobulova), una bella ragazza che si è innamorata del suo terapeuta (Kasia Smutniak), un poliziotto infiltrato (Guido Caprino) che non riesce a liberarsi dai fantasmi di un’indagine sanguinosa: «Le parole – dice il protagonista – evocano immagini, sono come fiori che si schiudono. Durante ogni seduta viene fuori un pezzo dei personaggi, l’analista è come un confessore, una iena buona che si nutre dei pazienti».
Gli sceneggiatori di In treatment made in Italy (Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo, Alessandro Fabbri, Ilaria Bernardini e Giacomo Durzi) hanno «permeato tutto di una leggera mediterraneità, ma, nello stesso tempo, rinunciando a qualunque riferimento esplicito alla realtà italiana, hanno creato storie che potrebbero svolgersi ovunque». Gli argomenti al centro della serie (35 episodi prodotti dalla Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Sky Cinema che li trasmetterà ad aprile) riguardano tutti noi: «La vita, la morte, il sesso, l’amicizia, la paternità, la maternità, i sensi di colpa». E la cosa più bella, sottolinea Castellitto, è la grande libertà con cui vengono affrontati: «Dopo tanta tv generalista, provo l’emozione dell’assenza totale di censura, in questa sceneggiatura scritta così bene, si può parlare di tutto, affrontare qualsiasi terreno». Giovane psichiatra nel Grande cocomero di Francesca Archibugi, Sergio Castellitto dice che recitare è un po’ come andare in analisi: «Io non l’ho mai fatta, ma parlare, come fa chi va da un terapeuta, della propria anima e dei propri pensieri significa mettere in scena il proprio ego e in questo c’è un senso di vanità, proprio come quello che caratterizza gli attori… Insomma, per quanto mi riguarda, penso che a psicanalizzarmi sia stato il mio mestiere».
Ambientato nel chiuso dello studio dove si svolgono le sedute (una per ogni puntata, dal lunedì al venerdì), In treatment ricorda il teatro, ma in realtà è un esperimento di cinema da camera, perchè non c’è niente di più kolossal, di più spettacolare, dell’avventura dentro l’animo umano: «Io sono Sara – spiega Smutniak -, faccio l’anestesista e mi innamoro del mio analista. Nel corso dei nostri incontri cerco di convincerlo che sono la donna perfetta per lui». La lavorazione, senza «flash-back» e con pochi tagli , prevede ciak che durano anche 20 minuti, cosa inimmaginabile su un set cinematografico: «Abbiamo fatto prove come per il palcoscenico – dice il regista Saverio Costanzo – questo sta diventando il divano più difficile d’Italia».
Del cast fanno parte anche Valeria Golino nel ruolo di Eleonora, la moglie (in crisi) del protagonista, Irene Casagrande in quello di Alice, giovane danzatrice che custodisce un trauma inconfessabile, Valeria Bruni Tedeschi, sua madre, e Licia Maglietta, vecchia amica e mentore di Giovanni che va a trovarla ogni venerdì, passando dall’altra parte della barricata, ovvero da analista ad analizzato: «Le serie tv – osserva Andrea Scrosati vice presidente di Cinema Sky – hanno riportato in alto il livello della scrittura televisiva, il nostro prodotto è concentrato proprio su questo, e sullo schermo si vede».


ASPETTANDO IN TREATMENT
di Barbara Ferrara, mag.sky.it, 18 marzo 2013

L’appuntamento con l’attesissima serie tv che ha già appassionato mezzo mondo è a partire dal 1° aprile su Sky Cinema 1, dal lunedì al venerdì alle 20.30. Diretta da Saverio Costanzo, vanta nel cast: Sergio Castellitto nei panni dell’analista, Licia Maglietta, Kasia Smutniak, Guido Caprino, Adriano Giannini, Barbora Bobulova, Irene Casagrande, Valeria Golino e Valeria Bruni Tedeschi nei panni dei suoi rispettivi pazienti. Sette settimane per cinque storie e altrettanti inconfessabili segreti. Ogni puntata, una seduta da quello che una volta era lo strizzacervelli.
Ed è proprio qui che inizia la nostra chiacchierata con il dottor Pietro Roberto Goisis, psicoanalista S.P.I. e grande fan di In Treatment.
Perché i tempi sono cambiati, cambiano quotidianamente e la figura ieratica dell’analista enfatizzata dalla tradizione, non ha più ragion d’essere. Secondo il nostro esperto In Treatment evidenzia  “la visione dello psicoanalista come un essere umano, con i suoi limiti e le sue difficoltà”.  Il lavoro terapeutico  è “uno scambio intersoggettivo tra due persone che parlano in una stanza, ognuno a partire dalle proprie competenze e con uno spirito collaborativo”. Questa è la sua vera forza e la forza della serie, che nel suo linguaggio semplice e accessibile,  esplora il lato oscuro di ognuno di noi offrendo una chiave di lettura alla portata di tutti.
Com’è nata la sua passione per In Treatment?
Nasce da un’antica passione per il cinema. Dal 2001 ogni due anni a Londra si tiene il Festival Europeo di Cinema e Psicoanalisi, n’occasione di confronto tra chi produce il cinema, chi lo guarda e chi ha un approccio al cinema come me e i miei colleghi. Diciamo che quando è stato presentato In Treatment è nato un grande amore.
Tre aggettivi che descrivano la serie?
Verosimile, appassionata e umana.
Qual è il paziente che le piacerebbe avere in cura e quello che non vorrebbe avere mai? 
Una persona che creda nell’utilità del lavoro che faccio. Eviterei volentieri i bugiardi patologici, le persone non vere e non autentiche.
Il caso più bizzarro che lei abbia mai analizzato?
Al primo colloquio una signora in crisi sul piano sentimentale, racconta di una sua relazione extraconiugale con un uomo sposato. I dettagli mi riconducono inequivocabilmente a un mio buon conoscente. Può immaginare il mio imbarazzo nel gestire sia il rapporto con la paziente, sia quello con l’amico.
La Top 5 dei disturbi più comuni?
Ansia  e attacchi di panico, problematiche sentimentali, disturbi dell’umore, disadattamento sociale e problematiche lavorative.
C’è un personaggio famoso che le piacerebbe analizzare?
Silvio Berlusconi.
Il cinema è l’equivalente di una seduta psicanalitica?
Esiste una sovrapposizione dei due piani, diciamo che ha qualcosa di simile al meccanismo dei sogni. Il modo in cui ci approcciamo al cinema è molto legato a come stiamo emotivamente. Alcuni neuroscienziati come Damasio dicono che la modalità con cui i fotogrammi cinematografici scorrono sullo schermo è simile al processo con cui produciamo pensieri ed emozioni.
Da Alfred Hithcock a Woody Allen, sono molti i registi che hanno indagato i misteriosi territori dell’inconscio, lei cosa ne pensa?
Noi psicoterapeuti sosteniamo da tempo che c’è uno stretto legame tra cinema e psicanalisi, anche per il fatto che sono nate insieme, alcuni dicono che sono gemelle: l’anno della prima proiezione dei fratelli Lumière è anche l’anno in cui esce un lavoro di Freud che è considerato l’esordio della psicanalisi.
Sempre restando in tema, qual è il suo film preferito?
Blade Runner di Ridley Scott. Mi ha sempre molto affascinato per quelli che sono i contatti tra il mondo interno, la finzione, il tempo della vita. È quello che tra i tanti mi è rimasto più dentro.
E tra gli italiani?
La stanza del figlio di Nanni Moretti e da un certo punto di vista il Verdone del film Maledetto il giorno che t’ho incontrato.
Se fosse lei a sdraiarsi sul lettino come succede al protagonista Giovanni (Sergio Castellitto) il venerdì, chi vorrebbe avere come psicanalista?
Sceglierei tra la mia analista (mi ha aiutato molto ai tempi), un analista che non c’è più Tommaso Senise (mi piaceva come lavorava), il più giovane analista della S.P.I. (bisogna dare fiducia e credere nelle nuove generazioni) e se proprio nessuno fosse disponibile… me stesso (di cui mi fido abbastanza).
Qual è lo scopo del sito spiweb.it a cui collabora?
Il progetto più ambizioso è farci conoscere e dire qualcosa su quello che succede nel mondo esterno attraverso la comunicazione tramite internet. Noi psicoterapeuti siamo cambiati, sia nel rapporto con il mondo esterno sia nei confronti del nostro modo di lavorare.
Nel suo Elogio alla follia Erasmo da Rotterdam scrive che tutta la vita umana è una commedia in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico: è d’accordo?
Sì, e aggiungerei che anche quello che noi psicoterapeuti facciamo nei nostri studi è una grande rappresentazione scenica: mettiamo in scena la vita delle persone, una relazione profondamente affettiva senza agirla, né realizzarla.
Come risponderebbe alla boutade di Woody Allen: “Lo psichiatra è un tizio che vi fa un sacco di domande costose che vostra moglie vi fa gratis”?
L’unica differenza è che a uno psicanalista si può anche non rispondere.


