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Su come i saperi individuali si fondono nel sapere collettivo

18 Mar 23

A cura di antonello.sciacchi16

La mossa antiscientifica della medicina (e di certa psicanalisi medicalizzata) è tipica e facilmente riconoscibile: cancella la variabilità della popolazione, cui l’individuo appartiene, e si fissa sulla singolarità clinica individuale. Il singolo diventa il totem di certa psicanalisi contemporanea, che trascura il sapere collettivo e si affida solo all’individuale come al verbo divino, in nome di un malinteso rispetto della persona. Seguendo la logica individualista, la medicina ufficiale si è trovata a mal partito ad affrontare la pandemia da Covid, generata dall’interazione di due variabilità collettive tra due popolazioni diverse e tra loro in competizione: la variabilità della popolazione dei virus e la variabilità degli umani. L’epidemiologia, intesa come scienza delle popolazioni, non fa tradizionalmente presa sul medico, cui non si è insegnato a ragionare in termini di variabilità, quindi di probabilità, tanto meno di collettivi. È il prezzo che la medicina deve pagare per sottotrarsi al discorso scientifico moderno, conservando l’antico imprinting ippocratico-aristotelico dello scire per causas.

Il medico che superi l’assetto antiscientifico della sua formazione scolastica avrebbe molto da imparare dall’uso diagnostico del teorema di Bayes, che dà la probabilità a posteriori della diagnosi, dopo aver osservato certi sintomi. Secondo tale teorema la probabilità a posteriori della diagnosi, dati i sintomi, è proporzionale al prodotto di due probabilità (probability): la prima è la probabilità a priori, che misura la prevalenza della malattia nella popolazione di cui il paziente fa parte (chance); la seconda è la verosimiglianza (likelihood), cioè la probabilità che i sintomi effettivamente riscontrati nel caso in esame siano quelli propri della malattia diagnosticata.

 Il teorema, di cui voglio parlare, è un enunciato inedito del 1793, dovuto al reverendo Thomas Bayes, in piena rivoluzione francese. Come si vedrà, esso ha una certa pertinenza in un sito che tratta del soggetto collettivo. Il prodotto probabilistico di cui tratta (probabilità a priori x verosimiglianza) mette bene in evidenza le due componenti, una individuale, l’altra collettiva, che entrano sia nel ragionamento statistico sia nel ragionamento diagnostico. (Che ha una dimensione collettiva nel senso di valutare il caso clinico singolare come elemento di un insieme plurale di casi patologici).

La probabilità a priori della malattia, intesa come la sua ricorrenza in una certa popolazione, individua la componente propriamente collettiva del discorso. Nel caso della diagnosi medica-epidemiologica tale probabilità è misurata come frequenza della malattia nella popolazione in esame. È ovviamente il fattore preponderante nel caso di una pestilenza. Per contro, la componente individuale è data dalle probabilità delle diverse configurazioni sintomatologiche nelle diverse malattie, che il medico ha appreso durante la formazione teorica, sui testi di patologia speciale, e durante la formazione pratica al letto del malato. Queste probabilità non sono riconducibili a frequenze; sono verosimiglianze, che hanno come modelli dei gradi di sapere: si sa con una certa attendibilità – la si chiama probabilità ma a rigore è una plausibilità – che nel tifo ci siano febbre e diarrea con certe caratteristiche. Queste verosimiglianze rappresentano in tutta la loro portata l’aspetto epistemico dell’operazione diagnostica: riportano il saperci fare o la competenza del medico. Sono indipendenti dalla frequenza statistica della malattia.

Il prodotto delle due probabilità, la collettiva e l’individuale, l’oggettiva e la soggettiva, dà come risultato una terza probabilità: la probabilità a posteriori della malattia, a partire dalla configurazione sintomatologica osservata. In altri termini, il teorema dà la probabilità dell’ipotesi che si sia verificata la malattia diagnosticata, dato il complesso sintomatologico osservato. Più è alta tale probabilità, più è alta la probabilità di trovarsi di fronte alla malattia diagnosticata. Il teorema di Bayes è un tipico teorema di inversione, parente di altri importanti teoremi di inversione, per esempio nella teoria degli integrali secondo Fourier della trasmissione del calore: inverte la probabilità di B dato A in probabilità di A dato B, grazie alla probabilità a priori. Sta in questa inversione la sua potenza epistemica, nonostante la sua semplicità.

Insomma, astraendo di poco il discorso, il collettivo è il luogo dove si fondono in senso probabilistico due saperi: il sapere individuale (o del medico) sulla probabilità dei sintomi nelle varie malattie e il sapere collettivo (o dell’istituto di statistica) sulla probabilità delle malattie, considerate a prescindere dai sintomi individuali (perciò sono probabilità dette a priori). La diagnosi fonde il sapere individuale (o del medico) con il sapere collettivo (o dell’istituto di statistica).

