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Strategie per una terapia non strategica: una conversazione con Pietro Barbetta su anoressia e cura

30 Giu 13

A cura di Massimo Giuliani

Nei primi anni 2000 partecipai con Pietro Barbetta – all'università di Bergamo – a un gruppo di ricerca che, fra le altre cose, condusse uno studio su alcune ex pazienti anoressiche e bulimiche. Scopo del lavoro era coinvolgere donne che avessero vissuto l'esperienza dei disordini alimentari, per contribuire a un sapere sul cibo e sul corpo che non prescindesse dalle persone che vi erano – o erano state – coinvolte direttamente.
Di quella ricerca si parlò sul libro di Pietro Barbetta "Anoressia e Isteria" (Cortina, 2005) e sul numero 21 della rivista "Connessioni", che curai con lui.
In particolare, un ramo di quella ricerca ci lasciò molte informazioni ma anche alcune domande sospese, che avrebero trovato risposta negli anni successivi. 
A distanza di tempo, ci siamo trovati ieri a discuterne al Centro Milanese di Terapia della Famiglia, e il video che segue testimonia di questo scambio di idee.
Chi fosse interessato, troverà dopo il video un breve elenco dei testi che abbiamo citato, o che ci hanno fornito idee, o che sono legati in qualche modo a quell'esperienza.

P.S.: solo una correzione a proposito di un piccolo dettaglio sul quale la memoria mi ha ingannato: "Come Rashomon" non è l'articolo pubblicato su Connessioni, ma quello dell'intervento presenttato al convegno SIPPR del 2008 a Montegrotto Terme.

Da consultare

  • Barbetta, P., a cura di (2003), Le radci culturali della diagnosi. Meltemi Editore, Roma.
  • Barbetta, P. (2005), Anoressia e isteria. Una prospettiva clinico-culturale. R. Cortna Editore, Milano.
  • Barbetta, P. (2008), Lo schzofrenico della famiglia. Meltemi Editore, Roma.
  • Barbetta, P. e Giuliani, M. (2008), "Editoriale: Digiunare, divorare, dimagrire, ingrassare, ingurgitare, vomitare". In Connessioni, n. 21.
  • Barbetta, P. (2008), "La verità dell'anoressia". In Connessioni, n. 21.
  • Barbetta, P., Casadio, L., Giuliani, M. (2012), Margni. Tra sistemica e psicoanalisi. Antigone Edizioni, Torino.
  • Bertrando, P. e Defilippi, O. M. (2005), "Terapia sistemica individuale. Effetti di una tecnologia del sé". In Terapia Familiare, n. 78.
  • Boscolo, L. (2009), "Bateson a Milano. Cibernetica, epistemologia, psicoterapia". In Bertrando, M., e Bianciardi, M., a cura di, La natura sistemica dell'uomo. R. Cortina Editore, Milano.
  • Cronen, V. E. (1991). "Coordinated management of meaning theory and postenlightenment ethics". K. J. Greenberg (Ed.), Conversations on communication ethics. Norwood, NJ: Ablex.
  • Elkaim, M. (1992), Se mi ami non amarmi. Bollati Boringhieri, Torino.
  • Giuliani, M. (2008), "Le emozioni dei terapeuti e la memoria della paziente". In Connessioni, n. 21.
  • Giuliani, M. (2012), voci "Scuola di Milano", "Controparadosso", "Rituali terapeutici", in Nardone, G. e Salvini, A., Dizionario internazionale di psicoterapia. Garzanti Editrice, Milano.
  • Giuliani, M. e Valle, A. (2007), Uomini e donne oltre lo specchio. DIfferenza di genere e terapia della famiglia. Psiconline, Chieti.
  • Olson, M. E. (2000), "Listening to the Voices of Anorexia. The Researcher as an 'Outside-Witness'". In Olson (Ed.), Feminism, Community, and Communication. Routledge.
  • Selvini Palazzoli, M., Boscolo, L., Cecchin, G., Prata, G. (1978), Paradosso e controparadosso, Feltrinelli, Milano. Rist. R. Cortina Editore, Milano (2003).
  • Selvini Palazzoli, M., CIrillo, S., Selvini, M., Sorrentino, A. M. (1998), Ragazze anoressiche e bulimiche. R. Cortina, Milano.

