David Takeuchi e Sue-Je L. Gage nel loro What to do with race? Changing notions of race in the social sciences (Culture, medicine and psychiatry, 27, 435-445, 2003) hanno commentato il Supplemento del Rapporto 2001 del Surgeon General sulla salute mentale (vedi in questa rubrica, note da marzo ad agosto 2021) discutendo lo stato e l'evoluzione delle ricerche sul razzismo negli USA.
Secondo un approccio di tipo biologistico largamente egemone negli studi scientifici Nord americani fino agli anni ’20 del secolo scorso, i gruppi umani si differenzierebbero e caratterizzerebbero per caratteri fisici, morali, mentali inestricabilmente interconnessi, secondo la propria “razza” di appartenenza ed esistiterebbe una gerarchia fra le razze umane, con i bianchi al suo vertice.
Gli studi sull’intelligenza, la personalità e il carattere confermarono l'esistenza di tale gerarchia, in particolare con le ricerche di Stanley Porteus (1926) che con i test di intelligenza certificò l’inferiorità delle razze non-bianche. Nei primi anni ’20 del Novecento le Hawaii in particolare, in quanto abitate da una popolazione multietnica, furono luogo di numerosi studi su razza, intelligenza, personalità. Secondo Porteus i nativi hawaiani erano docili e pazienti, ma superficiali e suggestionabili, e andavano collocati a stadi infantili dello sviluppo dell'umanità, al fondo della scala evolutiva; i cinesi, invece, erano fra i soggetti meno suggestionabili e più fidi e leali, benché egoisti, autocentrati; i giapponesi erano al vertice dei gruppi non-bianchi, in particolare per la loro capacità di autocontrollo, ma erano ritenuti troppo aggressivi e troppo pronti a usare contro l’uomo bianco le sue stesse armi; i filippini si collocavano invece in uno stadio adolescenziale.
Le idee di Porteus non furono accettate da tutti: in particolare Franz Boas affermò che lo status dei gruppi razziali non era conseguenza di loro presunti deficit di intelligenza, ma del fatto di non aver avuto adeguate opportunità quanto a condizioni sociali, discriminazioni, strutture di classe, pregiudizi culturali.
La Scuola di sociologia dell’Università di Chicago si impegnò e promosse ricerche per criticare l’approccio biologistico riuscendo a introdurre il termine “cultura” nel vocabolario delle scienze umane. In particolare per Robert Park il termine “razza” creava problemi nei rapporti sociali. Egli fu impegnato a investigare sul come le razze cambiavano, evolvevano e sulla loro capacità di assimilazione. I conflitti razziali e i loro esiti rientravano in un processo evolutivo di competizione, adeguamento, assimilazione, un processo che, una volta concluso, avrebbe migliorato i rapporti fra le razze stesse. I matrimoni “misti” avrebbero in particolare favorito la riduzione delle distanze e ridotto la “coscienza di razza”; i nati da tali matrimoni sarebbero stati più intelligenti dei genitori non-bianchi e di maggiore successo nella vita. Il sogno di Park non poté avverarsi soprattutto perché si scontrò con le leggi degli Stati che impedivano le unioni interrazziali, mentre, anche se fra proteste, ebbe esito positivo l’assimilazione dei migranti di etnie europee, quell’assimilazione che si dimostrava impraticabile per gli afroamericani..
Afroamericani e asiatici restarono un problema finché non furono gli scienziati sociali afroamericani e asiatici nella seconda metà del XX° secolo a studiare e mettere in discussione il modo con cui l’America bianca percepiva gli americani non-bianchi e avviare un cambiamento. Le ricerche degli anni ’50 e ’60 dimostrarono che non c’erano le condizioni per un’assimilazione, dei Neri in particolare, nella vita americana. Furono adottati programmi educativi per ridurre gli stereotipi negativi ed eliminare le “parole d’odio” ritenendo che il razzismo costituisse una ideologia sradicabile attraverso lo studio dei contesti di vita e delle storie attinenti i gruppi razziali e lo sviluppo di atteggiamenti di partecipazione empatica rispetto alle condizioni in cui ogni gruppo versava. Ma l’educazione da sola non risultò essere in grado di ridurre gli stereotipi.
Fu il movimento per i diritti civili a portare a modificazioni profonde delle politiche e dei programmi in base all’assunto che le ideologie razziste sono solo una parte di un problema il cui cuore sta in una struttura sociale razzializzata. Il razzismo istituzionale crea e riproduce le barriere economiche, educative, lavorative al progresso delle minoranze. Nella società razzista le gerarchie creano e mantengono condizioni per le minoranze caratterizzate da alienazione, frustrazione, mancanza di potere.
Sue e altri (1974) dimostrarono l’inutilità e l’inefficacia dei servizi di salute mentale dell’epoca rispetto ai bisogni delle minoranze etniche. Il NIMH a partire dagli anni ’70 condusse ricerche sul razzismo istituzionale e il suo impatto sull’assistenza psichiatrica delle minoranze.