SEGRETI, DOLORI E ANSIE: CASTELLITTO ANALISTA SCAVA NELLE NOSTRE VITE. Da Bobulova a Giannini, ottime prove nella versione italiana di In treatment

di Pier Francesco Borgia, ilgiornale.it, 28 marzo 2013
 
Roma – Solo una serie tv dedicata alla psicanalisi offre il destro all’analista (Sergio Castellitto) di muoversi con autorevolezza e agio di attore blasonato nei panni double face di mattatore e spalla. È quanto succede con lo sceneggiato In treatment (5 storie, 5 segreti) che andrà in onda da lunedì primo aprile su Sky Cinema e in autunno in chiaro su La 7. Trentacinque puntate spalmate in sette settimane. Mezz’ora al giorno, alle 20.30, per conoscere e seguire le vicissitudini interiori dei pazienti di Giovanni (Castellitto). Con i tempi della soap opera, con l’intensità recitativa dei dialoghi teatrali, con l’eleganza scenografica di un film d’autore. Sky e Wildeside, la casa di produzione della serie tv, hanno fatto le cose in grande con l’ambizione di replicare il successo ottenuto in America dall’omonima serie, che vedeva come protagonista Gabriel Byrne. Andata in onda sul canale HBO dal 2008 al 2010, la serie americana replicava a sua volta l’intuizione del regista e autore israeliano Hagai Levi, che ha partecipato anche alla riduzione italiana. Il compito di portare sui nostri schermi In treatment, e di dirigere con talento e sensibilità rare un drappello di ottimi attori, è stato chiamato Saverio Costanzo, già regista affermato per il
grande schermo (Private e La solitudine dei numeri primi).
Sergio Castellitto (Giovanni) si trova ad analizzare cinque pazienti con appuntamenti fissati per un giorno a testa a settimana. Il lunedì è dedicato a Sara (Kasia Smutniak), l’infelice e tormentata anestesista che nasconde un segreto doloroso che ha radici nella sua prima adolescenza. A quel ricordo e a quel dolore cerca di sottrarsi con un esibito cinismo e un’altrettanto esibita indipendenza. Il martedì è il giorno di Dario (Guido Caprino), un carabiniere impegnato nella delicata missione di infiltrato in una ‘ndrina calabrese. Durante la sua missione è «vittima» di un atroce incidente: per non far saltare la sua copertura è costretto a partecipare all’uccisione di un affiliato scoperto a fare il doppio gioco. Purtroppo durante l’agguato muoiono anche i figli del doppiogiochista e da questo choc il carabiniere sembra non riprendersi. La seduta del mercoledì è la più ostica per Giovanni. Deve affrontare la fragile e giovanissima Alice (la debuttante Irene Casagrande). Ha l’età di sua figlia e si porta dietro un segreto difficile da decifrare. Da un lato c’è il rapporto conflittuale con la madre (Valeria Bruni Tedeschi), dall’altro c’è l’insicurezza propria di un’adolescente costretta a misurarsi con la fatica e la competitività di un mondo, quello del balletto classico, che non lascia spazio ai tentennamenti giovanili. Il giovedì arrivano nel suo studio Pietro (Adriano Giannini) e Lea (Barbora Bobulova). Sposati, con un figlio di sei anni, i due sono in crisi a causa (almeno apparentemente) di una gravidanza che lei non vuole portare a termine, pur uscendo da un lungo periodo di faticose cure ormonali per rimanere incinta. L’ultimo giorno della settimana lavorativa Giovanni lo dedica a se stesso e va a consultarsi con Anna (Licia Maglietta). Elegante e carismatica mentore dello stesso Giovanni, Anna lo aiuterà nel difficile compito di accettare le proprie fragilità e la più classica delle crisi di mezza età che lo ha allontanato dalla moglie (Valeria Golino).
Un lavoro faticoso, a quanto raccontano gli attori. La preparazione delle riprese è stata una vera e propria «maratona teatrale» e i singoli ciak duravano dai 20 ai 25 minuti. «Anche se non avevamo alle spalle il duro tirocinio del metodo dell’Actor’s Studio – spiega Adriano Giannini – abbiamo dovuto comunque calarci anima e pelle in questi personaggi per poterli rendere con la necessaria intensità». «Un lavoro che raramente si fa in tv – aggiunge Castellitto – o al cinema. Solo il grande Totò ci riusciva». Ma Totò è Totò.
Pietro è il marito di Lea (Barbora Bobulova). Vanno in analisi il giovedì per superare la crisi di una gravidanza non condivisa. Il giorno di Dario è il martedì. È un militare duro e sprezzante, ma è alle prese con un senso di colpa a dir poco devastante. Lea è la moglie di Pietro (Giannini). Dopo anni di tentativi falliti rimane finalmente incinta, ma ora vorrebbe abortire. Lunedì è il giorno di Sara. Bellissima, infelice, tormentata. Seduce per sentirsi viva e per dimenticare il suo passato.

IN TREATMENT: PARLA VALERIA GOLINO. L’attrice è la moglie del dottor Mari, lo psicanalista protagonista della serie interpretato da Castellitto. Siamo andati a punzecchiarla per chiederle di rivelarci i segreti del serial che parte su Sky Cinema dal 1° aprile. Ecco cosa ci ha confessato…

di Redazione, mag.sky.it, 30 marzo 2013
 
Valeria Golino dà voce e corpo a Eleonora, la moglie del Dottor Mari alias Sergio Castellitto. E, nonostante suo marito sia uno stimatissimo psicanalista che solitamente risolve le crisi coniugali, i due sono ai ferri corti. Ecco cosa ci ha rivelato Valeria della serie televisiva ormai sulla bocca di tutti, ricca com’è di novità e rivoluzioni a livello tematico, contenutistico, registico, strutturale e addirittura di programmazione (per la prima volta, infatti, tutti gli episodi della settimana saranno disponibili anche in anteprima ogni lunedì sul nuovo Sky On Demand e su Sky Go).
Come tradurrebbe il titolo della serie?
Letteralmente dovrebbe essere “in trattamento”, ma credo che sia più azzeccato “in cura”.
Qual è secondo lei la novità più interessante della serie?
Il fatto che gli attori abbiano in mano il racconto orale di qualcosa che noi non vediamo. Le loro vite, i loro problemi e i loro sogni sono lì, anche se non si vedono sullo schermo. Li vediamo nel rapporto con lo psicanalista. Credo che il racconto orale sia la cosa davvero inedita per un prodotto televisivo.
La sfida è proprio questa: proporre una televisione inedita. Un’altra novità è che ciascun personaggio conosce solo la propria storia e la sua parte, ma non sa nulla degli altri se non quello che raccontano i colleghi. Dunque una televisione inedita che parla anche una lingua totalmente nuova.
Com’è il contenuto della serie?
Qualcosa di molto forte, sia nella lingua sia nella spregiudicatezza di quello che si racconta nella propria intimità, in un confessionale come quello dello studio del proprio psicanalista, che diventa una specie di confessore moderno a cui si possono dire cose indicibili, cose che nemmeno a un marito o a un’amica si racconterebbero. Questo fattore potrebbe in qualche modo creare una sorta di disagio nel pubblico che ascolta. Disagio voluto, ai fini della serie (e della terapia).
Ci potrebbe presentare il suo personaggio?
Innanzitutto io non sono una paziente del Dottor Mari, bensì sua moglie. Mi chiamo Eleonora e vado e vengo, a volte mi si vede, altre mi si sente e basta dal momento che lo studio di mio marito è in casa. Credo che Eleonora sia l’altra parte di Giovanni, la sua veste privata, la sua parte fragile e meno equilibrata. Il rapporto tra il mio personaggio e quello di Sergio Castellitto è molto violento, il tipico rapporto di due persone che si sono amate molto ma che vedono improvvisamente diminuire quell’amore. In piena crisi coniugale come sono, Eleonora sta dando il peggio di sé.
Aveva già lavorato con Sergio Castellitto prima d’ora?
Sì, sul set del film Paura e amore. Lì però eravamo fratelli. È stato interessante lavorare di nuovo assieme. Avevo un po’ di paura, quel timore tipico di chi si rincontra dopo tanto tempo e teme che l’altro sia cambiato, invece mi sono ritrovata con un compagno di lavoro molto affettuoso nonché al fianco di un grandissimo attore.
Per quale motivo ha deciso di entrare nel cast di In Treatment?
Per lavorare con Saverio Costanzo. In Treatment è una serie interessantissima e stimolante, però se non ci fosse stato un regista come Costanzo sarebbe stato meno “pericoloso”, meno interessante per me. Se non fai televisione e non sei abituato ad un certo modo di fare e lavorare, puoi venirne fagocitato. Inoltre i dialoghi lunghissimi di questa serie possono spaventare un attore. Avere un regista come Saverio era una specie di garanzia di qualità: sapevi già che avresti fatto una cosa bellissima all’interno di un format preesistente. Volevo proprio vederlo al lavoro e volevo che lui mi vedesse lavorare per lui.
Cosa ne pensa della terapia?
Credo ci voglia coraggio per affrontarla. Tutto ciò che ti porta ad approfondire te stesso e quel che ti circonda può diventare un arma a doppio taglio, qualcosa che ti può ferire profondamente. Sono cose delicatissime ed è necessario affidarsi alla persona giusta. Proprio per non incappare in questi errori, non mi sono mai avvicinata alla terapia.


