Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019)
Autore: Antonio Esposito
Editore: Ad est dell’equatore
Anno: 2019
Pagine: 678
Prezzo: 30 euro
- “Le scarpe dei matti”: una recensione
Della prossima uscita del libro Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019) Antonio Esposito, giornalista e ricercatore indipendente nel campo sociale di Napoli, mi aveva parlato l’anno scorso, in occasione della presentazione a Genova del volume Storia di Antonia, scritto con Dario Stefano Dell’Aquila e recensito in questa rubrica.
L’immagine da cui il testo prende le mosse è quella di un cumulo di scarpe spaiate e impolverate scoperto accidentalmente nel sottoscala di un manicomio, ed è suggestiva per due ragioni. La prima è l’implicito rimando al lager; la seconda, all’idea che è un percorso attraverso l’ultimo secolo e poco più di psichiatria italiana quello che ci viene proposto.
Non è facile classificare il volume perché rispetto al testo di riferimento per la storia della psichiatria italiana, Liberi tutti di Valeria Paola Babini del quale condivide quasi, per la parte storica, la data d’inizio (1902-1978 in quel caso), manca dell’equilibrio tra le parti e dell’ordinamento cronologico che caratterizzano un testo, appunto, di storia, e si pone in una prospettiva diversa arrivando a comprendere la storia più recente, quasi il giornale di ieri.
Parte però forse da troppo indietro per essere un volume dedicato alle questioni aperte della psichiatria dell’oggi, molte delle quali vi trovano uno spazio, alcune più adeguato e altre meno (dall’impatto dell’amministrazione di sostegno, al superamento ancora in atto dell’OPG, alla contenzione, al TSO e all’ASO, la neoistituzionalizzazione, persino ai LAI e alle tecniche di brain modulation, nonché alle recenti proposte di riforma di Lega e Radicali, ai dati ProgRes e agli ultimi dati diffusi dal Ministero e commentati da SIEP sullo stato dei servizi).
Il taglio comunque rimane quello dello storico, applicato anche alla cronaca, il che mi pare indubbiamente un tratto di originalità e di interesse.
Il testo si compone di diversi capitoli: il manicomio e la legge 36, il lungo periodo dalla legge 36 alla legge Mariotti, le esperienze degli anni ’60 e ’70, gli scandali manicomiali, la legge 180, lo stato attuale dei servizi, il TSO, il manicomio e l’OPG, le terapie di shock e la psicochirurgia, la contenzione, la psicofarmacologia. Difficile è anche capire a chi sia dedicato: per chi già conosce e frequenta la materia propone senz’altro una documentazione preziosa e ricostruisce in modo puntale passaggi importanti, come quello del dibattito in costituente sull’articolo 32, tra le pagine più belle; in altri casi però ripropone nozioni che forse avrebbero potuto essere date per note e riassunte. Per essere dedicato a chi si avvicina per la prima volta a una vicenda complessa, quella psichiatrica italiana, il livello di documentazione e approfondimento è in alcuni casi senz’altro abbondante, in altri forse carente, e l’attenzione è forse sbilanciata a favore dell’evoluzione della normativa, rispetto a quella delle pratiche, delle esperienze concrete.
Se dovessi identificare il pregio maggiore, mi pare che sia lo sforzo di ricerca documentaria e di riproposizione diretta delle fonti che ne sta alla base: perché dentro la mole davvero imponente delle pagine, sono molte le perle nelle quali ci si imbatte, le cose che erano dimenticate e che fanno riflettere. Molti sono i documenti interessanti riportati, e ne sono senz’altro un punto di forza, come l’appassionato appello di Sartre, Chomsky e Dedijer lanciato in difesa di Basaglia sotto processo (p. 169), o il giudizio di Bobbio sulla 180 (p. 255), o in senso contrario il riferimento al suicidio di un care-giver che si sentiva abbandonato dai servizi a Brescia nel 1982 (p. 263), o ancora il dibattito tra Basaglia e Orsini, ospiti di Maurizio Costanzo (pp. 275-279), ma anche moltissimi altri. E forse, il principale limite invece è il fatto che l’attenzione per il dibattito in alcuni casi non sia pari a quella per le fonti; un po’ come se, su vari temi, dalle fonti a questo volume poco fosse stato scritto e discusso. Se si dovesse dare una valutazione complessiva, perciò, il tratto fondamentale di questo testo – che ne è insieme il difetto e il pregio – mi pare una sorta di “voracità”, di “affanno” quasi, un bisogno di toccare tanti temi, approfondendone alcuni, e altri inevitabilmente no.