L'adozione del parametro dello status socioeconomico (il Socio Economic Status – SES comprende i parametri di reddito, ricchezza, educazione, condizione lavorativa) risultò uno dei fattori dominanti nello status di salute mentale e la ricerca degli ultimi due decenni del XX secolo ha indicato la riduzione o la scomparsa dell’impatto del fattore “razza” quando il SES entra nell’analisi multifattoriale delle cause dei disturbi mentali.
Gli studi di genetica delle popolazioni hanno dimostrato che vi sono pochissime differenze nel genoma dei vari gruppi razziali, che la razza come unità di misura biologica non ha riscontri empirici. Le scienze sociali, per la loro parte hanno contestato le nozioni essenzialiste di razza sulla base del fatto che le attribuzioni di diversità di razza sarebbero basate su stereotipi e pregiudizi legati ad alcuni tratti somatici: le razze non esistono ed esiste una sola razza umana.
A questo si aggiunga la campagna antirazzista lanciata dal presidente Clinton nel 1997 “Una sola America nel 21° secolo” che diede vita ad azioni di ricerca e intervento sugli effetti del razzismo circa educazione, lavoro, giustizia criminale e salute in quattro gruppi razziali (Afroamericani, Indiani Americani e Nativi dell’Alaska, Asiatici americani e isolani del Pacifico, Bianchi) e nel gruppo etnico degli Ispanici.
Ma le categorie razziali continuano ad essere usate portando con sé credenze circa l'esistenza delle razze umane stesse, stereotipi, pregiudizi che assai spesso ispirano e condizionano le scelte dei trattamenti nell'assistenza psichiatrica quando riguardano persone appartenenti a gruppi a basso potere contrattuale e ad alto rischio di emarginazione.
Sono molto importanti quindi le ricerche che fanno luce sui meccanismi con cui l'idea di razza influenza i modi di pensare nella vita quotidiana della gente, operatori della salute mentale compresi, su quali sono gli effetti a lungo termine dell'oppressione di un gruppo sociale.
Luigi Benevelli ( a cura di)
Mantova, 1 novembre 2022
P.S.
Per venire in Italia, nelle settimane scorse ha fatto discutere la domanda “Ma tu sei italiana?” con cui è stata apostrofata Paola Egonu, cittadina italiana, nera di pelle, la più grande pallavolista in attività in Italia, dopo che aveva buttato fuori dal campo di gara la battuta consentendo la vittoria del Brasile sulla nostra squadra nazionale. Come se, a causa del colore della sua pelle, si potesse dubitare della sua lealtà sportiva e del suo attaccamento alla maglia azzurra.
E per stare nell' Italia di oggi, Giorgia Meloni – neopresidente del nostro governo – per tutta la campagna elettorale e nel discorso di insediamento, parlando dell'Italia, ha continuato ad usare il termine Nazione al posto di altri possibili, come popolo, patria, cittadinanza, paese, stato.
Il Devoto-Oli (1971) definisce la nazione «unità etnica cosciente di una propria particolarità e autonomia culturale, specialmente in quanto premessa di unità e sovranità politica; anche origine, nascita, con riferimento alla famiglia o alla patria, complesso di persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza».
Non si tratta tanto, ovviamente, di un problema linguistico, perché la scelta ripetuta del termine, oltre a sottolineare le differenze fra gli italiani e gli altri popoli, europei e non europei, porta a ignorare le persone non cristiano-cattoliche e non di pelle bianca che abitano la penisola.
Un uomo politico europeo vicino alle posizioni di Giorgia Meloni – il presidente ungherese Orban – recentemente ha affermato: «Noi (ungheresi) non siamo una razza mista e non vogliamo diventare una razza mista», aggiungendo che «ove gli europei si mescolano con i non europei, non ci sono più nazioni».
Sulla base di tali assunti, nei loro programmi le destre europee si sono comunemente impegnate «alla difesa e promozione delle radici e identità storiche e culturali classiche e giudaico-cristiane dell'Europa», intese come qualcosa di saldo e di permanente e oggi sotto attacco, minacciate.
Nella legislazione italiana permane lo ius sanguinis , per cui i connazionali residenti all'estero godono dei diritti di cittadinanza e possono partecipare al voto nelle elezioni italiane, mentre ancora recentemente, è stato reiterato il diniego dello ius scholae alle generazioni di giovani immigrati nati e cresciuti tra noi insieme ai loro coetanei italiani d'origine. Possiamo così comprendere perché sia difficile l’esercizio dei diritti di cittadinanza, fra cui quello della salute, e della salute mentale in particolare, per chi non è bianco, cristiano-cattolico, europeo, ossia quasi il 10% della popolazione che abita oggi la penisola.
Per questo va ricordato e ribadito che la nostra Repubblica ha il compito di tutelare e promuovere i diritti civili di tutti, a prescindere dal colore della pelle, dalle lingue parlate e dalle religioni praticate. Non sta scritto da nessuna parte che la nostra Repubblica possa privilegiare una sola maggioranza etnica.
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