MA CHE COS’È IN TREATMENT, «SOAP OPERA DI LUSSO». Arriva l’1 aprile l’adattamento italiano di In Treatment, serie di culto americana firmata Hbo, diretta per Sky Cinema HD dal regista Saverio Costanzo con un cast d’eccezione, capitanato da Sergio Castellito 
di Alessia Arcolaci, vanityfair.it,  30 marzo 2013

Pronti per la seduta con l’analista? Arriva infatti il 1°aprile l’adattamento italiano di In Treatment, serie di culto americana firmata HBO e ideata dall’israeliano Hagai Levi. Diretta per Sky Cinema HD dal regista Saverio Costanzo (In memoria di me) è interpretata da un cast d’eccezione, capitanato da Sergio Castellito, affascinante e stimato psicoterapeuta. Nella serie l’attore è Giovanni Mari, a sua volta in analisi per frenare la tensione erotica nei confronti di una giovane paziente (Kasia Smutniak) innamorata di lui.
In Treatment, che come la maggior parte delle serie televisive di rispetto, crea assoluta dipendenza, esplora il lato oscuro dei valori condivisi. Racconta la sofferenza e la difficoltà dei rapporti tra genitori e figli, le problematiche tra l’eros e la vita sentimentale, di coppia, i conflitti scatenati dalla ricerca disperata del proprio posto nella società, il confine sottile tra bene e male.
La struttura è quella di una soap opera di lusso in cui ogni giorno lo spettatore sa che a quell’ora troverà uno dei cinque personaggi pronto per la sua seduta. C’è una ragazzina, Alice, interpretata da Irene Casagrande, che per il protagonista Castellitto rappresenta la «colonna emozionale dell’intera serie»: una dolcissima teppista, la scommessa più interessante dal punto di vista umano. Ci sono poi Pietro e Lea (Adriano Giannini e Barbora Bobulova) che incarnano una coppia messa in crisi da una gravidanza cercata per anni ma che Lea capisce di non volere più. Il paziente più duro, Dario, è interpretato da Guido Caprino (il commissario Manara di Raiuno): un militare aggressivo e sprezzante, attanagliato dal senso di colpa provocato da un episodio avvenuto durante la sua ultima missione da infiltrato nella ‘ndrangheta, in Germania. Infine c’è la bellissima Sara (Kasia Smutniak), donna infelice e tormentata, che seduce per sentirsi viva, un bisogno vitale da cui non riesce a deviare. «Non sono mai stato in analisi», racconta Castellitto, «ma credo che il fine ultimo, lo scopo della psicanalisi sia capire e sapere, più che guarire. Nella serie c’è un elemento di confessione, niente di religioso, però quella stanza sembra un grande confessionale, manca l’inginocchiatoio e i rumori della realtà sono attutiti, vengono da lontano».

COMMENTO DELLA PRIMA PUNTATA ITALIANA DI ANTONINO FERRO, ANALISTA DELLA SOCIETÀ PSICOANALITICA ITALIANA E AMERICANA

di Redazione, spiweb.it, 2 aprile 2013
 
Innanzitutto vorrei sottolineare che In treatment che ripropone l’omonima serie fatta adesso da attori italiani è ben fatta e dà l’idea di cosa possa essere una psicoterapia; ciò almeno a giudicare il primo episodio che è l’unico da me visto. Da subito viene data la chiave di lettura: è il “confronto” che porta al miglioramento. Siamo molto lontani dal modello psicoanalitico in cui è la trasformazione, la metabolizzazione di emozioni non conosciute a portare verso la “guarigione”. Qui ci si confronta rispetto a stati emotivi abbastanza di superficie e usando la ragione si cerca di svelare i punti deboli o oscuri delle affermazioni dell’altro. Il trattamento è a una seduta, vis à vis, piuttosto attivo e con il terapeuta che dà non pochi suggerimenti. In breve la storia è quella di una ragazza che, in crisi col fidanzato, si ubriaca in un bar, dove viene molestata e quasi sedotta da uno sconosciuto che le aveva ripetutamente offerto da bere sino a pretendere poi di essere masturbato.
Tutto questo viene poi portato in seduta nel senso di un transfert erotico verso lo psicoterapeuta del quale la paziente si dice innamorata.Lo psicoterapeuta non sembra esser capace di trovare la via per contenere e trasformare questa erotizzazione. Non capisce ad esempio che alcool ed erotizzazione sono degli antidepressivi usati dalla ragazza la quale è evidentemente depressa, e l’eccitazione data da alcool e sesso sono terapie efficaci (sul momento), anche se inadeguate. Ma oltre a non comprendere le radici depressive della sofferenza della paziente, non capisce completamente le comunicazioni fatte in seduta a lui dalla paziente. La paziente si sente ubriacata dalle parole dell’analista e dall’eccesso di attitudine materna e accorciamento della distanza; paziente che poi segnala che un rapporto così fatto non porta da nessuna parte, non vi è un accoppiamento fertile delle menti, ma solo una masturbazione. Non coglie neppure la protesta contro di lui della paziente quando dice (parlando apparentemente del fidanzato, ma in realtà dello psicoterapeuta) “o ci sposiamo o ci lasciamo” che preso come comunicazione nell’attualità della seduta vuol dire “o non vengo più e interrompo la terapia oppure dobbiamo trovare una collaborazione creativa (ci sposiamo=facciamo accoppiare le nostre menti).
In sintesi una psicoterapia ben spiegata a chi è estraneo al mondo della psicoanalisi, direi una buona psicoterapia del superficiale (del profondo nessuna traccia). Bravi e convincenti gli attori.


IN TREATMENT: LO PSICOANALISTA È NUDO!

di Pietro Roberto Goisis, mag.sky.it, 5 aprile 2013
 
Con quale atteggiamento uno psicoanalista si appresta a vedere e commentare la versione italiana di In Treatment? Tenendo conto che tratta del suo lavoro e che conosce molto bene e ha apprezzato la serie originale…
Ho pensato a come sarebbe opportuno stare quando si vede un film tratto da un libro molto amato.
“Senza memoria e senza desiderio” direbbe uno dei nostri maestri; lo stesso atteggiamento con il quale in genere si iniziano le sedute con i nostri pazienti. Concetto che per me significa assenza di preconcetti e di aspettative costruite nella mia mente. Condizione verso la quale si può solo tendere, come una posizione zen o un atteggiamento meditativo.
Realizzare quindi quella “nuda attenzione” che un’altra collega ci ha raccomandato.
Come un bambino, uno sciocco, un ingenuo o un essere curioso e interessato al mondo.
Anche Giovanni Mari, lo psicoterapeuta che Sergio Castellitto abilmente interpreta, lui non nuovo a questo ruolo (era un giovane ed entusiasta neuropsichiatra infantile ne Il grande cocomero di Francesca Archibugi, 1993), a me è sembrato nudo, quasi indifeso nel suo studio del quale chiude accuratamente  a chiave una fragile porta a vetri dopo ogni seduta.
Questa misteriosa psicoanalisi che “solo chi ha provato può conoscere”, diventa un oggetto meno oscuro. Anche tra noi terapeuti ci si dice sempre: “dobbiamo mostrare davvero quello che diciamo e facciamo!”. In treatment, seppur con la fiction, lo realizza. Onorario compreso…
Senza mai dimenticarci che è in primo luogo uno sceneggiato che parla della vita di un terapeuta e dei suoi pazienti, e, solo di conseguenza, parla di psicoterapia.
Giovanni, secondo il mio stile e il mio modo di essere uno psicoanalista, commette degli “errori”. Non dà la mano ai pazienti quando li saluta; passa al tu, involontariamente prima e consapevolmente poi, solo perché Sara glielo chiede, non si accorge del tipo di transfert che lei ha sviluppato, non comprende alcune comunicazioni, forse fatica ad accedere ai piani più profondi; sembra spaventato con Dario, al quale lancia una sfida; gestisce a fatica la contro aggressività con Lea e Pietro… In realtà, chi di noi non commette mai errori? Non vedo pietre volare…
D’altra parte Giovanni è anche un analista molto attento, ascolta con pazienza, cerca di sviluppare e stimolare la capacità di pensare dei suoi pazienti, partecipa ai loro racconti, si mette in gioco, coltiva il dubbio e la riflessione. Sembra davvero ben rappresentare “due persone che parlano in una stanza”. A volte, poi, parla più con i gesti che con le parole, come quando porge la coperta a Sara che ha freddo (“L’elogio della stufetta”…), sorride con Alice, trova abilmente il modo di “prenderla”, le procura una cannuccia per dissetarsi. Non tutti, e non sempre, sono capaci di gesti e di comunicazioni di questo tipo e al momento giusto.
Certamente è anche un semplice essere umano, a volte in difficoltà, in un momento di crisi. A tratti è pure difficile aiutarlo come ci mostra bene il suo rapporto conflittuale con Anna, la sua supervisore/terapeuta. Aspetto che consente di capire maggiormente la complessità di una terapia.
Una domanda per tutti: da quale lato della scrivania è più facile stare? Su quale delle due poltrone?