Vi si trovano, come dicevo, passaggi rispetto ai quali il lavoro di ricerca e documentazione è decisamente minuzioso e prezioso: il dibattito a monte della promulgazione della legge 36/1904 e le sue previsioni, scelto come punto di partenza, e poi le sue conseguenze. I ritocchi normativi apportati in senso custodialistico in epoca fascista, ma anche la ripresa dell’aumento del numero di posti letto nel dopoguerra, un fenomeno di cui si parla poco. La precisione con cui è ricostruito il dibattito nella Costituente sull’art.32, che ho trovato di grande interesse perché infondo è proprio lì che la questione del TSO e della legge 180 trovano un fondamento spesso trascurato. Il dibattito sulla promulgazione della legge 180 – un ampliamento del diritto di cura ai non pericolosi e scandalosi, scrive Esposito, e mi sembra originale e interessante vederla anche da questo lato – con la ricca e documentata ricostruzione del dibattito, in particolare sulle questioni spinose: TSO, SPDC e suo rapporto coll’organizzazione dipartimentale, e quella del ruolo (meglio del non-ruolo) giocato in quella fase dall’Università. Con lo stesso approccio di questi momenti, vengono affrontati nodi molto recenti: il superamento degli OPG, la questione della contenzione che dalla citazione dal viaggio del belga Joseph Guislain in Italia nella prima metà dell’Ottocento alla vicenda di Franco Mastrogiovanni con le fasi più recenti del dibattito attraversa tutto il volume come una sorta di fil rouge, ai più recenti aspetti della questione psicofarmacologica e delle terapie di modulazione cerebrale. E ho trovato senz’altro pregevole la puntuale ricostruzione della promulgazione a breve distanza dei due decreti Bindi in tema di terapia elettroconvulsivante (pp. 466-469), o quella del pronunciamento della Cassazione sulla contenzione in riferimento al caso Mastrogiovanni (pp. 484-393). Se occorra, poi, come vorrebbe l’Autore, una legge che esplicitamente vieti la contenzione negli SPDC, mi pare opinabile, perché questa previsione mi pare già garantita dall’attuale quadro normativo, e come ben si vede questo non è sufficiente a limitare il ricorso al solo stato di necessità, perché è la definizione di stato di necessità che rischia di presentare in questo caso confini troppo labili. E quanto poi all’ipotesi che il fatto che questo reato sia compiuto in ambito sanitario possa essere previsto come aggravante, ci si può ragionare anche se io resto convinto che la scorciatoia di perseguire la riduzione o l’abolizione della contenzione per legge sia destinata a dare scarsi risultati, e per ottenere quest’obiettivo sia più importante invece lavorare a una trasformazione della cultura dei gruppi di lavoro[i], a partire ovviamente da chi li dirige.
In altri casi il volume non introduce sostanziali novità rispetto a vicende già note, ed è il caso dei riferimenti al dibattito eugenetico, alle due guerre, il cammino dal dopoguerra alla legge 180, le prassi di trasformazione degli anni ’60-‘70 dove però è interessante l’ampliamento della prospettiva di studi precedenti con l’inclusione di Nocera, Torino, Reggio Calabria.