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5 Commenti

  1. tito.sartori

    Mi è capitato di provare ad
    Mi è capitato di provare ad applicare il modello sistemico in ambito scolastico. Ricordo un gruppo classe descrittomi come particolarmente litigioso, al punto che molti erano ormai gli episodi di violenza, fisica e verbale, che alcuni alunni erano soliti attuare. Incontrando i ragazzi (avevano all’incirca 15 anni), avevo invece la sensazione di un gruppo di persone energiche e spumeggianti, forse sopra le righe alle volte, ma assolutamente collaborative. Tanto da sembrarmi davvero un gruppo unito! I docenti si dimostrarono perplessi di fronte alla mia descrizione. Una classe unita e collaborativa era un’idea così distante dalla loro esperienza da non riuscire a darle un senso. Mi ritrovai, per farla in breve, di fronte a due descrizioni opposte, che – ironia! – pure i ragazzi accoglievano: erano una classe disunita fino al punto da attivare conflitti e separazioni anche violente e, al tempo stesso, erano una classe unita e collaborativa, in grado di generare un piacevole clima di lavoro. Prescrissi alla classe, con il benestare (stupito) degli insegnanti, di essere disunita i giorni pari e unita i giorni dispari. Usarono un bel calendario, che consultavano ogni mattina… Il risultato fu che gli episodi di violenza diminuirono drasticamente già nelle prime due settimane, fino a scomparire. La classe, unita e/o disunita che fosse, riprese il suo cammino evolutivo. A distanza di tempo, ascoltando le parole di questo video, mi domando se ciò che ha generato cambiamento sia stata la tecnica paradossale o il significato co-costruito nella relazione di fiducia (forse, al tempo, un evento più unico che raro, considerata la situazione conflittuale) relativamente alla prescrizione stessa. Una prescrizione data “fuori” da una tale relazione, immagino, non avrebbe avuto efficacia. Tuttavia, anche la prescrizione ha avuto un effetto importante, ne sono convinto. Sto ragionando su questi confini rispetto a tali regioni del cambiamento… qualcuno mi aiuta a vederci più chiaro?

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    • info_2

      Ciao Tito,
      grazie perché il

      Ciao Tito,
      grazie perché il tuo intervento coglie il senso di quello che intendevamo dire e anche del titolo che ho dato al post: si può non essere strategici – e dopo il confronto con la cosiddetta cibernetica del secondo ordine, e con le epistemologie che hanno messo in discussione l’idea che si possa indurre strumentalmente un cambiamento, e con la narrativa, e con la riflessione etica degli ultimi anni, è legittimo non esserlo – senza rinunciare alle tecniche di conversazione e di “intervento” del periodo strategico-sistemico e, anzi, scoprendone una ricchezza che forse la pretesa strategica ci aveva nascosto.
      Sarà stata la tecnica paradossale o la relazione di fiducia? Ma una relazione di fiducia si alimenta anche della curiosità dello psicologo che sta lì a guardare in che modo originale e unico risponderanno quei ragazzi una volta che qualcuno smetta di prescriver loro le solite cose che si aspettano…

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      • tito.sartori

        Penso che il passaggio da una
        Penso che il passaggio da una posizione strategica poggiata su una cibernetica di primo ordine a una posizione interattiva fondata sull’idea che non si possa modificare un sistema dall’esterno sottolinei soprattutto una differente concezione del futuro e delle possibilità e libertà di cambiamento di un sistema, appunto. Nel secondo caso, infatti, ci si gode un atteggiamento che definirei di “meraviglia del possibile”; intendo dire che, consapevoli che non si può controllare il cambiamento (e che non si vuole nemmeno farlo), dato un qualche input differente alla storia si vede come essa evolva, nel rispetto delle scelte dei personaggi che la abitano. Mi viene in mente certa musica araba, che sembra non avere passato né futuro; sembra non terminare mai…

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  2. codirettore

    Nel mio vecchio libro “O
    Nel mio vecchio libro “O divina bellezza … o meraviglia!” parlo della tenerezza cui fate cenno nella vostra conversazione. Io lì ho deciso di osare. “Transfert” non mi andava bene perché certamente ci sono degli elementi transferali, ma se la chiamassi transfert sarebbe come confondere la parte con il tutto. “Risonanza” ha molto senso, ma c’è in questo “lanciarsi” verso il mio paziente qualcosa che è stimolato proprio da ciò che non mi risuona, qualcosa che non comprendo, non ha senso per me, magari mi urta perfino o mi mette ansietà. C’è quindi anche, seppur parzialmente, un “morire” – alle proprie certezze, alle proprie sicurezze legate all’identità professionale, al setting, alle teorie di riferimento.
    Insomma, pur sapendo di correre un rischio, perché la parola è bistratta e spesso abusata, e bisogna disciplinare se stessi per usarla bene, ho deciso di chiamarlo “amore”. Se usiamo bene questa parola, possiamo dire che c’è una relazione d’amore tra terapeuta e paziente. A volte questo amore si realizza nel proseguire anche se i sintomi non ci sono più, altre volte magari nell’assentarsi quando i sintomi ci sono ancora.
    Grazie per il vostro bell’intervento

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    • info_2

      Ciao Massimo, grazie a te.
      A

      Ciao Massimo, grazie a te.
      A me piace la “risonanza” di Elkaim. Mi piaceva anche il termine che rimpiazzò con quello, “intersezione”.
      Ma sì, “risonanza” mi aiuta di più. Perché pensare in termini di “risonanza” mi fa domandare cos’è che risuona, e che suono ha, e come mai risuona. Mi dà informazioni non solo su di me come “strumento”, e sulle mie corde: ma anche sul modo che l’altro ha di suonare. E, importantissimo, sulla musica che gli piace suonare!

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