RECALCATI: “IL POTERE DEL LETTINO, L’INCONSCIO DIVENTA SHOW”. Sbarca in questi giorni su Sky Cinema la versione italiana della serie americana di In treatment con Sergio Castellitto nei panni dello psicoterapeuta. L’obiettivo è ambizioso: mettere una cinepresa nella stanza dell’analisi, nel luogo più intimo, più privato, più inaccessibile; dove le vite umane si raccontano, si aprono e si rivelano

di Massimo Recalcati, la Repubblica, 5 aprile 2013
 
C’è stato un tempo in cui la psicoanalisi come disciplina e ancora di più come pratica della cura era vista come la peste. Andare dallo psicoanalista era considerata una roba per matti. Non so se questo tempo sia davvero finito, come alcuni sostengono, ma dobbiamo registrare che il dialogo analitico è diventato oggetto di interesse tale (e, dunque, mi chiedo, di addomesticamento?) da produrre un serial televisivo di grande successo. Sbarca, infatti, in questi giorni sugli schermi televisivi di Sky Cinema la versione italiana della fortunata omonima serie americana di In treatment con Sergio Castellitto nei panni dello psicoterapeuta e con la regia di Saverio Costanzo. L’obiettivo è ambizioso: mettere una cinepresa nella stanza dell’analisi, nel luogo più intimo, più privato, più inaccessibile; dove le vite umane si raccontano, si aprono, si rivelano nella loro intimità più scabrosa e bizzarra, dove parlano del loro dolore più sordo, dove si mettono a nudo. Sono vite diverse l’una dall’altra, vite particolari.
Non la vita in generale, non le sue strutture e le sue proprietà ontologiche universali, sulla quale può riflettere la filosofia, ma la vita nella sua incomparabilità più particolare, nella sua stramba originalità, la vita nel suo nome proprio, nella sua anomalia, nella sua stortura, la vita di Alice, di Sara, di Andrea, di Pietro. Questo taglio – che riflette pienamente il lavoro che avviene nella stanza dell’analisi – è quello che ha incollato gli spettatori di tutto il mondo alla prima e fortunata serie americana.
L’inquadratura fissa, stabile, senza variazioni del setting, della stanza dell’analisi e dei movimenti lenti e ripetitivi del terapeuta, ritrae con una certa efficacia la dimensione silenziosa e operaia del nostro lavoro: aprire e chiudere la porta, accogliere e congedare il paziente, sedersi e ascoltare, fissare l’appuntamento per la seduta successiva. Mantenere il setting il più stabile possibile di fronte al maremoto della vita interiore; preservare la sua cornice come un contenitore sicuro di fronte alle instabilità inquiete di chi si muove al suo interno. Il dettaglio del soprammobile dell’onda blu in perenne movimento contenuta in un scatola di plastica può rendere in modo plastico questa strana mistura che caratterizza il lavoro dell’analisi. Il mondo fuori è in movimento, la seduta delle 18 comporta sempre un certo ritardo a causa del traffico romano, le condizioni atmosferiche cambiano, al sole tiepido di primavera subentra la pioggia fredda di una sera d’autunno, cadono e si ricompongono i governi, ma la stanza dell’analisi deve preservare una costanza che non si lascia intaccare dal mondo esterno e dai suoi eventi.
Non c’è continuità tra la percezione ordinaria del tempo e ciò che accade nel tempo della seduta. È un’esperienza comune a tutti i pazienti. Il tempo della seduta non è mai un tempo cronologico, ma un tempo che può dilatarsi o restringersi, un tempo vissuto che rifiuta ogni misurazione quantitativa. Nello scorrere di questo tempo soggettivo rispetto al quale il tempo dei nostri orologi resta fatalmente esteriore, un posto centrale è occupato dalla presenza del terapeuta. Cosa la qualifica? Essa offre alle anime perse che le si rivolgono un ascolto totalmente inedito. È il punto sul quale è nata storicamente la psicoanalisi: l’offerta dello psicoanalista è innanzitutto l’offerta di un ascolto. Per questo, anche in questa serie televisiva, il ritratto dell’analista è giustamente il ritratto di un uomo silenzioso. Non si tratta di una posa sadica. Se l’analista deve poter custodire il silenzio, come afferma Lacan, è perché attribuisce un valore assoluto alla parola del paziente. Per questo l’ascolto dell’analista non assomiglia in nulla, diversamente da quello che pensava Foucault, a quello di un confessore o di un giudice.
Nell’ascolto dell’analista non c’è giudizio morale, non c’è prescrizione di castigo, non c’è valutazione, non c’è misurazione e non c’è nemmeno pretesa di guidare le vite che ad esso rivolgono la loro parola. Lo diceva bene Lacan: uno psicoanalista non è un direttore di coscienza, non avanza la pretesa di condurre le vita ma deve limitarsi – il che non è poco – a condurre la cura. Dove si può trovare ancora oggi un ascolto così? Quale parola interessa maggiormente all’analista? E questa domanda che ci rivela il grande assente della stanza dell’analisi di In treatment: è il divano che fu il protagonista dell’innovazione freudiana. Nel setting classico il paziente parla sdraiato sul divano e l’analista lo ascolta da dietro. Nessun divano in questa stanza d’analisi. Non è un dettaglio. È l’andazzo della psicoterapia contemporanea che ha assorbito la rivoluzione freudiana in un vis-à-vis empatico che cancella il carattere spigoloso dell’esperienza del divano. Anche in questa serie siamo per lo più di fronte a dialoghi tra Io senza sorprese, senza urti, senza grandi scompaginamenti perché non vige la sola regola alla quale Freud aveva attribuito un valore fondamentale. La presenza del divano coincide infatti con questa regola, quella dell’associazione libera («Mi dica tutto quello che le passa per la testa») che mette in movimento il soggetto dell’inconscio sospendendo le censure logiche e morali che solitamente organizzano il discorso cosciente e la dimensione comune del dialogo. È proprio su questo punto che si può cogliere tutta la differenza che passa tra una psicoterapia e una psicoanalisi. In questa serie televisiva le vite che si rivolgono al terapeuta parlano dei loro problemi più attuali, delle loro urgenze più assillanti (un tentativo di suicidio dissimulato, la scelta di una coppia se abortire o tenere un figlio, la difficoltà a occupare una professione che implica l’oltrepassamento della Legge quando dovrebbe tutelarne la funzione, l’innamoramento incontenibile per l’analista…).
Quello che non appare mai – il grande assente sulla scena – è l’inconscio. Forse perché si ritiene che anch’esso abbia fatto il suo tempo? Che esso sia un pezzo del museo delle cere dell’Ottocento? Ma non è forse questo il soggetto al quale tutti gli sforzi dell’analista dovrebbero rivolgersi per farlo parlare? E dove parlerebbe in modo privilegiato il soggetto dell’inconscio se non attraverso il sogno? Ebbene, se non ricordo male, non c’è un solo sogno raccontato dai protagonisti di questa serie. La regola dell’associazione libera non è attivata. Il dialogo viene tutto centrato sull’attualità, come se queste vite fossero prive dí storia. La dimensione verticale del passato non appare. Allora anche il luogo comune e assai inflazionato dell’innamoramento per l’analista è restituito seguendo le leggi di Sex and the City piuttosto che quelle assai più contorte del transfert analitico. Idem per la seduta (questa davvero inverosimile) di supervisione che ripropone il cliché dell’analista detective che spia i pensieri reconditi del terapeuta che ad essa si sottopone, magari forzandolo ad ammettere che l’innamoramento che la paziente (Sara) gli ha dichiarato in seduta lo aveva effettivamente turbato. La dimensione dell’interpretazione viene schiacciata brutalmente su quella dell’illazione. Mi hai chiesto una supervisione proprio adesso, dopo tutti questi anni, come mai? Ammetti che è perché sei rimasto turbato dalle avances della tua giovane paziente! Quando manca il soggetto dell’inconscio e la ricerca del carattere indistruttibile del desiderio, la tragedia delle vite rischia di trasformarsi in farsa. Perché l’inconscio è quel luogo dove bisogna andare se si vuole davvero vedere qual è la pasta di cui siamo fatti, se si vuole, come disse una volta Lacan a un esterrefatto Umberto Eco, «mangiare il nostro Dasein (Esserci)!».