Alcuni temi mi sono parsi affrontati in modo che mi è parso forse un po’ troppo convenzionale e sbrigativo: è il caso della storia del manicomio che quasi parrebbe sia stato, al di fuori di una prospettiva storica, nel suo secolo e mezzo di vita sempre lo stesso; o di una questione complessa come quella dell’ergoterapia della quale non viene forse del tutto colto il carattere ambiguo di elemento disciplinante ma anche evolutivo, strumento di coercizione e ricatto a volte, ma altre testimonianza di autentico e appassionato sforzo di cura là dove altre cure non c’erano, o il fatto che sempre nella letteratura ottocentesca a un maggior impegno nell’ergoterapia corrisponda minore ricorso alla contenzione e viceversa[ii]; o la nascita del manicomio giudiziario e i nodi più delicati del suo superamento, a proposito del quale vengono sì riportati preziosi documenti come quello della posizione del CSM sui delicati e discussi temi delle misure di sicurezza provvisorie o delle liste d’attesa per le REMS, ma poi i riferimenti al dibattito in atto e ai punti di vista alternativi su queste questioni non sono forse sufficienti[iii]; o ancora la funzione dell’amministrazione di sostegno, figura sull’utilità della cui introduzione siamo tutti d’accordo[iv], ma della quale mi pare non siano colte a sufficienza quelle che si stanno via via rivelando le criticità, almeno nella mia esperienza, a partire dal sentimento di oppressione che spesso la nomina evoca comunque nel “beneficiario” (che tale spesso non si sente, nonostante le buone intenzioni, per nulla) o il ruolo neoistituzionalizzante che rischia a volte di assumere, per carenza di cultura antiistituzionale, chi esercita la funzione nella dialettica coi servizi (“se è collocato lì, si è tutti più tranquilli”…).
In altri casi ancora poi la posizione di Esposito mi pare tradire un’ambivalenza, come nelle pagine dedicate al ruolo degli psicofarmaci nella deistituzionalizzazione, che sono testimonianza di uno sforzo da parte sua di coglierne, da un lato, sulla scia di varie e profonde citazioni da Basaglia, il carattere complesso; e della tentazione, dall’altro, di sottolinearne unilateralmente il carattere disciplinante e sfigurante la “naturalità” della follia, al cui fascino l’Autore pare non sapersi del tutto sottrarre. Pagine in bilico, insomma, tra Basaglia e Antonucci, mi pare queste, senza saper esercitare un’opzione decisa a favore del primo come, personalmente, credo che sia opportuno.
2. “Le scarpe dei matti”, e me stesso: in dialogo con Antonio Esposito
Storia della psichiatria, pericolosità/follia, contenzione, TSO, responsabilità dello psichiatra, residenzialità: sono indubbiamente molti gli interessi comuni ad Antonio Esposito e me perché i nostri sentieri non si incrociassero, in molti casi con consonanza e in qualcuno no. Così almeno per me questo è un testo che m’invita a un ideale dialogo – per ora solo a distanza purtroppo ma in futuro spero diretto – con l’Autore, che ringrazio senz’altro, ad esempio, per l’apprezzamento ripetutamente espresso al mio La guerra dentro[v] a proposito della psichiatria durante il fascismo e la guerra.
Mi sono occupato della questione della pericolosità che può (può!) essere insita nella follia in due recenti articoli ai quali tengo particolarmente[vi], dove ho tentato un’esegesi degli accenni di Basaglia alla questione nei quali mi era capitato d’imbattermi. Non conoscevo però – e sono grato per la sua pubblicazione nel testo (p. 168) tra i vari documenti preziosi proposti in modo integrale – l’intervista di Basaglia sul tema pubblicata su Paese Sera del 9 marzo 1975 – quindi nei giorni del processo di Trieste – che certo mi sarebbe stato utile in quelle occasioni prendere in considerazione, e lo faccio adesso ringraziando l’Autore per avermelo messo a disposizione. Ma constato (con il sollievo che sempre si prova in questi casi nei quali “scripta manent”…) che esso ribadisce nella sostanza ciò che i Basaglia sostenevano già sette anni prima nell’appendice su L’incidente a L’istituzione negata, e su cui il mio ragionamento in quelle due occasioni si fondava (certo, con un po’ di passione in più perché qui si tratta di un quotidiano e là di una monografia, e perché l’incidente lì – marzo 1968 – è ancora solo un’ipotesi, mentre ora è accaduto e si è nel pieno delle sue conseguenze giudiziarie).