Questa formulazione, condotta in termini medici, da cui si può facilmente liberare per adattarla ad altri contesti, lascia spazio a facili correzioni epistemiche sia individuali che collettive: basta modificare le probabilità, sia le probabilità a priori sia le verosimiglianze, mediante rilevazioni empiriche. È la ragione per cui l’approccio bayesiano è adottato da certi programmi di ricerca nell’ambito della cosiddetta intelligenza artificiale basati su algoritmi che apprendono dall’esperienza.

Trascuro altri dettagli. Qui mi preme mettere in evidenza che si tratta sempre dell’interazione di due soggetti: il soggetto collettivo e il soggetto individuale, che interagiscono attraverso il loro sapere: il primo aspecifico, il secondo specifico, uno generale, l’altro particolare. Il collettivo rappresenta il contesto epistemico dove il soggetto individuale agisce con il proprio sapere particolare nel contesto generale. Come? Rilevando i dati dell’esperienza individuale: li inserisce nell’esperienza collettiva già acquisita e la particolarizza. Si tratta di operare una sintesi tra livello oggettivo (probabilità dell’evento) e livello soggettivo (verosimiglianza dell’ipotesi). Il modello bayesiano, che moltiplica le probabilità a priori con le verosimiglianze, per dare le probabilità a posteriori, è il modo più semplice ma anche più generale e ragionevole per pensare la sintesi tra collettivo e individuale.

Forse anche in psicanalisi si può ammettere un simile discorso, accettando l’ipotesi per ora bizzarra, per non dire fantascientifica, di probabilità inconsce. Ciò pone un problema di non poco conto, perché Freud non parlò mai di probabilità oggettiva dell’evento ma solo di verosimiglianza soggettiva dell’ipotesi. C’è un problema di traduzione, che deve per forza diventare interpretazione contestuale. La Wahrscheinlichkeit tedesca è, infatti, difficile da tradurre in italiano (ma anche nell’inglese della Standard Edition di Strachey), perché significa entrambi i concetti a seconda dei contesti: sia la probabilità oggettiva dell’evento sia la verosimiglianza soggettiva dell’ipotesi. Vincenzo Cicero lo sapeva bene; traducendo la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, usò entrambi i termini per tradurre Wahrscheinlichkeit in italiano: “Rispetto alla verità, la verosimiglianza o probabilità [sic] perde ogni differenza di maggiore o minore probabilità: per quanto grande sia, la probabilità non è nulla di fronte alla verità”.[1] Svalutando la nozione di probabilità, nel caso annullando la differenza tra probabilità e verosimiglianza, emerge tutta l’avversione dell’idealismo tedesco per la scienza galileiana, repulsione ereditata anche da Freud che non citò mai Galilei nelle 7000 pagine dei suoi Gesammelte Werke. Per lui il genio rinascimentale italiano fu e rimase Leonardo, più artista che uomo di scienza. Freud fu il caso esemplare di chi usa l’arte per rendere non avvenuta la scienza moderna. Dopo tutto la scienza galileiana ha sulle spalle qualche millennio in meno dell’arte.

A proposito di scienza moderna, si ignora che Galilei fu l’autore di un finissimo ma poco noto scritto di calcolo delle probabilità, dato a Firenze tra il 1612 e il 1623 e intitolato Sopra le scoperte dei dadi, dove il fisico fiorentino spiegò l’apparente paradosso per cui con tre dadi è più facile che esca il dieci del nove, pur essendo uguali i numeri delle somme di tre addendi pari a dieci e a nove. In questo scritto Galilei anticipò il modo moderno di trattare gli spazi di probabilità pluridimensionali come spazi prodotto. Per la precisione va detto che oggi osiamo a meno di tre secoli dalla formulazione della nozione di probabilità nella corrispondenza tra Pascal e Fermat del 1654. In proposito va anche riconosciuto che la svalutazione della nozione moderna di probabilità, che gli antichi non conobbero, pur essendosi divertiti a giocare a dadi, segna il riemergere dello spirito religioso, che condannò Galilei nel processo, intentato contro di lui nel 1633 dall’Inquisizione domenicana. Poiché Dio non creò il mondo in modo probabilistico, ma instaurò un mondo rigorosamente deterministico, basato sul ferreo principio di causa ed effetto, la probabilità è potenzialmente blasfema in quanto incrina tale principio. Ancora mio padre, medico ottocentesco, biasimava i colleghi che formulavano diagnosi di probabilità di stampo bayesiano. 
 
Poscritto. Non sono più giovane. Appartengo alla generazione che visse la stolida diatriba tra fautori della probabilità soggettiva, intesa come grado di sapere (o meglio al plurale: degrees of belief), e fan della probabilità oggettiva, intesa come frequenza statistica: Bayes contro Fisher in un immaginario duello, tanto sterile quanto inutile. La diatriba era ideologica e senza senso. Per correttezza e completezza ci vogliono entrambe le probabilità: la soggettiva, la verosimiglianza dell’ipotesi, e l’oggettiva, la frequenza empirica dell’evento. Bayes ha il merito di aver individuato il modo di comporle nella probabilità a posteriori dell’ipotesi, dato l’evento (nella diagnosi medica, la probabilità della malattia, dati i sintomi).



[1] G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito (1807), trad. V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, p. 361, corsivo mio.

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