CASTELLITTO: IL MIO TERAPEUTA È UN MASTERCHEF DELL’ANIMA

di Silvia Fumarola, repubblica.it, 5 aprile 2013
 
«Non sono mai andato in analisi», dice Sergio Castellitto «credo che in tutti questi anni mi abbia psicanalizzato il mio lavoro». Nella versione italiana di In treatment, successo di Sky diretto da Saverio Costanzo (in onda fino al 17 maggio, cinque giorni a settimana) è lo psicoanalista Giovanni Mari, che dal lunedì al venerdì accoglie nel suo studio ovattato i pazienti. «Iena buona» lo definisce l’attore «perché si nutre anche un po’ di loro, è una specie di Masterchef dell’anima». Nel Grande cocomero di Francesca Archibugi, del 1993, aveva interpretato un neuropsichiatra infantile. Castellitto, come vede il ruolo dello psicoanalista? «Come un confessore che riesce, tramite gli altri, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui: si specchia nei pazienti.
Mari è in crisi con la moglie, è un padre e un uomo pieno di conflitti».
La psicoanalisi l’abbiamo conosciuta attraverso le nevrosi di Woody Allen, spesso in chiave ironica, e lo sguardo di Igmar Bergman. Qui si supera il tabù più grande, si “spia” la seduta col terapeuta. «È affascinante perché non ci sono flashback, tutto è costruito con l’immaginazione, attraverso il fiume di parole. L’attenzione del pubblico è massima, ognuno costruisce la sua storia e fa i conti con se stesso: “anch’io ho tradito”, “anch’io avevo paura”». Pensa davvero che recitare sia un po’ come andare in analisi? «Ripeto, non ho mai fatto analisi ma parlare tanto di sé, come fa chi va da un terapeuta, significa mettere in scena il proprio ego. C’è un legame stretto». Lo sceneggiatore Furio Scarpelli era diffidente nei confronti della psicoanalisi, la riteneva «una delle trappole del narcisismo».
«La penso esattamente come lui. Nell’analisi c’è un forte senso di vanità, lo stesso che caratterizza gli attori: sei al centro della scena».
Detto così sembra facile ma chi va dall’analista, narcisista no, sta male. E sa che ha bisogno d’aiuto. «Sicuramente. Ho letto i libri di James Hillman, spiegano bene alcuni meccanismi. Mi sembra di aver capito che al centro dei pensieri ci siano sempre le stesse cose: infanzia, sesso, paura della morte. Non vado in analisi perché parlo con mia moglie Margaret, tra noi c’è una fiducia completa. A molti non piace, sono quasi infastiditi. L’amore è un lavoro, una continua costruzione».
Però l’intimità o la confidenza estrema non sono la stessa cosa dell’analisi.
«Io trovo le risposte, per Margaret è lo stesso. Non siamo perfetti, litighiamo anche. Ma siamo veramente uniti».
I suoi figli soffrono per il vostro rapporto così esclusivo? «Non è esclusivo, i miei quattro figli sono inclusi: siamo un’agorà».
Ma lei che padre è? Ride. «Un padre che dice: “Questa casa non è un albergo…”. E loro mi rispediscono la frase via sms.
E ripeto quello che diceva mio padre: “Spegni la luce!”, che mi sembra anche un fatto di buona educazione visti i tempi».
Si dice, semplificando al massimo, che i laici vadano in analisi mentre per i cattolici c’è la confessione. «Capita anche ai non credenti, in momenti particolari, di voler sfuggire al traffico e al caos, e di entrare in chiesa a cercare il silenzio. Vedo lo studio di Mari, anche per le luci morbide, i rumori esterni attutiti, le librerie di legno, come un grande confessionale. Anche senza l’elemento religioso».
Girare In treatment è una prova attoriale: un ciak dura oltre venti minuti.
«Ci siamo riusciti perché abbiamo provato tantissimo, è una messinscena teatrale. Avviene tutto lì in quel momento. Le emozioni sono intense. L’analista ascolta: in una società in cui tutti dicono la loro ma si è persa la capacità di ascoltare, una rivoluzione». La maternità, il senso di colpa, il bisogno d’amore, le difficoltà dell’adolescenza: la vita non fa sconti. Chi è il suo paziente preferito? «Mari è “innamorato”, è quasi un transfert al contrario, di Alice, la giovanissima ballerina autolesionista che ha un rapporto difficile con la madre». La sceglie perché è una sfida? «Perché rappresenta la scommessa più interessante dal punto di vista umano: è adolescente, parla di un dolore presente. Va salvata perché i nodi non diventino macigni, com’è accaduto agli adulti. È l’unica che scardina le difese dell’analista, gli toglie la maschera, obbligandolo a ripensare se stesso come padre e come marito. Gli altri pazienti rivivono i traumi del passato: lei ha una possibilità».

IN TREATMENT: QUANDO LA PSICOANALISI È UNA DROGA (E UN’AMANTE)

di Elisabetta Ambrosi, vanityfair.it, 10 aprile 2013
 
È stata la mia vera amante, una relazione clandestina, lunga quasi vent’anni. Dove è successo di tutto, compresi svariati cambi di lettini, compreso un libro infuriato contro i terapeuti, Inconscio Ladro. Malefatte degli psicoanalisi (Lepre edizioni) che scrissi in un momento di rabbia contro una disciplina (in quel caso nella variante freudiana) che dopo un trattamento ultradecennale mi aveva fatto stare peggio di prima, o almeno così mi pareva. Salvo, ovviamente e incoerentemente, tornare ad amoreggiare con Lei, ma su altri lidi e altre teorie a me più confacenti.
Si sa, la psicoanalisi è una droga, può dare grave dipendenza (e il tema tra gli analisti è davvero troppo poco discusso). La puoi lasciare per un po’, puoi cambiare spacciatore (freudiano, junghiano, lacaniano) ma il fascino di quel fascio di luce sulla tua esistenza viva, su come funzionano le fondamenta, i binari sui quali vai avanti, sul perché si inceppino, ti facciano barcollare e a volte cadere, beh è davvero infinito. Per questo, già fan accanita della versione americana di In Treatement (che avevo seguito seduta dopo seduta), dopo una settimana dallo sbarco su Sky della versione italiana, ogni mattina vivo già una simil crisi di astinenza. Aspettando la seduta, in questo caso in veste di voyeur, dello psicoanalista Giovanni-Sergio Castellitto, con i  pazienti Sara-Kasia Smutniak, un eccezionale Dario-Guido Caprino, la giovanissima Alice-Irene Casagrande, la coppia in crisi Lea-Pietro, alias Barbora Bobulova e un bravissimo Adriano Giannini, infine la supervisor Anna-Licia Maglietta.
Nessun accadimento esterno, solo dialogo: eppure si viene immediatamente catturati nella rete delle loro menti. Perché lo spettacolo delle emozioni è avvincente come un film di Hollywood e ha fatto bene chi ha scommesso sul successo anche italiano della seria nata in Israele (e dove sennò) e poi passata in America. Contro una tv che teme il pubblico intelligente e gli passa giochini in scatola e fiction all’italiana dove nulla accade tranne i cliché.
Certo la sceneggiatura è quasi interamente ripresa dalla versione originale, ma i volti e i protagonisti sono italiani e anche le storie adattate per un pubblico italiano (oltre al fatto che lo studio si trova nella caotica città di Roma, anche se, com’è noto, non è valido motivo, emotivamente parlando, per arrivare in ritardo alla seduta).
Se proprio dovessi fare un’obiezione, riguarda forse il fatto che, anche se non è affatto vero che la psicoanalisi ha fatto il suo tempo, è vero che la psicoanalisi in Italia oggi è abbastanza in crisi e forse un rinnovato interesse di pubblico potrà dare una scossa a una disciplina che raramente sa mettersi sul lettino, per analizzarsi, come dovrebbe. Che mantiene rigidità antistoriche – regole rigide, un setting sempre uguale – che la rendono quasi simile ad una Chiesa, talvolta. E che soprattutto sembrano renderla impermeabile agli enormi cambiamenti sociali che si svolgono là fuori, oltre il lettino. No, non mi sto riferendo solo al fatto che i pazienti sempre più a corto di soldi non riescono a permettersi un trattamento che costa molto, specie nel momento in cui ne avrebbero più bisogno. Ma anche, in generale, al fatto che la giusta idea di proteggere la stanza dell’analisi dalle intemperie del mondo esterno, per ascoltare meglio le emozioni interne, nel silenzio, spesso si è trasformata in una difesa da parte dei terapeuti. In una difficoltà cronica a mettersi in gioco, a capire quanto l’analisi spesso diventi teatro certo di emozioni interne, ma filtrate e vissute da una società che ha i suoi valori e i suoi traumi collettivi, che non possono essere lasciati fuori dalla porta.
Faccio un esempio: la fine di uno Stato che protegge, i tagli selvaggi al welfare, il fisco persecutore, ecco tutti questi aspetti sono stati vissuti da molti in maniera angosciante e persecutoria. E allora è facile che un paziente sul lettino possa star male per entrambi, oppure possa confonderli, rendendo l’analisi più complessa. In breve, come ormai i terapeuti più illuminati vanno dicendo, è tempo che l’analisi torni ad essere una disciplina aperta alla società, al mondo, e non solo una riflessione rigida avviluppata sulle nevrosi dei singoli. Di questo aspetto in In Treatement non c’è traccia, perché forse non era il suo scopo. Intanto però un aspetto importante c’è: conoscere la vita del terapeuta, vederlo chiedere aiuto a un’altra psicoanalista, rende gli spettatori consapevoli che l’analista non è un mago, ma un uomo. Che il rapporto analista-paziente resta comunque, un aspetto troppo dimenticato, un rapporto tra due esseri umani, pari. Che l’analista può sbagliare, persino fallire, la grande paura (rimossa) di ogni “analizzato”. Ma che invece proprio dal riconoscimento di quella parità, pur nella differenza di strumenti, passa una guarigione più vera. E sicuramente più duratura.
 