E per fare emenda dell’omissione, riprendo qui il brano nella citazione di Esposito (p. 168):
« Il fatto di cui sono incriminato è grave e io non intendo sminuire l'entità. [. . .] per quanto riguarda il problema della pericolosità del malato di mente credo che il tecnico delegato alla sua cura debba
fare una scelta di fondo: decidere se il suo compito sia quello di curare e di riabilitare il malato a lui affidato, o di continuare a limitarsi a difendere la società dal pericolo da questi rappresentato. In ogni intervento tecnico esiste un margine di rischio accettato negli altri settori della medicina come il segno del limite cui può arrivare la scienza. In psichiatria per evitare questo rischio si continuano ad uccidere esseri umani sofferenti, indifesi e handicappati fisici o psichici. I nostri manicomi – la cosa è oramai universalmente nota – sono luoghi in cui quotidianamente si perpetrano questi crimini, per i quali pare esista una generalizzata immunità. Chi si oppone a questi crimini, chi lotta
perché la psichiatria sia veramente una scienza al servizio del malato, chi si preoccupa della violenza che viene perpetrata sotto l’alibi della gerarchia e della tutela, sceglie di stare dalla parte dei bisogni dell'uomo: sceglie quindi di correre i rischi che la sua funzione professionale politicamente gli impone. Perché per il malato mentale si esige di prevedere e prevenire ogni gesto senza accettare di correre i rischi che ogni uomo corre quotidianamente? Se l’alternativa al rischio che non si vuol correre nei confronti della pericolosità, presunta al cento per cento del malato mentale, è la violenza, l’uccisione, la tortura di tutti gli internati, il medico – consapevole del suo compito nei loro confronti – non può che scegliere di continuare a rischiare contro l’incomprensione, l’ignoranza, l’arretratezza, la malafede di chi con l'alibi della tutela dell’ordine pubblico vuole conservare intatta l’organizzazione sociale e i privilegi che questa garantisce. Se non vuole essere un assassino legalizzato. In questo senso mi pare che quest’ultima incriminazione abbia un significato abbastanza esplicito: così come si elimina il malato mentale perché rappresenta un elemento di disturbo sociale si cerca di eliminare chi, volendo stare dalla sua parte, rappresenta un analogo elemento di disturbo sociale».
Un dialogo con l’Autore, dicevo. Con il quale sono d’accordo quando replica ai tentennamenti, ad esempio di Food, che la legge 180 è, come ammiratori e denigratori hanno da sempre stabilito, la “legge Basaglia”, né altri eponimi potrebbero esserle attribuiti (p. 290). Mentre non mi trovo d’accordo su quanto Esposito cita da Piccione[vii] e pare condividere (p. 332) sull’ASO: perché certo esso non può prevedere limitazioni in senso generale della libertà, ma in caso di necessità deve invece proprio prevederle, o non si comprende dove starebbe il carattere di obbligatorietà. E poi di nuovo apprezzo quanto segue sulla tutela della dignità e il ruolo del Garante, e trovo pregevoli le successive considerazioni sulle criticità della normativa in tema di TSO, dal rapporto con l’urgenza, lo stato di necessità, gli aspetti giuridici del tempo d’attesa dell’ordinanza, la proroga, il problema dell’appartenenza di proponente e convalidante alla stessa équipe (o addirittura dell’esistenza di un rapporto gerarchico tra i due), i rischi connessi all’uso di strumenti come il taser ecc[viii]. Mentre, come altrove ho più estesamente argomentato, io non penso però che si possa coltivare l’illusione di scongiurare, come Esposito parrebbe auspicare, “il rischio di riproporre (…) una connotazione securitaria dell’intervento psichiatrico” (p. 359): la psichiatria ha sempre un coté securitario, dal quale non può prescindere, ma dal quale certo non deve farsi soffocare.
E proprio Esposito ne pare poi consapevole nelle pagine successive, dedicate alla collaborazione tra personale sanitario e forze dell’ordine, nell’ambito delle quali trovo un lungo e articolato riferimento a un mio articolo sul recente caso di emergenza nel corso del quale a Borzoli (Genova) le forze dell’ordine intervenute hanno sparato, uccidendolo, a un giovane probabilmente ubriaco che dovevano disarmare da un coltello[ix].
Suggestiva ma per alcuni aspetti pericolosa e forse eccessivamente pignola, mi pare che a Esposito sembri la mia idea che si debba distinguere il più possibile nettamente ciò che è emergenza di ordine pubblico da ciò che è TSO, nonché la relativa responsabilità prioritaria (prioritaria, non esclusiva) nell’intervento: alle Forze dell’ordine quella nell’intervento di ordine pubblico, ai sanitari quella nel TSO. E dietro questa posizione mi pare di cogliere da un lato una certa remora da parte sua a delegare l’intervento di ordine pubblico a chi ne è titolare, quasi che ciò debba portare inevitabilmente a esiti tragici come quello qui considerato, o quasi che gli appartenenti alle forze dell’ordine fossero del tutto incapaci di un intervento – certo non si pretende specialistico – ma comunque relazionale (e in questo pregiudizio credo giochi la mancanza di esperienza sul campo, perché in realtà la casistica è estremamente variabile). Invece, a me pare che sostenere che l’emergenza di ordine pubblico debba essere gestita prioritariamente dalle Forze dell’ordine significhi anche pretendere che esse debbano gestirla “bene”, e in ogni caso la presenza dei sanitari non può essere invocata in questi casi come quella di “badanti” dei poliziotti che sono lì per ammorbidirne o renderne democratico lo stile d’intervento. E, dall’altro lato, mi pare di cogliervi anche una tendenza a considerare la situazione di (presunto, finché non si è visitata la persona) TSO diversa dalle altre emergenze, fino a pretendere se ho ben inteso che in quel caso il medico intervenga sempre per primo, e chiami poi solo se necessaria poi la polizia… E questo francamente proprio no: di fronte a un coltello agitato da un soggetto sconosciuto ai servizi e forse ubriaco, prima si chiama la polizia e poi si interviene, checché ne dicano le raccomandazioni! Perché un coltello taglia in psichiatria come in tutti gli altri contesti.
E qui, mi piace ricordare però anche come nel corso della mia ormai purtroppo non brevissima esperienza di queste situazioni, ce ne sono state almeno tre nelle quali ricordo di aver provveduto io direttamente a disarmare un soggetto nel corso di un intervento, ma si trattava in questi casi di “miei” pazienti, che ben conoscevo, con i quali esisteva una relazione e dei quali ritenevo su queste basi di poter essere sufficientemente sicuro che non mi avrebbero fatto del male. Il che è cosa del tutto diversa dall’intervento con uno sconosciuto, del quale lo stato mentale appare per di più verosimilmente alterato da un’intossicazione.
Né ancora, credo – e di nuovo mi pare che il fatto di sostenerlo possa originare per Esposito dalla mancanza di esperienza diretta sul campo – che la soluzione alla complessa collaborazione tra CSM e Forze dell’ordine nell’emergenza possa trovarsi più di tanto nei protocolli o nella reciproca buona disposizione. Due cose che, l’esperienza m’insegna, quando ci si avvicina al luogo dell’emergenza concreta rimangono indietro; nell’emergenza invece è proprio bene per tutti, e così i manuali dell’emergenza in genere prescrivono, che ci sia per ciascuna fase un solo regista e che sia definito il più possibile a priori chi dev’essere.
Insomma, rimango comunque convinto nonostante le osservazioni di Esposito che per parlare di TSO il minimo sia chiarire cosa è TSO e cosa non lo è, e che per essere un “TSO”, un trattamento bisogna che sia sanitario; non vedo cosa ci sia di sanitario nel disarmare qualcuno che minaccia, di un coltello. Mi pare, anzi, il più evidente intervento di ordine pubblico; che poi il medico possa dare una mano anche in quel caso… beh, per carità, se serve a far sì che nessuno si faccia male senz’altro, ma dev’essere chiaro che la sola presenza di supporto del medico non trasforma un intervento di ordine pubblico in un intervento sanitario. O se no, di questo passo, il TSO rischia di diventare un concetto privo di delimitazione e confuso, e si finirà per evocarlo anche quando la polizia contiene l’ubriachezza molesta, la violenza da stadio, e via via la violenza politica…. Il che non credo che auspichi neppure l’Autore, visto che poco prima era preoccupato proprio di evitare il più possibile la deriva securitaria in psichiatria!