 
IN TREATMENT: ESSERE IN ANALISI, “SCONTRO” O “GIOCO”?
di Elisabetta Marchiori, mag.sky.it, 29 aprile 2013
 
Sorprende come certi film abbiano il potere di muovere nello spettatore affetti e riflessioni del tutto diversi. Immagini, dialoghi, musiche e storie vengono rielaborati attraverso processi coscienti e inconsci, per essere trasformati in una “pellicola” del tutto personale. Vale anche per la fiction In Treatment, per la quale alcuni psicoanalisti si sono cimentati nella sfida: seguire il dr. Mari, i pazienti e il suo supervisore puntata per puntata, settimana per settimana. Ognuno ha dato una propria versione, attento a “dire qualcosa di psicoanalitico”, senza dimenticare che si tratta di una fiction e non della registrazione di sedute reali. Leggere i commenti dei colleghi mi ha offerto un replay delle puntate, viste con altri occhi, tanto da chiedermi se Giovanni, Sara, Dario, Alice, Lea, Pietro e Anna fossero solo omonimi protagonisti della fiction che ho visto io.
In Treatment raggiunge l’obiettivo, non scontato per un prodotto televisivo, di coinvolgere, suscitare emozioni, produrre scambi di pensiero.
Giunto alla quarta settimana mi spetta il compito di tentarne un bilancio, e mi ritrovo, con il dr. Mari, in imbarazzo e un po’ smarrita. Di queste sedute, che si susseguono incalzate da un crescendo drammatico di emozioni sempre più forti, di traboccante eccitazione, forse l’unica cosa che uno psicoanalista – con Anna – può dire è: “non so che cosa dire”.
Lo sottolinea nel commento all’incontro fra Giovanni e Anna il collega Luca Nicoli sul sito Spiweb (S.P.I. sta per Società Psicoanalitica Italiana, ndr). Ma sarebbe un “non saper cosa dire” che significa – ricordando il bel libro Lo zen e l’arte di non sapere cosa dire, dello psicoanalista Stefano Bolognini – avere in mente molto da dire, sentendo e comprendendo che nulla di quanto si ha in mente sarebbe sufficiente, esaustivo e adeguato a rendere la complessità, la profondità, il senso di ciò che si è presentato sulla scena; tanto meno di una fiction, che entra in un luogo, quello della stanza d’analisi, e in un rapporto, quello dello psicoterapeuta-psicoanalista con i suoi pazienti, davvero difficili da esplorare con una macchina da presa. A partire dallo studio del dr. Mari, così poco accogliente (come le sue braccia troppo spesso conserte) e popolato di oggetti che dicono troppo di lui, fino all’abuso della self-disclosure (rivelamento non solo di opinioni, ma anche di fatti personali del terapeuta), attraverso una serie di elementi molto lontani dalla cultura psicoanalitica italiana. Mi chiedo l’effetto che la rappresentazione può indurre in una persona che desidera “entrare in terapia”.
Chi ne ha esperienza può riconosce le differenze fra realtà e finzione, ma chi non ne ha? É attratto, spaventato, incuriosito o dissuaso?
Allora qualcosa si può dire, per sollecitare la capacità critica costruttiva dello spettatore: credo che la battuta di Anna in chiusura dell’ultima puntata, l’esplicitazione del bisogno di pensare e il silenzio che segue mi abbiano colpita particolarmente perché segnalano ciò che nelle sedute di Giovanni con i suoi pazienti non si era sentito (e per esigenze drammaturgiche forse non può farsi sentire), ma che il regista e gli sceneggiatori mettono sapientemente in luce, rilevandone la mancanza. Il grande Assente, che invece è molto presente in qualsiasi trattamento di psicoterapia psicoanalitica e di psicoanalisi, è il silenzio, quello che garantisce lo spazio e il tempo necessari affinché quanto succede nella stanza di analisi e nelle dinamiche transferali e controtransferali permetta di avvicinarsi al mondo interno del paziente, di dare un senso alla sua esperienza, di produrre pensiero.
Le sedute, per come le ho percepite, non hanno la caratteristica di un “bell’incontro”, come quello che avrebbe voluto Dario con Sara (e forse con Giovanni). Avere un “bell’incontro” si riferisce alla sfera dell’autenticità, della creatività, che non elimina sofferenze, incomprensioni, difficoltà, ma permette di accoglierle, valorizzarle, elaborarle.
In quest’ottica, la psicoanalisi può essere intesa come “l’arte dell’incontro”, che permette una rappresentazione nuova degli incontri che hanno segnato le svolte e i destini della vita di ognuno di noi, creando i presupposti per quelli che verranno. Le terapie del dr. Mari sembrano svolgersi all’insegna dello scontro, più o meno frontale, della sfida dal ritmo pressante, in un susseguirsi di affermazioni provocatorie, domande, azioni impulsive (la più eclatante è il tentativo di suicidio di Alice), descrizioni di atti sessuali più o meno violenti, privi di desiderio autentico per l’Altro, spiegazioni razionali, racconti di situazioni personali (non essere riuscito a salvare la propria madre, essere eccitato da racconti erotici, avere da adolescente pensato al suicidio, essere sposato e in crisi con il proprio matrimonio) e interpretazioni il più delle volte precoci, collusive, che non portano a consapevolezza.
I pazienti pare si difendano come possono: chi smette di parlare di sè e si concentra sull’analista (Sara), chi si chiude in bagno e ingoia gli psicofarmaci del medico (Alice), chi si prende la pausa caffè (Dario), chi s’infuria e urla “cerchi di ascoltarci lei per una volta” (Pietro).
Eppure, di “materiale” per lavorare bene, i pazienti del dr. Mari ne forniscono, eccome! Tuttavia lui ignora, come gli fa notare Anna, che aggredisce, urlando: “è insopportabile che mi interrompi continuamente con i tuoi commenti del cazzo!”. Eppure è proprio quello che Giovanni troppo spesso fa con i suoi pazienti: attraversa una crisi personale profonda, dovuta a conflitti irrisolti e antiche frustrazioni inelaborate, che compromettono la relazione terapeutica. Per essere psicoanalisti e “buoni terapeuti” – come dice Giovanni – non basta “essere passati” per esperienze dolorose, “avere presente” che cosa si prova: è imprescindibile aver lavorato a lungo su se stessi, avere esperienza di un trattamento analitico personale, di un training serio e articolato. É una garanzia che dobbiamo anzitutto ai nostri pazienti!
Un celebre psicoanalista inglese, Winnicott, ha dato a mio avviso una delle più convincenti, e poetiche, definizioni di psicoterapia: un luogo dove si sovrappongono due aree di “gioco”, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia avrebbe a che fare con due persone che “giocano insieme”. Può non essere possibile giocare quando elementi di seduzione prendono il sopravvento, quando l’eccitamento istintuale corporeo è eccessivo, quando l’angoscia è insostenibile, quando non si condividono autenticamente le regole. In quest’ultimo caso, per esempio, il dr. Mari dice a Lea e Pietro “cosa può succedere e non può succedere” durante le sedute e poi viola lui stesso il setting rispondendo al telefono. Saper giocare significa avere la possibilità di fare un’esperienza creativa che prenda spazio e tempo e sia (come il gioco per il bambino) intensamente reale per il paziente e condivisa dal terapeuta.
Per evadere “dalla selva oscura”, dove ogni terapeuta si è talora trovato nella sua esperienza clinica con i pazienti, e per trovare insieme una via d’uscita, bisogna recuperare la possibilità di giocare insieme. Questo comporta che l’analista non reagisca con forza uguale e contraria all’espressione degli affetti dei propri pazienti, abbia la pazienza e l’umiltà di tollerare e rispettare i suoi limiti, di professionista e di essere umano, la capacità di stare al passo del suo paziente, di attendere che le cose emergano, si colleghino, si trasformino, assumano senso, senza pretendere di avere una risposta o una domanda già pronte, sapere sempre cosa dire.
 
 
IN TREATMENT, QUALE EPILOGO? Per la rubrica “Una settimana con il dottor Giovanni Mari” questa volta è Fabio Castriota a commentare le vicende della serie tv diretta da Saverio Costanzo giunta alle sue ultime puntate
di Fabio Castriota, mag.sky.it, 13 maggio 2013
 
In Treatment volge al termine, i commenti specifici dei colleghi che si sono soffermati anche questa settimana sui diversi casi danno una lettura precisa e coinvolgente sui tanti aspetti emersi. La serie ha suscitato contrastanti emozioni tra quanti (noi analisti, pazienti ed “esterni”) hanno seguito le complesse vicende dei diversi personaggi. Il dato più rilevante è che si è trattato di un lavoro che non ha comunque lasciato indifferenti: molti colleghi lo hanno denigrato in quanto fuorviante e scandalosamente lontano da una conduzione minimamente seria dello standard analitico o comunque psicoterapeutico minimamente accettabile, molti pazienti sono rimasti inorriditi dalle rotture di un setting così (fortunatamente) diverso dalla loro esperienza, altri, curiosi, lo hanno vissuto come confuso e sono rimasti senza una chiara risposta su cosa sia veramente una psicoterapia, altri ancora dicono di non uscire la sera per poter seguire le puntate senza perderne una… Dall’altra parte invece (anche tra chi si occupa di cinema e fiction) la versione italiana della fortunata serie è apparsa coinvolgente e stimolante, partendo dal giusto presupposto che la situazione di una stanza d’analisi è antiteatrale di base e che se volessimo realmente descrivere, nei modi e nei tempi usuali, una seduta, il prodotto finale sarebbe lento, noioso, comunque irrappresentabile.
Per questo molti colleghi, e non solo, si sono invece coinvolti (come dimostrano i commenti che hanno preceduto queste mie note) riuscendo a percepire, aldilà di ogni incongruenza tecnica e teorica, un senso più profondo capace di cogliere qualcosa che si attiva nel coinvolgimento che la nostra pratica muove sul piano sia individuale sia relazionale, nell’area intrapsichica ed anche interpersonale.
Soprattutto questa penultima settimana ha visto i protagonisti delle vicende catturati in situazioni che virano su un piano ancor più profondo e drammatico (l’analista riceve addirittura la notizia della morte di un paziente!), mentre compaiono (finalmente) sulla scena sogni e libere associazioni: elementi, la cui assenza, ci ha fatto sentire così poco analitica la situazione. Ma questo non cambia di molto il sentire di chi si è lasciato catturare da In Treatment e da chi se n’è tenuto con sufficienza lontano.
Quello che credo ci ha intrigato (e forse allontanato altri) sono, per cominciare, gli elementi che agitano i protagonisti. Affetti, desideri, paure, odio, amore, distruttività e tutto il repertorio delle emozioni che vengono rappresentate sono quelle che quotidianamente saturano i nostri studi e aprono, chiudono, interrogano le relazioni che abbiamo coi nostri pazienti. Tutti questi stati affettivi (con tutti gli agiti che ne derivano) sono nelle varie puntate concentrati in tempi ridottissimi; quello che vediamo svolgersi in 5, 6 sedute presumibilmente occuperebbe 5, 6 mesi (o forse anni) del nostro lento procedere terapeutico. Ma questo è inevitabile se accettiamo che una fiction s’inoltri nei territori relazionali di un lavoro psicoterapeutico. Aldilà quindi di come si è scelto di rappresentarla e di quali escamotage la regia e la produzione hanno pensato di sviluppare nell’approccio tecnico/clinico dello psicoterapeuta, il dato di fatto è che la “materia emotiva” con cui la serie è costruita è autenticamente vicina ai nostri vissuti.
Più che sottolineare alcuni classici concetti analitici di riferimento, come il transfert ed il controtransfert, In Treatment si articola mostrando come la relazione terapeutica sia sottoposta ai terremoti di movimenti spesso inconsci più vicini ai temi delle identificazioni proiettive, degli agiti (sia dei pazienti sia del terapeuta) e delle forme più violente di enactment. Quello che il protagonista affronta e cerca a modo suo di risolvere (soprattutto in queste sedute finali) è il materiale incandescente o distruttivamente congelante che quotidianamente i pazienti ci portano e che interagisce con i nostri livelli più profondi. Certo noi abbiamo sviluppato altri strumenti, altra tecnica, diversa da quella che il protagonista mette in atto, ma al dunque non stiamo parlando di una fiction didattica e non è questo che possiamo o dobbiamo aspettarci.
In questo senso In Treatment è un fotogramma molto fedele delle patologie e dei problemi che attraversano la nostra realtà e il modo in cui sono espressi dagli attori è di grande livello, cosicché risultano vivi e credibili. Questo è il paese in cui viviamo (nonostante la serie sia nata in Israele) e queste sono le angosce dei pazienti e le nostre difficoltà a gestirle. Se poi ci voltiamo indietro, a un secolo fa, quando la Psicoanalisi muoveva i primi passi e le regole del setting erano in una fase di elaborazione, erano poi tanto diverse le rotture di quella prassi allora in costruzione, da quelle che il protagonista della fiction mette in atto? Questo ci induce a riflettere sulla difficoltà e sullo sforzo tenace che Freud e i primi suoi allievi dovettero affrontare per consegnare agli psicoanalisti della seconda e delle successive generazioni uno strumento capace di metterci di fronte, senza esserne sopraffatti, a quanto di più complesso e talora distruttivo si muove nell’inconscio dei pazienti e di noi analisti, coinvolti relazionalmente con loro. Possiamo, come hanno fatto diversi colleghi, domandarci dell’utilità per la nostra disciplina di una fiction che entri così direttamente nel merito del nostro lavoro, mostrandolo appunto in modo distorto sul versante dell’intervento terapeutico.
L’impressione di alcuni di noi è che in ogni caso la psicoanalisi debba confrontarsi, senza troppo timore, con la curiosità e le fantasie che una larga parte delle persone, che non hanno mai messo piede in una stanza d’analisi, nutre per il nostro approccio terapeutico. Nelle diverse situazioni di outreach ed eventi che la SPI sta progressivamente promuovendo in questi anni il dato costante è un ascolto attento, quando siamo capaci di porgere il nostro sapere e la nostra ricerca in modo profondo, ma nello stesso tempo coinvolgente (tramite una forma dialogante ed empatica) al pubblico dei “non addetti ai lavori”. Intrattenerci in queste note di commento alle diverse puntate di questa serie, seguite e lette con passione da tante persone non necessariamente implicate in un lavoro analitico, può andare in questa direzione di apertura, capace di costruire momenti di scambio e di reciproco arricchimento.
 
 
 
IN TREATMENT: LA DIFFICILE ARTE DI STARE CON LA MENTE
di Benedetta Guerrini Degl’Innocenti, mag.sky.it, 20 maggio 2013
 