Mi sono trovato poi spesso, e gliene sono ovviamente grato, tirato in ballo quando nel testo si parla di contenzione. Ma ho dovuto però registrare una spunto polemico che mi è parso davvero gratuito, e sul quale a malincuore non credo di poter proprio sorvolare, nel caso in cui Esposito cita tra l’altro da un testo di cui sono coautore[x] un brano che termina con queste parole (p. 510): «Il tempo trascorso col paziente deve essere valutato empaticamente di volta in volta; egli può avere un atteggiamento rabbioso verso lo staff, e in questo caso è importante non stimolarlo con una presenza troppo invadente e assidua. Più frequentemente, occorre però tener presente che la contenzione è una situazione dolorosa, e il paziente può anche soffrire in quel momento per motivi inerenti alla propria condizione patologica o la propria storia personale: è perciò importante essere disponibili ad offrirgli compagnia e ascolto, se richiesti». E ora, se il linguaggio ha un senso, non capisco davvero come questo passaggio nel quale l’ipotesi che il dolore del paziente derivi anche dalla condizione patologica è solo una su tre (la principale essendo ovviamente che la contenzione è una situazione dolorosa in sé, e l’altra subordinata che il dolore possa nascere anche dalla storia personale), possa essere commentato in questi termini: «Finché si riterrà che il dolore sia solo una possibilità per chi subisce la contenzione e ci si sforzerà di riportarlo alla condizione patologica, sarà impossibile riconoscere quello spazio del disumano che queste pratiche definiscono».
E preferisco pensare che questo fraintendimento che mi pare evidente sia dipeso da una lettura, mi pare, davvero molto distratta del nostro passaggio (che peraltro è lo stesso Autore a trascrivere alla lettera!), che non da una preconcetta ricerca di ingiustificata polemica o da un attimo di bizzarra presunzione di essere il solo che del dolore che implica per il paziente la contenzione si accorga.
E sono invece decisamente più soddisfatto di come sono citate – anche se probabilmente non condivise, e questo è legittimo, per carità – le mie posizioni in tema di contenzione in una nota (a p. 666), nella quale ci si riferisce allo stesso libro ricordando che la contenzione vi è definita come evento doloroso, da evitare ma in alcuni casi necessario (e mi riconosco in questo, tra l’altro, perché ciò non corrisponde infondo, sul piano giuridico, proprio allo stato di necessità?). E perché vi si ricorda poi come, proprio nella ricerca di un dialogo tra posizioni diverse, lo stesso libro contenga anche uno scritto abolizionista di Benevelli. O ancora di più in altra nota (a p. 667) dove sono anzi grato all’Autore di aver voluto ricordare un fatto cui sono affettivamente molto legato, cioè la riscoperta da parte mia nel 1994, a novant’anni di distanza, della relazione di Ernesto Belmondo a Genova nel 1904, che in seguito è divenuta, meritatamente, parte integrante del dibattito in atto.
“Le scarpe dei matti”, insomma? Beh, è un libro che ricorda tante cose importanti su tanti temi, e che ha a monte un pregevole lavoro di archeologia e riproposizione delle fonti del quale si vedono i frutti. Leggendolo, mi è capitato di trovarmi in molti casi d’accordo, in altri no; dunque, è un libro che non lascia indifferenti ma invita, mi pare, a entrarci in dialogo e anche questo è un pregio. Non può essere considerato una storia della psichiatria italiana per gli anni considerati, ma ricostruisce senz’altro cose interessanti al riguardo. E fornisce anche materiale importante per affrontare i temi al centro del dibattito psichiatrico odierno, in qualche caso in modo esaustivo e in qualche altro inevitabilmente meno. Credo comunque senz’altro che si tratti di un testo originale, che recupera e propone importanti tasselli per il dibattito in vari ambiti, e che gli aspetti da apprezzare siano maggiori dei limiti e valga perciò la pena di provarle, queste “scarpe dei matti”, leggendolo il libro e invitando a leggerlo.
Nel video allegato: Franco Basaglia intervista Bruno Orsini
[i] Cfr. in questa rubrica: In tema di contenzione meccanica. Pensieri sparsi, 20 agosto 2019.
[ii] Rimando ad alcuni spunti personali al riguardo: P.F. Peloso, Interventi in tema di ergoterapia sulla stampa medica ligure d'inizio secolo, Sanità Scienza e Storia, 1-2, 1992, pp. 257-283; P.F. Peloso, Etica e terapia del lavoro nel giovane Morselli, in: "Il soggetto fra trasformazione e deformazione", Savona, C.S. Allcopy, 1993, pp. 37-44; P.F Peloso, Osare la psichiatria. Benefici, rischi e significato dell’ergoterapia nella polemica degli anni ’70 dell’Ottocento, Rivista di Storia della Medicina, XXV, n.s., 2, 2015, pp. 197-217
[iii] Della questione del superamento degli OPG, ci si è ripetutamente occupati in questa rubrica: La chiusura dell'OPG e i servizi. Note in tema di psichiatria, controllo, quanto controllo,13 dicembre 2015; Nell’area grigia tra medicina e giustizia sta la persona. Pensieri sulla questione OPG, di ritorno da Pontignano. Parte I: Il bianco e il nero, 2 giugno 2016; Parte II: … a tentoni nella notte (cercando di non dare facciate), 16 giugno 2016; Rems al via! Un convegno a Trieste, 2 febbraio 2017.
[iv] E ricordo al riguardo il contributo personale: L. Ferrannini, P.F. Peloso, Sofferenza psichica e amministrazione di sostegno, in: L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli (a cura di G. Ferrando), Milano, Giuffré, 2005, pp. 69-80.
[v] P.F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), Verona, ombre corte, 2008 (cfr. la scheda).
[vi] Mi riferisco in particolare a: P.F Peloso, Osare la psichiatria. Benefici, rischi e significato… cit. in nota 2, e soprattutto a: P.F Peloso, Dalla sorveglianza al sostegno. Note su pericolosità e controllo in psichiatria, Psicoterapia e scienze umane, LI, 2, 2017, pp. 285-296, nonché agli interventi di commento di Angelozzi e Pozzi sullo stesso numero e alla controreplica: Alcuni chiarimenti a proposito di pericolosità e controllo in psichiatria, Psicoterapia e scienze umane, LI, 3,2017, pp. 447-451
[vii] Sul testo di Daniele Piccione, cfr. la recensione su Pol. it: P.F. Peloso, Il pensiero lungo. 70 di Costituzione, 40 di 180, 13 gennaio 2018.
[viii] P.F. Peloso, Pensieri, dubbi, domande sul TSO a lato di un episodio estivo. Parte I, Ordine, norma, organizzazione, POL. it, 9 ottobre 2015; Parte II, Ordine, corpo, soggetto, POL. it, 11 ottobre 2015.
[ix] P.F. Peloso (2018): Il tragico incidente di via Borzoli: un intervento di emergenza, ma non un TSO, Forum per la salute mentale, 2018.
[x] R. Catanesi, L. Ferrannini, P.F. Peloso (a cura di), La contenzione fisica in psichiatria, Milano, Giuffré, 2006.
Il comento a caldo di Antonio
Il comento a caldo di Antonio Esposito su Facebook: «Le riflessioni di Paolo Peloso su “Le scarpe dei matti” colgono un punto centrale di questo lavoro (e mi aiutano a risolvere un equivoco): non è un libro sulla storia della psichiatria in Italia, piuttosto, come indica il sottotitolo, il tentativo di approfondire genealogicamente, pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici come si sono evoluti in Italia dalla prima Legge psichiatrica del 1904 ad oggi. La restituzione di Paolo Peloso, che viene da una lettura approfondita del testo e da una lunga esperienza della materia, riporta anche profonde critiche a questo lavoro. Naturalmente non su tutte concordo (ogni scarraffone è bello a mamma sua), ma le accolgo come è giusto che ogni autore accolga le contrarietà sollevate da ogni lettore. Nella seconda parte dello scritto, Paolo Peloso continua un ideale nostro dialogo iniziato proprio nelle pagine di questo libro, su temi come il tso e la contenzione in psichiatria. Su quest’ultimo aspetto segna una delle critiche più profonde. Certo, ne “Le scarpe dei matti” si propone una contrarietà netta e totale verso il ricorso alla contenzione (provando a motivarla giuridicamente oltre che eticamente), questo senza però mai nemmeno sfiorare l’idea di essere interprete o depositario del dolore di chi subisce queste pratiche. Penso solo che quel dolore, la dignità di queste persone, dovrebbero essere la stella polare di chi opera e di chi si occupa di questi temi».