Il mestiere dello psicoanalista è uno di quelli nei quali quello che fai e quello che sei si avvicinano di più, fino ad essere, a tratti, una cosa sola. Nel bene e nel male: lavori quando sei felice e quando sei triste, quando sei in buona salute e talvolta anche quando non lo sei, quando la tua vita affettiva è piena e soddisfacente e quando ti consuma e ti svuota, quando i tuoi figli volano verso il loro futuro, ma anche quando zoppicano, mordono, soffrono. E non credo esista un altro mestiere che ti rende così indispensabile, nel momento in cui varchi la soglia dello spazio che condividerai con l’altro, mettere sullo sfondo tutto quello che sei, che hai o che soffri come essere umano per permettere il dispiegarsi della funzione analitica della mente, strumento indispensabile al buon funzionamento della psicoanalisi come disciplina conoscitiva e come terapia della sofferenza umana.
E come cura la psicoanalisi, ovvero che metodo usa per trovare quello che cerca? Una buona risposta potrebbe essere che per trovare quello che cerca ha bisogno di costruire una relazione. Ma ancora non basta. Per dirla con Nino Ferro, Psicoanalisi è una parola composta da tre sillabe: psicoanalista, paziente e setting. Sempre per restare nel minimalismo, potremmo dire che il paziente, parla, l’analista ascolta e il setting riduce al minimo il rumore di fondo prodotto dalla realtà esterna e, auspicabilmente,  anche quello prodotto dalla realtà interna dell’analista. I suoni si possono sentire, i significati si devono ascoltare e ascoltare implica un’attività estremamente complessa; in analisi non si ascolta con le orecchie, ma con la mente.
Quello che distingue immediatamente l’ascolto analitico da quello di una qualunque altra conversazione sta, soprattutto, nell’attenzione alla molteplicità dei livelli del discorso che si devono ascoltare. Ascoltare analiticamente significa distinguere voci diverse, alcune distinguibili, se si sa cosa ascoltare, altre appena udibili, altre ancora mute, talvolta prigioniere nel corpo. Per questo abbiamo un setting, perché, come il buio in una sala cinematografica, ci permette di dimenticarci della realtà esterna, che sia giorno o che sia notte, sia d’estate o sia d’inverno, e di immergerci nella trama.
E la possibilità di cogliere quello che è del paziente, senza rischiare di confonderlo con il nostro rumore interno, è vincolata dalla nostra capacità di operare, come un maestro zen direbbe Stefano Bolognini, un continuo e faticoso esercizio di attesa, un far posto a quel che viene, un esercitare continuamente il non sapere e il non capire.
Mi rendo conto scrivendo queste poche e frettolose considerazioni di quanto sia difficile, insoddisfacente e sostanzialmente fallimentare, spiegare a qualcuno che non è analista, o che non ha mai fatto un’esperienza analitica, quale sia l’essenza di quello che è non soltanto il mestiere che faccio per vivere, ma molto anche di quello che sono come persona. Per questo penso che In Treatment sia stata un’operazione culturale, prima che di intrattenimento, coraggiosa, unica nel suo genere, e riuscita. A un prodotto televisivo di intrattenimento non si chiede di essere aderente alla realtà o documentale: si richiede di suscitare interesse per l’argomento che tratta, di agganciare lo spettatore alla trama e, in pochissimi e fortunati casi, di stimolare il pensiero. E se questa serie tv è riuscita a suscitare interesse per quel fondamentale strumento di cura della sofferenza umana che è la terapia analitica, credo che sugli altri due piani il successo sia sicuro e meritato.
Come spettatrice mi sono appassionata alle vicende dei pazienti di Giovanni Mari, così come mi appassionano le vicende umane delle persone che vengono nel mio studio. Gli autori hanno scelto, con particolare acutezza e con buoni consulenti, personaggi/pazienti che potessero rappresentare le situazioni più complesse e difficili per un analista e quindi sicuramente più avvincenti dal punto di vista scenico; le sedute risultano essere infatti sempre degli incontri/scontri ad alta densità emotiva e concentrano, in pochi personaggi e poche puntate, la polisemia di uno dei fondamentali della psicoanalisi che è il transfert.
Si è molto detto e scritto sulle “mancanze” analitiche di Giovanni Mari, ma credo che nella vita vera, dove anche gli analisti talvolta sostano, a nessuno sia mai capitato di avere una potenza di fuoco come quella concentrata sul povero Giovanni dai suoi pazienti nello stesso periodo di tempo. I suoi pazienti lo vogliono sedurre, aggredire, imbrogliare, manipolare, rendere testimone dei loro tradimenti e dei loro tentati suicidi in diretta, della loro invasione del setting di altri pazienti, della loro impossibilità di sopravvivere, della loro rabbia distruttiva; usano le sue cose per aggredirlo e aggredirsi. La moglie gli comunica che parte per Parigi con l’amante, come se la cosa non fosse emotivamente rilevante, e poi lo attacca per il suo coinvolgimento con Sara sotto gli occhi fastidiosamente compiaciuti dell’analista supervisore. E credo che un’analista supervisore così (magnificamente interpretata da Licia Maglietta) sarebbe un incubo per chiunque, anche se il “fatto analitico” che Giovanni le porta è di quelli che non possono lasciare margini di interpretazione.
Ogni analista potrebbe, mettendosi nei panni di Anna, usare la matita rossa e blu sull’assetto analitico del povero Giovanni, segnalando gli interventi sbagliati, gli agiti, le sordità, le ingenuità, le trasgressioni, ma anche credo le intuizioni, l’ascolto rispettoso, la sincera curiosità per la vita dei suoi pazienti, la modestia nel riconoscere un errore. Leggendo qua e là articoli e interviste sulla prima serie israeliana, forse nel tentativo di conoscere qualcosa di più del “pensatore” di questo formidabile prodotto di fantasia, credo di aver capito che il personaggio analista Giovanni Mari doveva essere colto non nel mezzogiorno della sua vita sentimentale e professionale, ma nella penombra dolorosa di una crisi esistenziale che rischia di svuotarlo di ogni motivazione, di ogni spinta vitale, una crisi che lo rimette, quasi suo malgrado, nei panni del paziente.
Credo sia sempre difficile trovare un finale “giusto” a un prodotto così complesso. Potremmo dire che l’”autore” abbia deciso per un finale aperto, che lasci spazio a una seconda serie, o che abbia deciso di concludere senza avere in mente niente di conclusivo. C’è niente di più psicoanalitico di questo? Forse la specificità di questo prodotto televisivo è proprio questa: che tratta il tema e la trama come la psicoanalisi ci insegna a trattare i nostri pensieri, cioè come un modo di cercare senza cercare, di osservare senza concludere. La difficile arte di stare con la mente.

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1 commento

  1. info_1

    Questo mio piccolo
    Questo mio piccolo contributo, apparso sul sito Spiweb e su ‘Repubblica’.

    I pazienti del dottor Mari costituiscono un fotogramma abbastanza fedele della realtà di un analista. La pratica clinica di ogni giorno accoglie una sofferenza diffusa, un molteplice confuso e disorientato che travalica il censo, la provenienza, e altre appartenenze più o meno riconosciute.

    Non mente il film quando mostra un reale sporco, disordinato, alcolista e tossicomane, che non poco confligge con una certa idea, purtroppo ancora in voga, della pratica clinica come balocco profumato o disciplina asettica e d’elitès. La gente di carne, che corrisponde in pieno ai pazienti che bussano alla porta del dottor Mari, corrisponde sempre meno ai casi clinici esposti nei congressi altisonanti o discussi a più voci.

    L’epoca del consumismo salutista ha riempito gli scaffali di rimedi farmaceutici pronto uso per affanni dell’anima da poco sfornati dagli scriba del DSM, capaci di catalogare e tramutare tante sfumature dell’animo umano in ‘patologie’. Anni e anni di negazione della nostra interiorità hanno portato ad una generazione più incline alla pillola che non alla introspezione.

    “Dicono che sono brava a insegnare, vorrei che lei mi dicesse di cosa soffro, e cosa secondo lei posso fare”, dice la giovane ragazza anoressica che sta “un po’ male”, e bussa alla mia porta perchè “bisogna curarsi”. Senza una identità definita, non del tutto inseriti nel legame sociale, non completamente dentro alla famiglia, non convinti. Un po’ sofferenti, un po’ gaudenti nel loro soffrire. Un poco boh… In cerca perenne di identità, di accettazione, di una collocazione difficile in quanto privi di un Altro alle spalle che abbia loro fornito una solida base. Questi sono gli italiani del contemporaneo. Il lavoro analitico è difficile, oggi, nella misura in cui la soggettivazione paga il prezzo a miriadi di identificazioni, sovente sintomatiche, delle quali si è perso il conto. Nelle prima puntate infatti l’inconscio si mostra con episodici lapsus, lontani dal paziente sul lettino. Sommerso come è da molteplici oggetti che possono saturarlo, silenziarlo, reperibili fuori dallo studio dell’analista Castellitto.

    Per contro, il signore che sta realmente male, si presenta con la carta patinata dello studio professionale, che lo definisce affetto da “depressione di terzo grado legata ad evento stressante”, formula che lo inquieta e sovrasta il suo dire.

    “Ho qualcosa? Ma cosa ho?” parole che diventano un’infinita interpellanza in cerca di una diagnosi che li plachi. Etichetta che facilmente trovano anche presso gli studi degli analisti.

    La psicoanalisi deve essere attuale, ma demodé: cioè perseguire una pratica della singolarità e rinunciare a categorie onnicomprensive che nascondono il soggetto e schiacciano l’inconscio e le sue produzioni.

    Molti psicoanalisti, per contro, hanno tramutato l’analisi in una religione per pochi adepti, sostituendo ai pazienti del dottor Mari tomi di infinite disquisizioni teoriche, sempre più fini, sempre più ‘eleganti’. Edificando luoghi dai quali si può uscire convinti che le psicosi o le depressioni siano raffinate costruzioni, appannaggio di grandi musicisti scrittori, o poeti. Certi che un qualsiasi Herr Schreber aprirà il libro dei suoi deliri accompagnandoci in un percorso di verifica delle nostre teorie. Seccati se questo non avviene.

    Il dottor Mari dunque apre la porta a richieste svogliate, scoraggiate e poco inclini a ogni accenno di approfondimento, poiché vedono l’analista come il tedioso padre che, ad ogni costo, vuole condurli alla radice dei loro comportamenti, superato da centinaia di rimedi farmacologici acquistabili ovunque. Bene fa a essere informale senza essere narciso, presente ma non presenzialista. Per questo motivo, e il film lo mostra bene, il transfert appare debole, cercando la prima paziente di mettere subito l’analista al suo pari, come uomo sul quale alimentare fantasie erotiche, stupita della sua non reazione.

    L’impassibilità e il silenzio del buon analista, sono considerate oggi una anomalia retrograda, in un mondo liquido, spettacolarizzato, nel quale chi non accetta l’ingaggio o non nutre il suo narcisismo nei luoghi dello spettacolo, appare fuori tempo. Vedremo nel seguito delle puntate, se la capacità dell’analista saprà sgombrare il tavolo da tutti questi preliminari, e aspettare l’inconscio manifestarsi in maniera più completa.

    ‘Faccio l’analista perché so aspettare’, scriveva J.Lacan. Una massima fuori moda, oggi che i pazienti paiono avere fretta di guarire, come molti analisti di arrivare ad avere dati da pubblicare.

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